La felicità e quella pretesa di averne diritto come prestazione. Ricordando Emanuele Samek Lodovici a quarant’anni dalla morte
di Aldo Maria Valli
Nel fascicolo di giugno (n. 724) di Studi cattolici il direttore, Cesare Cavalleri, fa un bellissimo regalo ai lettori pubblicando un inedito di Emanuele Samek Lodovici, il filosofo scomparso quarant’anni fa, appena trentottenne, il 5 maggio 1981, per i postumi di un incidente stradale. Grazie al figlio Giacomo, che ha conservato il testo, disponiamo della trascrizione di questa conferenza che Samek tenne davanti a un pubblico di giovani, un anno prima della morte, il 9 maggio 1980. Il tema è la felicità, anzi il diritto alla felicità, e Samek lo affronta con freschezza e profondità, secondo lo stile che gli era proprio e che tanto veniva apprezzato.
Riconoscendo preliminarmente che il concetto di felicità è tra i più difficili da definire, Samek spiega che il diritto alla felicità, come il diritto alla qualità della vita e il diritto all’autorealizzazione di sé, tutte nozioni che oggi diamo piuttosto per scontate, in realtà non è sempre esistito, ma ha una data d’inizio, che coincide con l’Illuminismo, quando si afferma l’idea (di cui è interprete in particolare il marchese De Sade) secondo cui ognuno di noi in quanto soggetto ha diritti assoluti su tutto e su tutti, principio che ha come conseguenza l’idea che qualunque sofferenza dell’altro non vale il mio più piccolo piacere.
Se prima dell’Illuminismo, quando si parlava di diritti (per esempio al lavoro, alla proprietà) si aveva una nozione attiva del diritto stesso (il diritto che il soggetto ha di darsi da fare per ottenere o tutelare un determinato bene), in seguito si afferma una nozione passiva del diritto, secondo cui non è più il soggetto che si deve attivare, ma sono gli altri che devono garantire al soggetto i diritti.
Da questa rivoluzione copernicana nascono conseguenze di enorme portata, che oggi stiamo sperimentando in tutta la loro rilevanza. Se ogni soggetto ha diritti assoluti sugli altri, se il diritto alla felicità è considerato in modo passivo, come diritto a ottenere una prestazione che gli altri mi devono assicurare per farmi felice, e dunque io non chiedo più a me stesso di impegnarmi per essere felice, ma pretendo che siano gli altri ad attivarsi, ogni ambito della vita risulta segnato da questa visione. Evidente il caso del rapporto di coppia, nel quale il diritto alla felicità smette di essere impegno reciproco di attenzione all’altro per diventare rivendicazione: è l’altro che deve rendermi felice. Di qui il divorzio e l’aborto, strumenti attraverso i quali si elimina chi mi impedisce di realizzare il mio diritto alla felicità inteso come diritto all’affermazione di me stesso.
Una conseguenza della rivoluzione si ha pure nel rapporto tra figli e genitori, per cui i figli pretendono che i genitori assicurino loro la felicità come prestazione. Ma anche il rapporto tra cittadino e Stato è segnato dalla nuova visione, perché è proprio lo Stato che sempre più spesso, e in modo sempre più pesante, interviene per tutelare il diritto alla felicità inteso come autoaffermazione del soggetto. Samek, come detto, morì nel 1981 e quindi non vide il progressivo imporsi della cosiddetta teoria gender, ma la sua analisi la prefigura chiaramente.
Samek nel suo giudizio è netto: come non esiste un diritto alla bellezza o un diritto all’intelligenza, non esiste neppure un diritto alla felicità, se lo intendiamo come diritto di ricevere una prestazione e dunque di usare gli altri come mezzi. D’altra parte, però, è impossibile negare che nell’uomo c’è un’insopprimibile tendenza alla ricerca della felicità. E allora?
L’esito della ricerca della felicità ha un che di paradossale. Se la pratichiamo nel senso della nostra affermazione sugli altri, non la raggiungiamo mai. Il diritto alla felicità inteso come diritto a ricevere una prestazione non porta alla felicità, ma a una continua rivendicazione, come si vede bene ai nostri giorni. E la continua rivendicazione assicura una cosa soltanto: la scontentezza.
Una felicità più vera e piena si ha non quando si pretende di eliminare il dolore, la sofferenza, il sacrificio, ma quando li assumiamo. Solo nel rapporto con il limite si sviluppa la vera felicità. Samek cita un proverbio di una volta: “Settimana faticosa, festa lieta”. Il cuore è lieto non nella misura in cui pretende di eliminare fatica, dolore, malattia, dispiacere, delusione, ma nella misura in cui fa i conti con tutto ciò. “La gente – dice Samek rivolto ai giovani in tono colloquiale – è infelice perché non siamo in grado di accettare la sofferenza, la possibilità della sofferenza”. E chissà che cosa avrebbe detto oggi, in questo mondo alle prese con un virus che tanto ci sta condizionando.
Ultima conseguenza del ragionamento: la felicità totale io non sono in grado di darmela. Ammissione che comporta un sano atteggiamento di scetticismo verso tutti i progetti di società globale felice e di paradiso realizzato sulla terra. La felicità totale, intesa come assenza di limiti e di sofferenza e come totale affermazione di sé, non è di questo mondo.
Samek chiude con le parole di quello che definisce “un grande fenomenologo”. Il quale diceva: “Solo chi perde la sua vita la salverà, e chi vuole conservarla la perderà”. Le sofferenze certamente non vanno cercate, ma occorre essere capaci di accettarle.
Per chi volesse approfondire la conoscenza di Emanuele Samek Lodovici consiglio di consultare il sito a lui dedicato e di leggere il libro L’origine e la meta, con una serie di studi sul suo pensiero.
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