Ha fatto molto discutere l’atteggiamento di gran parte dei calciatori inglesi dopo la finale degli Europei. Al momento della premiazione, si sono sfilati subito la medagli d’argento, in un gesto di disappunto. In proposito ecco un contributo apparso sulla pagina Facebook dell’Associazione pedagogica Mud.
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Premessa: questo post non parla di calcio. Il calcio è uno spunto per parlare di educazione.
Domenica sera, al termine della finale degli Europei, abbiamo visto i giocatori della nazionale inglese togliersi la medaglia d’argento appena ricevuta, a volte senza nemmeno averla guardata. Non intendiamo con questo articolo biasimare i giocatori, tantomeno gli inglesi come popolo, né è nostra intenzione innalzare gli italiani su un piedistallo. Guardiamo invece al gesto, indipendentemente da chi lo ha compiuto, tanto più che non è la prima volta che lo osserviamo dopo una finale: che si tratti di calcio, di rugby o di altre discipline, di atleti di qualsiasi nazionalità, il rifiuto dell’argento sta diventando sempre più una routine. Una routine trasmessa però in mondovisione, davanti agli occhi spalancati di giovani che osservano, si interrogano e vogliono spiegazioni.
Perché rifiutare l’argento che ti viene donato? Innanzitutto la medaglia d’argento è un simbolo, e un simbolo parla chiaro. Ma cosa dice questo simbolo? Dice, a te atleta, alla tua squadra e a tutti, che sei arrivato secondo. Già, dice che non hai vinto, che non ti sei affermato come il migliore in assoluto. Dice che qualcuno è stato migliore di te in un frangente, in una partita, in un ambito, in un momento. E questo brucia, delude, può mettere rabbia e tristezza. Se la comunicazione si fermasse qui renderebbe quel rifiuto se non giustificato, almeno più comprensibile.
Ma l’argento non dice solo questo: intanto si tratta di un metallo prezioso, che viene dall’antichità. E i nostri avi non erano stupidi, non davano un materiale prezioso a chi non valeva niente. Questo metallo prezioso dice il grande valore dell’impegno e della fatica nel percorso che ti ha portato a quel secondo posto. Dice che quella fatica non è stata sprecata: essa viene riconosciuta ugualmente, a te a i tuoi compagni. Dice che, se anche non sei stato il migliore, puoi stare di fronte a questa situazione come una persona di valore, che può tenere la testa alta ed essere comunque orgogliosa di sé. Una persona, o un gruppo, che può ancora fare strada per imparare e crescere, può intraprendere nuove strade e nuovi percorsi. Da qui potranno nascere nuove gioie, nuove delusioni, nuova vita insomma.
Spesso sbagliamo ad ascoltare questo messaggio, ci fermiamo alla prima parte della comunicazione e la storpiamo: “Non sei arrivato primo? Allora non vali niente”. E spesso i nostri giovani crescono in questo clima altamente competitivo.
Non sembra verosimile? Qualche settimana fa, ai bordi di un campetto dove stavano giocando bambini di sei anni, ho sentito un padre vantarsi con altri genitori di aver promesso al figlio tre euro per ogni gol segnato. Ora, per quale motivo giocherà questo bimbo? Per divertirsi? Per segnare tutti i gol della squadra? Per guadagnare 3, 6, 9 euro? A quale prezzo? E come guarderà questo bambino il compagno che non riesce a segnare?
Concepire unicamente la vittoria come opzione soddisfacente porta con sé un carico di frustrazione continua e di disillusione che sembra indiscutibile. La statistica, ancor prima dell’educazione, ci dice una cosa semplice: uno solo arriva primo. Nella vita di ciascuno accade molto più spesso di non vincere piuttosto che di affermarsi come vincitore: non per questo io non valgo nulla. Tutte le medaglie d’argento, di bronzo e di legno che la vita mi offre mi dicono che mi sono messo in gioco, che a volte ho fallito ma ho cercato di apprendere e di rialzarmi. Per questo è importante accettarle, perché mi insegnano che il tragitto da me compiuto, magari insieme ad altri compagni di vita, di lavoro, di studio, amici, continua ad avere grande importanza al di là degli applausi e del riconoscimento per essere arrivato primo, per aver svettato al di sopra di altri.
Vincere è bellissimo, è una goduria, si gioca (e si vive) anche per quello. Però come educatori dovremmo parlare sempre più spesso della possibilità, e dell’importanza, della sconfitta e dell’errore non come della fine dei giochi (e della vita), ma come un passaggio fondamentale dell’esperienza verso l’età adulta, da vivere a maggior ragione nel gioco, nello sport e nella scuola.
Forse (forse!) avremo ragazzi maggiormente disposti alla collaborazione, meno arrendevoli e sfiduciati di fronte a esperienze che sembrano difficili (quanti giovani, con una bassa autostima, abbandonano la scuola o semplicemente non leggono un libro perché sembra troppo difficile? “Non ce la farò, tanto vale non provarci nemmeno” sembrano dirci). Forse (forse!) avremo giovani più pronti ad affrontare la vita, che è fatta sì di vittorie, ma anche di tante sconfitte altrettanto importanti e feconde.
Teniamocela stretta quella medaglia d’argento.
Fonte: Associazione Mud
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