di Matteo Taufer
Alle cure di Aldo Maria Valli si deve un agile volume, di taglio intenzionalmente discorsivo e nondimeno denso di stimoli alla riflessione, sulla nuova “traduzione” Cei del Padre nostro in Mt 6, 13 e Lc 11, 4, cioè «non abbandonarci alla tentazione» (così ne La sacra Bibbia Cei, Città del Vaticano 2008, ripresa nella recente ed. Cei del Messale Romano, Roma 2020, pp. 163/445/483, entrato in vigore lo scorso 4 aprile). A legittima e anzi doverosa difesa del consueto “non indurci in tentazione” Valli ha riunito alcuni pareri, per lo più di religiosi (Nicola Bux, Giulio Meiattini, Alberto Strumia, Silvio Barbaglia) ma anche di un laico (Silvio Brachetta), che variamente convengono sull’inopportunità d’imporre nelle celebrazioni una versione inadeguata ed essenzialmente erronea della sesta domanda del Padre nostro.
Valli introduce (pp. 1-11) i varî contributi critici sottolineando anzi tutto come l’originale greco sia mē eisenénkēs, ben reso dal latino ne inducas, cioè “non indurre”/”portar dentro” (nella tentazione/prova), non certo un’altra forma verbale che significhi “abbandonare”. Ma è davvero da respingere, sul piano teologico, l’idea che Dio ci sottoponga a prove (visto che in tal senso dev’esser intesa la tentazione) e lasci talvolta campo libero all’avversario? «La questione vera – risponde Valli nel solco delle tradizioni patristica e scolastica – è che Dio certamente permette la tentazione, e non in via straordinaria o marginale, ma come esperienza costante» (p. 6).
Sugli effetti provvidenziali della “prova” il curatore interpella mons. Bux (pp. 13-20), noto liturgista, che dopo aver ribadito l’equivalenza, in temptatio, di tentazione e prova di fedeltà a Dio («non si può chiedere a Dio di “non abbandonarci alla tentazione”, ma di non introdurci nella prova e di liberarci dal maligno», p. 16), parla inquieto di un’«ideologia del cambiamento, non disgiunta dall’idea che il Messale non sia norma, ma canovaccio da interpretare e modificare» (p. 17). Adesso è il caso, che Bux definisce a buon diritto non ecumenico né vòlto a crear ponti, del rigetto di “non indurci in tentazione”; ma già nella nuova liturgia dell’ultimo concilio l’evangelicamente fondato pro multis della formula consacratoria (perì pollôn in Mt 26, 28, hypèr pollôn in Mc 14, 24; ancor più restrittivo hypèr hymôn in Lc 22, 20) era divenuto «per tutti», creando un ulteriore fattore divisivo tra le Chiese (pp. 18-19).
Dom Meiattini ricorda poi la legittimità, in italiano, della pur vetusta valenza di indurre nel senso di “condurre in un luogo” (p. 24), valenza che rispecchia senz’altro l’inducere vulgato a sua volta calco di eisenenkeîn. Scostarsi da questa rigorosa tradizione di fedeltà al greco è imprudentemente grave, né risolve il problema insito, invece, in peirasmós: “prova” o “tentazione” o l’una e l’altra? Problema che tuttavia riguarda la sola resa italiana, che diversamente dal greco e dal latino non può ricorrere a un solo termine per esprimere “tentazione” e “prova”. Va da sé peraltro che Dio non è tentatore nell’accezione malefica della parola, bensì mette alla prova i suoi per saggiarne lo spirito, come dimostrano molti luoghi vetero- e neotestamentari (memorabile Gen 22, 1 Deus tentavit Abraham, citato a p. 26). La petizione è dunque quella di non esser introdotti in una prova che possa soverchiare le nostre capacità di resistenza; abbandonare è invece verbo statico che oblitera il moto a luogo dell’originale (p. 30; a margine, osservo però che la “traduzione” Cei forse conserva un cenno di moto nel complemento «alla tentazione»).
Don Alberto Strumia, intervistato da Valli (pp. 37-45), solleva un questione fondamentale, cioè l’intenzionalità dell’alterazione di Mt 6, 13 e Lc 11, 4 conformemente al nuovo umanitarismo postconciliare: in altre parole, «gli inventori di un nuovo “cristianesimo”» (così a p. 39) non si peritano d’intervenire sulle stesse Scritture per adattarle alla sensibilità dell’uomo contemporaneo. Dio è primamente fonte di misericordia né può spingere l’uomo ad esser tentato dal demonio, sicché meglio sarà ripiegare, ingannando così i fedeli, sul più generico e rassicurante «non abbandonarci alla tentazione». A tal proposito il sacerdote, noto per i suoi vasti interessi epistemologici, fa menzione sia pur fugace della gnosi (p. 39), e in modo opportuno, direi, purché se ne adatti il concetto alla modernità: gli antichi gnostici vedevano infatti nella misericordia del Cristo un’attenzione esclusiva a sé stessi, élite pneumatica distante dai traviamenti della materia e consustanziale al Redentore, laddove la scialba e materialistica gnosi dei nostri tempi riserva la misericordia ai soli allineati al verbo religiosamente corretto dei Gutmenschen.
Seguono lucide riflessioni di don Silvio Barbaglia dal titolo Il problema non è il verbo, ma il sostantivo (pp. 47-55). Riportando doverosamente all’attenzione il testo greco dei due evangelisti (mē eisenénkēs hēmâs eis peirasmón), il biblista fa notare come l’attenzione dei traduttori Cei si sarebbe piuttosto dovuta concentrare su peirasmós per i motivi di ambivalenza semantica già veduti (greco e latino abbracciano due valori che in italiano e in altre lingue moderne «sono invece dissociati al punto da apparire, paradossalmente, antitetici», pp. 47-48) e come la sesta petizione del Padre nostro, per esser compresa rettamente, debba concepirsi come un tutt’uno col seguente libera nos a malo (pp. 53-55; rilevo che l’interpretazione unitaria del versetto risale alla più antica tradizione patristica greca).
Silvio Brachetta, in un breve capitolo (pp. 57-61), insiste sul fatto che «l’esegesi dei testi non può tradire quella dei padri e dei dottori della Chiesa», tanto più perché, nella fattispecie, non s’intende come mai «un Dio che ci “induce”, ci porta dentro, nella tentazione dovrebbe essere peggiore di un Dio che ci “abbandona” ad essa» (p. 57). Peraltro, la componente misteriosa se non disorientante che talora contraddistingue le Scritture va lasciata intatta anziché venir artatamente depurata da ciò che non paia sùbito intelligibile: meglio infatti riconoscere i nostri limiti invece di forzare i testi, con ‘traduzioni’ falsanti, a dire ciò che punto non dicono.
Valli conclude circolarmente il volume (pp. 63-68) gettando luce sui retroscena, penosi, che hanno propiziato l’accoglimento, nella Bibbia Cei 2008, della famigerata “traduzione” dell’abbandono. Giochi di potere, votazioni in assemblea, decisioni prese a monte e alfine imposte: quanto di più estraneo, invero, alla serietà silenziosa dell’impegno filologico-esegetico.
Il volume, per le argomentazioni svolte e variamente riprese, aiuta a focalizzare i lati deboli – ma anche la tendenziosità – della versione Cei del Padre nostro, senza necessariamente presupporre, nel lettore, competenze tecniche sul piano linguistico o ermeneutico. Devo in specie a questi contributi raccolti da Valli l’impulso a ulteriori approfondimenti sul tema, confluiti in un saggio di prossima pubblicazione in una rivista specialistica (titolo insinuante: Una vecchia scheggia gnostica? Annotazioni sul «non abbandonarci» della Cei). Ivi ho tratto le seguenti conclusioni: 1. la tradizione manoscritta greca, la sola di cui abbia senso parlare in linea prioritaria, offre univoca il testo mē eisenénkēs hēmâs eis peirasmón in Mt 6, 13 e Lc 11, 4, né compaiono divergenze di sorta nelle citazioni dei Padri o financo di eretici; 2. evocare il fantasma dell’aramaico per ricostruire gl’ipsissima verba Jesu e puntare il dito sul presunto erroneo eisenenkeîn (l’aramaico sarebbe stato, si va dicendo, più morbido, ossia “non permettere che siamo indotti”) è operazione spericolata come tutte le retroversioni ipotetiche, contro le quali si dissero sempre scettici i benemeriti coniugi Aland; 3. la formula latina pregeronimiana – attestata nell’Afra, in Tertulliano, Cipriano, Ambrogio e Agostino – che tradotta suona a un dipresso “non lasciare che siamo indotti in una prova/tentazione” ha origine scopertamente parafrastica e nessun valore di variante testuale: lo mise già in luce sant’Agostino in varî passi di capitale importanza (soprattutto De oratione 8), che probabilmente ebbero il merito di oscurare la variante spuria a favore della formula corretta ne nos inducas in tentationem (già circolante e diffusa poi soprattutto dalla Vulgata; scopro tuttavia che tale variante “permissiva” riemerge in versioni vernacolari italiane del Diatessaron risalenti al XIII sec.); 4. i soli testimoni di versioni alternative inizianti con ‘non abbandonarci’ sono, sul versante latino, il commento ai Salmi d’Ilario di Poitiers (In Ps. CXVIII aleph 15) e su quello medionederlandese il ms. 437 della Biblioteca Universitaria di Liegi (f. 14ᵛ), ambedue corollari deteriori e banalizzanti della formula spuria di cui al punto precedente; 5. è nondimeno possibile che l’origine sia dell’una (“non permettere…” sia dell’altra (“non abbandonarci…”) variante si debba cercare, anziché in parafrasi esplicative poi sostituitesi al testo originario, in alterazioni ad opera intenzionale di eretici prossimi alle dottrine gnostiche (Marcione e Taziano), eventualmente per le ragioni sopra esposte là dove accenno al contributo di Strumia; 6. entrambe le formule si sarebbero poi diffuse anche al di fuori di correnti gnosticizzanti data la loro interpretabilità pure in senso ortodosso (sarebbe infatti assurdo sospettare d’eresia Cipriano, Ambrogio o Ilario); 7. comunque stiano le cose, la nuova versione Cei di Mt 6, 13 e Lc 11, 4 è gravemente sbagliata, gravità accresciuta dalla consapevolezza della falsificazione: prova ne sia che di molti passi neotestamentari la traduzione della Bibbia Cei 2008 è lodevolmente precisa e migliora senz’altro l’edizione del 1971 (1974²).
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Matteo Taufer