Scrive Giorgio Nebbia che “col passare dei decenni si fa sempre più pallido e formale il ricordo dell’esplosione, proprio il 6 agosto del 1945, della prima bomba atomica americana sulla città giapponese di Hiroshima, seguita, tre giorni dopo, da quella di una simile bomba atomica sull’altra città giapponese di Nagasaki: con duecentomila morti finiva la seconda guerra mondiale (1939-1945), e cominciava una nuova era, quella atomica, di terrore e di sospetti, eventi che hanno cambiato il mondo e che occorre non dimenticare”. Pare un monito lanciato ai professionisti della memoria, che appaiono ogni anno più distratti di fronte a questo genocidio di civili, forse perché intenti in quelle che considerano altre priorità.
Spiega ancora Nebbia: “L’”atomica” era il risultato dell’applicazione militare di una rivoluzionaria scoperta scientifica sperimentale: i nuclei dell’uranio e di alcuni altri atomi, urtati dai neutroni, particelle nucleari prive di carica elettrica, subiscono “fissione”, si frantumano in altri nuclei più piccoli con liberazione di altri neutroni che assicurano la continuazione, a catena, della fissione di altri nuclei. In ciascuna fissione, come aveva previsto teoricamente Albert Einstein (1879-1955) nel 1905, si liberano grandissime quantità di energia sotto forma di calore. Energia che avrebbe potuto muovere turbine elettriche, navi e fabbriche, ma che avrebbe potuto essere impiegata a fini bellici. La fissione anche solo di alcuni chili dello speciale isotopo 235 dell’uranio, o dell’elemento artificiale plutonio, libera energia con un effetto distruttivo confrontabile con quello di alcuni milioni di chili di tritolo, uno dei più potenti esplosivi disponibili. I danni sono ancora più grandi perché molti frammenti della fissione dell’uranio o del plutonio sono radioattivi per decenni o secoli. Dal 1945 Stati Uniti, Unione Sovietica (l’attuale Russia), Francia, Regno Unito, Cina, India, Pakistan, Israele, hanno costruito bombe atomiche sempre più potenti a fissione, o bombe a idrogeno, termonucleari, nelle quali la liberazione del calore si ha dalla fusione, ad altissima temperatura e pressione, degli isotopi dell’idrogeno, il deuterio e il trizio”.
Entrambe le bombe erano enormi, sproporzionate, e costituirono le armi totali per costringere il Giappone, già stremato, all’inutile resa. Che motivo c’era, dunque, di provocare una catastrofe e la morte di 300 mila civili inermi?
Gli Stati Uniti, con l’assistenza militare e scientifica del Regno Unito e del Canada, erano già riusciti a costruire e provare una bomba atomica nel corso del Progetto Manhattan, un progetto scientifico-militare teso a costruire l’ordigno atomico prima che gli scienziati impegnati nel Programma nucleare tedesco riuscissero a completare i propri studi per dare a Hitler un’arma di distruzione di massa. Il primo test nucleare, nome in codice Trinity, si svolse il 16 luglio 1945 ad Alamogordo, nel Nuovo Messico. Una bomba di prova, denominata “The Gadget” fu fatta esplodere con successo. I lanci su Hiroshima e Nagasaki, quindi, furono la seconda e terza detonazione della storia delle armi nucleari.
Il mese precedente il bombardamento, la conquista di Okinawa, che aveva causato la morte di 150 mila civili e militari giapponesi, e la perdita di circa 70 mila soldati americani, aveva offerto una base ideale per la conquista del Giappone.
Insomma, nell’agosto del 1945 la guerra era finita. Dell’asse della Triplice non era rimasto più niente. Hitler e Mussolini erano morti e il Giappone era una nazione distrutta, circondata, senza cibo, medicine, nella propria perenne carenza assoluta di acqua potabile. Sarebbe capitolata miseramente da li a poco senza più spargimenti di sangue, bastava solo attendere un mese e sarebbe implosa nella propria miseria sociale. No, non vi era nessun motivo di sganciare due bombe atomiche e provocare tale orrore. A parte testare gli effetti scientifici di due sistemi esplosivi. Ammazzare trecentomila civili per un esperimento, più un paio di milioni morti nei successivi dieci anni a causa del fall-out radioattivo. Per che cosa?
Per un esperimento che gli americani definirono “male necessario”; queste le due parole con le quali il presidente progressista americano Truman derubricò l’accaduto.
Va, però, ricordato che la città giapponese distrutta dall’atomica dopo Hiroshima era la più cattolica del Paese.
Non tutti sanno che Nagasaki era l’unica città a maggioranza cattolica del Giappone e Hiroshima era la seconda. Gli americani vollero punire così Pio XII per non essersi schierato, almeno dopo l’8 settembre, dalla parte degli Alleati? Anzi, l’allora pontefice aveva protestato contro la distruzione dell’abbazia di Montecassino. In Vaticano era già stato recapitato un piccolo, odioso avviso di garanzia: cinque bombe di piccolo calibro cadute nei giardini a pochi metri dalla sua abitazione, a un passo da piazza San Pietro, sfiorando l’appartamento del suo massimo collaboratore, monsignor Domenico Tardini, la sera del 5 novembre del 1943; e poi ancora il 1° marzo del 1944 (un morto).
Riferisce lacrocequotidiano.it: «Su AsiaNews scrive uno storico: “Secondo il comando militare alleato, la bomba atomica era una necessità, perché non si trattava di piegare una resistenza armata, ma l’idea molto viva tra i giapponesi che Dio era dalla loro parte… L’atomica avrebbe dovuto scalfire questa certezza perché infliggeva un colpo mortale allo shintoismo artificialmente trasformato in ideologia militarista. Invece la bomba più che il cuore della religione giapponese colpì in pieno il quartiere cattolico di Nagasaki, il più importante e numeroso centro della Chiesa in Estremo Oriente. Perirono quasi tutti. L’epicentro dell’esplosione era stata proprio la loro cattedrale che, tra l’altro, in quel momento era affollata di fedeli in coda davanti al confessionale per prepararsi alla festa dell’Assunta”».
Prove concrete non ce ne sono, ma il compianto Giacomo Biffi scrisse nella sua autobiografia (Memorie e digressioni di un italiano cardinale, Cantagalli, 2010): «A Nagasaki fin dal secolo XVI era sorta la prima consistente comunità cattolica del Giappone. A Nagasaki il 5 febbraio 1597 avevano dato la vita per Cristo trentasei martiri (sei missionari francescani, tre gesuiti giapponesi, ventisette laici), canonizzati da Pio IX nel 1862. Quando riprende la persecuzione nel 1637, vengono uccisi addirittura trentacinquemila cristiani. Poi la giovane comunità vive, per così dire, nelle catacombe, separata dal resto della cattolicità e senza sacerdoti; ma non si estingue. Nel 1865 il padre Petitjean scopre questa Chiesa clandestina, che si fa da lui riconoscere dopo essersi accertata che egli è celibe, che è devoto di Maria e obbedisce al Papa di Roma; e così la vita sacramentale può riprendere regolarmente. Nel 1889 è proclamata in Giappone la piena libertà religiosa, e tutto rifiorisce. Nel 1929, di 94.096 cattolici nipponici ben 63.698 sono di Nagasaki».
Ai lettori porsi le conseguenti domande e recitare le preci di suffragio.
Fonte: agerecontra.it