Gli orrori di Planned Parenthood, la fabbrica degli aborti, nel racconto di ex dipendenti che hanno aperto gli occhi
Aveva accettato di diventare presidente di Planned Parenthood pensando di lavorare dalla parte delle donne, per la loro vera salute. Ha scoperto che da lei volevano solo che promuovesse l’aborto.
È la storia di Leana Wen, che nel suo libro Lifelines: A Doctor’s Journey in the Fight for Public Health spiega come il suo progetto di fornire autentica assistenza sanitaria si sia infranto contro l’ideologia abortista.
Leana Wen racconta di essere stata subito rimproverata per non aver mai usato la parola aborto nelle sue prime apparizioni nei mass media, fatto che fu interpretato come “il segnale che non volessi difendere l’accesso all’aborto”.
Rimproveri arrivarono anche per aver simpatizzato con donne che, pur considerando importante l’accesso all’aborto, confidavano che avrebbero di gran lunga preferito evitare di dover affrontare quel trauma, e per aver descritto le decisioni strazianti delle madri.
Figlia di immigrati cinesi arrivati negli Stati Uniti in cerca di asilo politico, Leana Wen è entrata alla facoltà di medicina all’età di diciotto anni, specializzandosi in medicina d’urgenza perché “il pronto soccorso era l’unico posto dove ogni paziente doveva essere visto e nessuno gli avrebbe voltato le spalle”.
Nel libro racconta le storie di pazienti che non potevano permettersi i farmaci salvavita e descrive come una serie di diagnosi errate ritardò il trattamento anti-cancro per sua madre. Dopo la morte della mamma, Leana contribuì ad avviare un centro per la “ricerca sull’assistenza centrata sul paziente” presso la George Washington University e nel 2014 diventò commissario sanitario di Baltimora. Durante il suo mandato, affrontò la crisi degli oppioidi istituendo centri di trattamento e addestrando i primi soccorritori a somministrare il naloxone.
Altre persone uscite da Planned Parenthood hanno narrato le loro esperienze e i motivi per cui hanno incominciato a difendere la vita e a denunciare l’industria dell’aborto.
È il caso – racconta Lauretta Brown in un articolo per il National Catholic Register – di Caroline Strzesynski, un’infermiera professionista che dopo aver lavorato per undici alla Planned Parenthood di Northwest Ohio se ne andò circa otto anni fa dopo che l’affiliata si fuse con Planned Parenthood of Greater Ohio, il che portò a discutere subito di quote di aborti da realizzare. Quando, sorpresa, Caroline chiese ragioni, le fu risposto: “L’aborto è come facciamo i nostri soldi”. L’idea che l’aborto sia solo una “piccola parte di ciò che fa il gruppo – le fu spiegato – è ciò che vogliamo che il pubblico creda”.
Caroline entrò nell’organizzazione con un atteggiamento molto pro choice, a favore del cosiddetto “diritto” all’aborto, ma quando conobbe un gruppo ecclesiale e nello stesso tempo rimase incinta del suo primo figlio incominciò a cambiare opinione. Poi, quando in Planned Parenthood le fecero quei discorsi sulle quote degli aborto, capì che doveva andarsene. “Non volevo lavorare per qualcuno che aveva come obiettivo aumentare il numero di aborti. Quello era l’esatto opposto del mio pensiero”.
Anche Myra Neyer, che lavorò come assistente chirurgica presso una struttura di Planned Parenthood a Baltimora, a un certo punto se ne andò. Successe nel 2014, quando scoprì che da lei non volevano screening del cancro e pianificazione familiare, ma aborti, tanto che c’era una quota da soddisfare ogni giorno: “Abbiamo programmato anche cinquanta aborti al giorno. Tutto riguardava l’aborto. Non importava che cosa quella determinata donna volesse in quella stanza di consulenza. Il mio compito era spingerla ad abortire”.
Annette Lancaster, che dal 2015 al 2016 è stata responsabile di un centro sanitario della Planned Parenthood a Chapel Hill, nella Carolina del Nord, dichiara che la sua esperienza è stata molto simile a quella descritta da Wen nel suo libro. “Iniziai a lavorare presso Planned Parenthood come manager di un centro sanitario con il presupposto e gli auspici che avrei aiutato le donne. Sapevo che praticavano aborti, ma a quel punto della mia vita non ne ero mai stata colpita direttamente e quindi non ero né a favore della scelta né a favore della vita. Però, dopo aver lavorato lì solo poche settimane, mi resi conto che non si trattava di assistenza sanitaria per le donne. La loro principale linea di fondo riguardava i soldi ricevuti dagli aborti”.
Le funzioni di Annette dovevano essere amministrative, ma presto la coinvolsero negli aborti e fu allora che vide l’orrore. Doveva assicurarsi, fra l’altro, che i medici non lasciassero alcun “pezzo” del bambino nella madre.
Storia analoga è quella di Mayra Rodriguez. Direttrice di tre strutture Planned Parenthood in Arizona, ha vinto una causa da tre milioni di dollari contro l’organizzazione per licenziamento illecito dopo aver denunciato violazioni nelle procedure per la sicurezza delle donne.
“Incominciai a notare cose che non conoscevo e che non pensavo potessero accadere nelle cliniche per aborti. Vidi che i medici infrangevano le leggi e i regolamenti in vigore per proteggere le donne”.
Una volta Mayra si accorse che il medico abortista aveva dimenticato “una testa di bambino di quattordici settimane all’interno della madre”, eppure si rifiutava di curare la donna. “Lo obbligai, ma poi fui licenziata perché il loro unico interesse era fare gli aborti. Oggi sono molto pro-vita. Alle donne viene venduta l’idea che l’aborto risolverà tutto, ma ciò che ottengono è soltanto essere risucchiate in un sistema che le farà continuare ad abortire”.