Palombella alla Cappella musicale del Duomo di Milano? Una voce, tante perplessità
Cari amici di Duc in altum, ricevo e vi propongo una nuova lettera dell’organista ambrosiano indignato che ha già scritto al blog qualche giorno fa. Al centro del nuovo contributo le voci che parlano di un imminente approdo alla Cappella musicale del Duomo di Milano di monsignor Massimo Palombella, già maestro direttore della Cappella musicale pontificia.
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di Un organista ambrosiano indignato
Stimatissimo dottor Valli,
dopo la squisita disponibilità che ha dimostrato nei miei confronti pubblicando il commento sulle recenti disposizioni emanate dalla Curia arcivescovile di Milano, non posso esimermi dal comunicare in anteprima a Lei e ai lettori di questo blog una voce che da qualche giorno si sta spargendo nell’ambiente musicale sacro meneghino.
Non paghi di quanto si profilerà da qui ad una settimana con l’entrata in vigore delle nuove norme siamo costretti a scrivere una nuova pagina in questo virtuale cahier de doléances. Fonti interne alla Cappella Musicale del Duomo di Milano rivelano, con una comprensibile preoccupazione, che sarebbe imminente la nomina a maestro direttore di quella antica e veneranda istituzione del salesiano mons. Massimo Palombella, già direttore della Cappella Musicale Pontificia Sistina.
Come un fulmine a ciel sereno, l’approdo di mons. Palombella – estraneo per formazione ed esperienze pregresse all’ambiente milanese – potrebbe minare alcune certezze cui tanti musicisti di chiesa ambrosiani si appellano per giustificare il proprio operato in ambienti culturalmente molto diversi da quelli della Cattedrale (ma certamente non meno degni, trattandosi di esecuzioni musicali in liturgia).
Prima della presentazione ufficiale ai cantori, prima di qualsivoglia dichiarazione d’intenti da parte del direttore in pectore, vorrei farmi voce dei tanti musicisti di chiesa ambrosiani che guardano con trepidazione a questo passo: che ne sarà della tradizione liturgico-musicale del Duomo? A differenza di altre istituzioni musicali parimenti antiche, blasonate e attenzionate da parte di critici e addetti ai lavori, la Cappella Musicale del Duomo si è distinta, nel post-Concilio, per la capacità di mescere nova et vetera, attuando alla lettera (pur con qualche scivolone, ma la perfezione non è di questo mondo) le disposizioni conciliari in materia di musica sacra, praticando quell’ermeneutica della continuità per cui le composizioni delle glorie milanesi dei secoli passati (Gaffurio, Grancini o Gabussi) dialogano con i maestri più recenti, Migliavacca in primis, facendo in modo che l’auspicio della Sacrosanctum Concilium (VI, 114: “Si conservi e si incrementi con grande cura il patrimonio della musica sacra”) non resti lettera morta.
Il grande sconfitto, se la nomina verrà ufficializzata (compatibilmente con i malumori e gli attriti su più fronti) non sarà soltanto il direttore giubilato, don Claudio Burgio, ma anche colui che fu per decenni l’anima e la mente della Cappella Musicale del Duomo: mons. Luciano Migliavacca (1919-2013). Nominato maestro di cappella dall’allora cardinale Montini nel 1957, mons. Migliavacca ha continuato a seguire con affetto cantori e pueri della Cappella anche da emerito, fin tanto che le forze glielo hanno consentito, richiamando con la sua presenza fisica non solo un esempio di dedizione assoluta al ministero sacerdotale e musicale ma anche la consapevolezza di essere un anello della catena che prosegue ininterrotta dall’età viscontea. Compositore, direttore di coro, organista e didatta impareggiabile, mons. Migliavacca ha saputo declinare convenientemente il linguaggio musicale contemporaneo alle esigenze liturgiche, ha rivestito i testi del rinnovato messale ambrosiano con melodie sublimi e veramente “contemporanee” (consiglio l’ascolto, per chi non lo conoscesse, del proprio della settimana autentica o dei primi canti in italiano composti per la Messa celebrata in rito ambrosiano da Paolo VI). Don Claudio Burgio, allievo e figlio spirituale di mons. Migliavacca, nel suo quindicennio di direzione ha cercato di non far spegnere la fiaccola disimpegnando discretamente l’incarico affidatogli, pur dividendosi fra questo e altri gravosi incarichi.
Lungi dal commentare le scottanti vicende del recente passato che hanno visto protagonista il direttore emerito della Cappella Musicale Pontificia Sistina e i retroscena del suo imminente approdo milanese, mi auguro che mons. Palombella sappia osservare e comprendere la realtà ambrosiana prima di prendere decisioni avventate come riforme dell’organico o stravolgimenti dell’impostazione vocale. L’avversione del monsignore per la vocalità tradizionale “romana” non è un mistero, stando a quanto dal medesimo dichiarato in varie occasioni, tanto che uno dei suoi obiettivi nel periodo di reggenza vaticana è stato lo “svecchiamento” – a sua detta – dell’impostazione vocale mediante l’immissione di nuovi cantori specializzati in canto rinascimentale e barocco. Dietro a questa volontà c’è un grossolano pregiudizio che vede in modo eccessivamente selettivo la storia della musica sacra, facendo assurgere non solo a paradigma ma anche a repertorio unico e normativo quello dell’età d’oro palestriniana. Se, da una parte, l’importanza capitale dell’esperienza rinascimentale romana è innegabile nella storia della musica sacra, dall’altra una eccessiva settorializzazione si scontra con la prassi e con la stessa tradizione che, dai tempi di Palestrina ai giorni nostri, ha saputo rinverdirsi e produrre espressioni artistiche di rilievo. Alla luce dell’esperienza romana, dove le glorie del recente passato sono state accantonate senza troppi complimenti (Perosi, e il cardinale Bartolucci ancora vivente l’autore), anche a Milano si rischia di non sentire più, durante i pontificali con l’Arcivescovo, non solo i “manieristi” sei e settecenteschi ma anche le glorie del cecilianesimo milanese: Luigi Cervi, Salvatore Gallotti e il già citato Luciano Migliavacca. Per non parlare del canto proprio della chiesa di Milano, il canto ambrosiano, che ci si augura vivamente non venga sussurrato impercettibilmente come avveniva in San Pietro con il gregoriano, rigorosamente cantato a cappella; la sopravvivenza del canto ambrosiano in liturgia deve moltissimo all’uso diuturno che ne ha fatto la Cappella del Duomo. Non mi stupirei, in fine, se fra qualche tempo comparisse sotto le volte della sterminata Cattedrale un organo digitale per fare in modo che “il suono dell’organo a canne si senta con pertinenza in tutta la basilica [di San Pietro, nda]”, ipse dixit… sarebbe inconcepibile preferire un surrogato elettronico all’organo a canne più grande d’Italia (oggetto proprio in questi anni di un onerosissimo intervento di manutenzione straordinaria) ma vista l’aria che tira…
Ambrogio e S. Carlo, che tanto si spesero per la musica sacra nelle nostre terre, dalle statue argentate che affiancano il sontuoso ciborio dell’altare maggiore del Duomo volgano benignamente lo sguardo sul recinto dei cantori e vigilino sul maestro in pectore con la loro protezione.
Un organista ambrosiano indignato