Lettera ad Aldo Maria Valli sull’abbandono
di Aurelio Porfiri
Caro Aldo Maria,
la tua ultima lettera dedicata al tema dell’estraneità mi ha fatto molto riflettere. Sento la tua sofferenza che ci unisce come fratelli in una fede per cui lottiamo, gridiamo, speriamo. E adesso voglio parlarti dell’abbandono.
Sì, diciamola pure questa parola: abbandono. Questa è la tentazione e la realtà di molti. Quante persone perde la Chiesa ogni giorno, gente che senza far rumore se ne va e vive come se la sua esperienza cristiana precedente non fosse mai esistita. Magari saranno anche vite piene di impegno e interessi, ma ritengono che in esse non ci sia posto per Dio. Non ti nascondo che per quanto mi riguarda spesso c’è la tentazione di mettere tra parentesi non certo Dio, ma la Chiesa sì. Perché a me sembra che non annunci più l’essenziale, ma giri su se stessa, riempiendo con le chiacchiere ciò che è stato abbandonato dallo Spirito.
La tentazione dell’abbandono dunque esiste. Eppure, almeno per ora, mi fermo sempre sulla soglia della porta. Perché faccio i conti con la verità.
Se la Chiesa è veramente espressione della verità ed è stata fondata da Gesù, dal momento che mantengo un rapporto con Lui non posso liberarmi della Chiesa con troppa leggerezza. La tentazione – dicevo – è potente ma un tenue filo ancora mi tiene legato a questa Chiesa che non voglio cambiare, ma vorrei diversa, tanto per riprendere le parole del Santo Padre che citava Yves Congar. La vorrei diversa da come è ora, più fedele alla sua essenza soprannaturale e alla Tradizione. Ma non è così, come ben sappiamo.
Accade un po’ come in tantissimi matrimoni, quando la tentazione dell’abbandono si fa forte. Oggi molto spesso alla tentazione non si resiste, perché ci sono problemi che è veramente difficile sopportare. Eppure, prima di vagliare la soglia, bisognerebbe chiedersi se alla base di quel matrimonio c’è una verità più alta, malgrado le sofferenze che si stanno vivendo, e se questa verità più alta dia valore a quelle sofferenze e consigli maggiore prudenza nel compiere azioni di cui ci si potrebbe amaramente pentire. Lo so, a volte proprio non se ne può più e si arriva quasi a un punto quasi di non ritorno, ma quando si è nel turbine delle passioni meglio non prendere decisioni definitive. È vero, la nostra sposa, o il nostro sposo, non ci capisce, non ci sostiene, non ci aiuta. Eppure meglio aspettare che le acque siano meno torbide, per vedere meglio la verità del nostro volto riflessa, e capire veramente cosa è meglio fare.
Con la Chiesa è un po’ lo stesso. In questi momenti terribili bisogna imparare non ad abbandonare, ma ad abbandonarsi. Lo so che è difficile, anche proibitivo. Ci piacerebbe poter dire con più ardore quello che Henri De Lubac diceva nella sua Meditazione sulla Chiesa: “Sia benedetta per tanti benefici! Sia benedetta soprattutto per tutte queste morti che essa ci procura, morti che l’uomo non avrebbe avuto il coraggio di affrontare e senza le quali sarebbe condannato a restare indefinitamente se stesso, chiuso nel cerchio miserabile della propria limitatezza! Sii benedetta, o Madre del bell’amore, del timore salutare, della scienza divina e della santa speranza! Senza di te, i nostri pensieri rimangono sparsi e fluttuanti: tu li raccogli in un fascio robusto. Tu dissipi le tenebre nelle quali ognuno si intorpidisce, o si dispera, o, miseramente, «si costruisce a modo suo il romanzo dell’infinito». Pur senza dissuaderci da nessun’iniziativa, tu ci proteggi dai miti ingannatori, tu ci risparmi gli errori ed il disgusto di tutte le chiese fatte da mano d’uomo. Tu ci salvi dalla rovina al cospetto del nostro Dio! Arca vivente, Porta dell’Oriente! Specchio senza macchia dell’attività dell’Altissimo! Tu che sei amata dal Signore del mondo e sei iniziata ai suoi segreti, Tu ci insegni ciò che a Lui più piace. Il Tuo soprannaturale splendore, anche nelle ore più oscure, non si offusca mai! La nostra notte è, grazie a te, fasciata di luce! Per te ogni mattina il sacerdote sale all’altare del Dio che allieta la tua giovinezza! Sotto l’oscurità del tuo involucro terreno, abita in Te la Gloria del Libano. Tu ci doni ogni giorno Colui che, solo, è la Via e la Verità. Per te noi abbiamo in Lui la speranza della Vita. Il tuo ricordo è più dolce del miele, e colui che ti ascolta non sarà mai confuso. Madre santa, Madre unica, Madre immacolata! O grande Madre! Chiesa santa, vera Eva, sola vera Madre dei Viventi!”.
Ecco, ci piacerebbe poter pronunciare queste parole con più forza e coraggio, e invece ci troviamo a contemplare lo spettacolo di una Chiesa che si abbandona all’abbraccio soffocante della mondanità. E ci tocca ripete le parole di Romano Amerio nel suo indispensabile Iota unum: “E qui conviene formulare la legge stessa della conservazione storica della Chiesa, legge che è insieme il criterio supremo della sua apologetica. La Chiesa è fondata sul Verbo incarnato, cioè su una verità divina rivelata. Certo le sono date anche le energie sufficienti a pareggiare la propria vita a quella verità: che la virtù sia possibile in ogni momento è un dogma di fede. La Chiesa però non va perduta nel caso che non pareggiasse la verità, ma nel caso che perdesse la verità. La Chiesa peregrinante è da sé stessa, per così dire, condannata alla defezione pratica e alla penitenza: oggi la si dice in atto di continua conversione. Ma essa si perde non quando le umane infermità la mettono in contraddizione (questa contraddizione è inerente allo stato peregrinale), ma solo quando la corruzione pratica si alza tanto da intaccare il dogma e da formulare in proposizioni teoretiche le depravazioni che si trovano nella vita”.
Quando si perde la verità, nella Chiesa come nei matrimoni, si perde tutto.
Io, ti ripeto, capisco il dolore nel rimanere. Vivo con insofferenza tante Messe in cui i sacerdoti fanno della liturgia quello che vogliono e la chiamano “riforma liturgica”. Tu sai come tutto ciò mi faccia male. Eppure, prima di compiere il passo estremo, che non posso escludere in futuro, mi faccio le domande che ti ho esposto sopra.
Mi rendo conto che viviamo in tempi particolari, in cui le parole di Henri De Lubac, nell’opera che ho citato prima, vanno quantomeno tenute a mente: “In certi periodi si moltiplicano i sintomi di un male che si diffonde come una epidemia. È una crisi di nevrastenia collettiva. Per coloro che ne sono colpiti, tutto diventa materia di denigrazione. Non si tratta più soltanto di ironia, di fronda, o di amarezza da cui, in ogni tempo, certi temperamenti non sanno sufficientemente difendersi. Tutto riceve una interpretazione sinistra. Ogni conoscenza, anche esatta, accresce il malessere; le nuove scoperte, male assimilate, le nuove tecniche, male utilizzate, sono altrettanti motivi per ritenere scosse le fondamenta tradizionali della fede. La vita spirituale si illanguidisce, cosicché non si riesce più a vedere nulla nella sua vera luce. Ci si crede illuminati, e non si sa più discernere l’essenziale. Non si sanno più scoprire, sbocciate di fresco, attorno a noi forse, le mille invenzioni dello Spirito, sempre uguale a se stesso e sempre nuovo. I giudizi dello spirito di fede fanno l’effetto di un velo illusorio… Allora, per mille vie, si insinua lo scoraggiamento. Ciò che avrebbe potuto provocare un risveglio ha invece un effetto paralizzante. La fede può essere ancora sincera, ma è ormai minata da ogni parte. Ci si mette a guardare la Chiesa come estranei, per giudicarla. Il sospiro della preghiera si è trasformato in recriminazione tutta umana. Con questo movimento farisaico, con questa specie di secessione interiore, non ancora dichiarata, ma non per questo meno perniciosa, ci si avvia già su una strada che può portare al rinnegamento”.
Questo accade nelle cose umane, può avvenire anche nella Chiesa. Allora mi siedo e penso a queste parole di De Lubac e poi a quelle di Amerio e mi sento come quell’equilibrista che cammina sul filo teso tra due grattacieli, cercando di non cadere giù.
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Decadenza. Le parole d’ordine della Chiesa postconciliare
“Due cattolici veri, convinti e praticanti, intrecciano un fitto dialogo, con poche divergenze e molte convergenze, sullo stato della fede e della cristianità, della Chiesa e dei cattolici nei giorni nostri”.
Scrive così Marcello Veneziani nella presentazione di Decadenza. Le parole d‘ordine della Chiesa postconciliare (Chorabooks), il libro che Aldo Maria Valli e Aurelio Porfiri hanno voluto dedicare a dieci parole che la Chiesa cattolica ha messo al centro della sua predicazione e del suo insegnamento a partire dal Concilio Vaticano II, con una particolare attenzione per alcuni vocaboli privilegiati dal magistero di Francesco. Le dieci parole sono: dialogo, pastorale, sinodalità, ponti, autoreferenziale, fragilità, misericordia, ecumenismo, discernimento, periferie.
“È come se la Chiesa ai tempi di Bergoglio – osserva Veneziani – fosse in croce: inchiodata in alto dalla perdita della verità e dall’oblio di Dio, in basso dal suo ridursi a soccorso umanitario e centro d’accoglienza; ai lati trafitta da una parte dal cedimento alla cultura protestante e dall’altra dall’apertura unilaterale al dialogo con l’Islam. In questo crocevia, la Chiesa perde la sua luce, la sua aura e i suoi fedeli. Si svuotano le chiese, perde forza il messaggio cristiano, si confonde con lo spirito del mondo e le organizzazioni umanitarie”.
Ecco dunque il senso di decadenza, che per i due autori si traduce in certi momenti in un profondo scoramento e in altri nel desiderio di lottare perché quel patrimonio di sapienza, bellezza e santità che è la Chiesa cattolica non vada del tutto disperso, svenduto al desiderio insensato di piacere al mondo mettendo l’uomo al posto di Dio.
Veneziani giustamente nota che il libro è venato da un grande amore per la tradizione, intesa non come immobilismo, ma come fedeltà a ciò che conta e che semplicemente non può essere cambiato, perché il cambiamento equivale a un crollo e a un tradimento.
Dice Veneziani: siamo passati rapidamente da una Chiesa che metteva al centro il Mistero, la Risurrezione e l’Immortalità a una che non fa che parlare di solidarietà, fratellanza e redenzione in senso sociale. E c’è pure la pretesa di giustificare l’operazione in quanto recupero delle origini. Una mistificazione tutta giocata in termini ideologici, con l’aiuto di un vocabolario che Valli e Porfiri smontano pezzo a pezzo, mostrandone da un lato la pochezza contenutistica e dall’altro l’uso strumentale.
Aldo Maria Valli, Aurelio Porfiri, Decadenza. Le parole d’ordine della Chiesa postconciliare, Chorabooks, 2020.
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