Trieste, l’ultima Insorgenza
In questi giorni, molti hanno guardato a Trieste con grande attenzione. Se l’informazione ufficiale ha cercato di minimizzare prima e demonizzare poi la protesta ai moli del grande centro portuale, parlando prima di “poche centinaia” di manifestanti, per poi cercare in tutti i modi – invano – la presenza di “violenti”, di “facinorosi”, i canali informativi del dissenso, utilizzando soprattutto i filmati realizzati con i propri mezzi, con i telefonini, o i pochi media liberi, ci hanno fatto conoscere una realtà ben diversa. Abbiamo imparato a conoscere il volto e la voce – con il magnifico, tipico accento triestino – di Stefano Puzzer, il portavoce e il leader della protesta dei portuali. Abbiamo potuto vedere le scende di spietata violenza messa in atto contro i pacifici manifestanti. Abbiamo visto e udito numerose testimonianze, davanti alle quali ogni coscienza ha potuto maturare un giudizio su questi avvenimenti.
Per molti, le immagini degli idranti, degli squadroni di polizia in assetto di combattimento hanno riportato alla memoria il mondo com’era prima del 1989, prima della caduta del Muro di Berlino. Il mondo dei regimi comunisti. Qualcuno ha ricordato, vedendo le gru del porto di Trieste, i cantieri di Danzica del 1980, quando iniziò la fine del Comunismo grazie alla protesta degli operai polacchi.
Tuttavia, c’è un altro ’89 che personalmente mi è tornato alla memoria davanti agli avvenimenti triestini. Il 1789, la Rivoluzione Francese, e soprattutto la sua appendice italiana, quando nel 1796 la Rivoluzione varcò le Alpi e cercò di impossessarsi degli Stati della Penisola. Un tentativo, quello del triennio 1796-99, che vide la risposta non tanto dei singoli Stati preunitari, molti dei quali deboli e governati da élite simpatetiche e a volte conniventi con le idee rivoluzionarie, ma del popolo. Un popolo che diede una risposta di autodifesa, legittimata dal diritto a difendere se stessi, le proprie famiglie, i propri villaggi, e soprattutto la propria Fede.
Dalla Calabria a Verona, dalla Toscana alla Romagna, così come in regioni confinanti con l’Italia come il Tirolo, nacquero le Insorgenze, un movimento spontaneo di popolo, che qualche storico, in particolare Francesco Mario Agnoli, il più autorevole, ebbe modo di definire come il più vasto e più concorde movimento popolare della storia d’Italia. Secondo un altro storico, Massimo Viglione, una stima assolutamente prudenziale fa salire ad almeno 280.000 gli insorgenti e a 70.000 i loro caduti.
La storiografia ufficiale ha negato o disprezzato le Insorgenze, considerandole come un rigurgito reazionario di un mondo antico che si rifiutava di accettare i cambiamenti, il nuovo avanzante. In realtà, i più lucidi tra gli Insorgenti avevano perfettamente capito che questo “nuovo” era in realtà antico. Mostruosamente antico. Sono impressionanti le parole di uno dei leggendari capi della prima di tutte le Insorgenze d’Europa, quella della Vandea, la regione dell’Ovest della Francia che si batté valorosamente in difesa dei propri diritti e di quelli di Dio, il Cavaliere de Charette: “È vecchio come il diavolo, il mondo che essi dicono nuovo e che vogliono fondare senza la presenza di Dio […]. Ma di fronte a questi demoni che rinascono ogni secolo, noi siamo la giovinezza. Signori! Siamo la giovinezza di Dio” (cit. in M. de Saint Pierre, Monsieur de Charette chevalier du Roi, La Table Ronde, Parigi 1977, p. 15).
Uno dei giudizi più lucidi e appropriati su quegli avvenimenti fu espresso nel 1993 dal grande intellettuale russo Aleksandr Solzenicyn, protagonista dell’eroica stagione del “Dissenso”, ossia il movimento culturale, civile e religioso che nell’ex Unione Sovietica si era opposto – pagando col campo di concentramento, con la tortura e la morte – alla dittatura comunista. Commemorando le migliaia di vittime della Rivoluzione Francese, che sarebbe stata poi il modello per altre rivoluzioni ancor più sanguinarie che avrebbero in seguito funestato il mondo, compresa quella che aveva annientato la sua patria, Solzenicyn disse:
“Gli accadimenti storici non sono mai compresi pienamente nell’incandescenza delle passioni che li accompagnano, ma a una discreta distanza, quando vengono raffreddate dal tempo. Per molto tempo si è rifiutato di ascoltare e di accettare quanto era stato gridato dalla bocca di coloro che morivano, che venivano bruciati vivi: i contadini di una terra laboriosa, per i quali sembrava fosse stata fatta la Rivoluzione, ma che la stessa Rivoluzione oppresse e umiliò fino all’estremo limite, ebbene, proprio questi contadini si ribellarono contro di essa! I contemporanei avevano ben colto che ogni rivoluzione scatena fra gli uomini gl’istinti della barbarie più elementare, le forze opache dell’invidia, della rapacità e dell’odio. Essi pagarono un tributo decisamente pesante alla psicosi generale”.1
Charette parlò di fronte a questi avvenimenti, di fronte alla psicosi collettiva indotta dalla Rivoluzione, di demoni che rinascono ogni secolo, e quanto aveva ragione l’eroe vandeano. Ora i vecchi demoni si sono scatenati attraverso le nuove tecnologie, tentando di imporre quello che Aldo Maria Valli ha definito in Virus e Leviatano “dispotismo condiviso”. Biotecnologie sanitarie, controllo digitale, senza però trascurare vecchi sistemi violenti come le bastonature. Forse Stefano Puzzer, nel momento in cui nei giorni scorsi girava per Piazza Unità dicendo “Lori ga i manganelli, noi ndemo avanti per amore” non si rendeva conto pienamente di essere un degno erede di Charette. Guardando agli stendardi di san Michele Arcangelo e della Santa Vergine, ai Rosari stretti nelle grosse e forti mani dei portuali, la somiglianza con le Insorgenze antigiacobine è diventata sempre più evidente.
Certo, come ha sottolineato giustamente qualcuno, nella magnifica città mitteleuropea in questi giorni è arrivato un po’ di tutto: una sorta di ultima frontiera, di ultimo baluardo dove sono accorsi i tipi umani più disparati. Volontari della causa della libertà, del diritto, ma anche difensori dell’umano davanti all’aggressione della rivoluzione transumanista, la più perniciosa di tutte le rivoluzioni, una sfida arrogante portata direttamente contro Dio, oltre che contro gli uomini. Anzi: contro l’umano, contro la creatura, in odio al Creatore. Così come le ragioni ultime delle Insorgenze non consistevano tanto nella difesa a tutti i costi delle antiche dinastie, ma della Fede cristiana, così oggi la questione prioritaria per cui ci si batte nel presidio di Trieste è la difesa dell’uomo e di Dio. .Come diceva san Giovanni Bosco, “l’unica vera lotta della Storia è quella pro o contro la Chiesa di Cristo”.
Allora gli stendardi e i Rosari non sono mero folklore, sono i simboli di una identità autentica, che sembrava essere già stata sepolta dalla Modernità e che riaffiora nella postmodernità distopica.
La motivazione prima delle Insorgenze non fu di carattere economico e sociale, ma religioso, visto che la maggior parte di esse scoppiò prima che il popolo potesse constatare il peggioramento delle sue condizioni e comprendere la falsità delle promesse rivoluzionarie. Oggi è avvenuto il contrario: scesi in piazza contro una certificazione senza la quale non si può lavorare, non si può circolare liberamente, non si può entrare in determinati ambienti e senza la quale forse – per decisione degli eredi dei Preti Giurati della Rivoluzione, fedeli alla Costituzione civile del clero – non si potrà partecipare alle Sante Messe, coloro che volevano semplicemente difendere il diritto al lavoro oggi hanno riscoperto le loro radici.
Da Trieste, città italiana (Guareschi la definì la Capitale morale del Paese) ma anche asburgica, erede di una tradizione di cultura, di civiltà che dovette subire l’attacco violento e micidiale della Massoneria la quale non esitò a scatenare l’inferno della Prima Guerra Mondiale pur di vedere distrutto l’Impero Austriaco, ultimo retaggio del Sacro Romano Impero, in questi giorni viene un segnale di speranza. L’Insorgenza triestina ci dice che il regime del bio-dispotismo non ha ancora vinto.
Chi è accorso nel capoluogo giuliano può averlo fatto per molti motivi, per ragioni sociali, quasi addirittura per una sorta di spirito di avventura, ma ora Trieste è il simbolo di una umanità variegata che non si arrende. Il bastione deve reggere: va sostenuto, va rinforzato. Soprattutto deve essere sempre più chiara l’importanza della posta in gioco.
Probabilmente il Potere non si aspettava questo focolaio di rivolta, e ha cercato di soffocarlo con la forza. Non ci è riuscito. Ora non è escluso che cerchi un diverso tipo di strategia, più subdola, ma anche in questo caso vecchia come il diavolo: divide et impera. Ovvero cercando di dividere il fronte del Dissenso, sia con minacce sia con blandizie. I cuori e le menti degli Insorgenti devono allora essere sempre più forti, più saldi, più lucidi. In molti guardano a Trieste, in questi giorni, con trepidante speranza. Non devono essere delusi.
1 A. Solzenicyn, Onore alla memoria della resistenza e del sacrificio degli insorti vandeani del 1793, in P. Poupard, La guerra dei giganti, Rimini 2009, pagg. 95-96
Fonte: ricognizioni.it
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