Libertà religiosa. Da Leone XIII al Vaticano II: un punto controverso, due opposte visioni
di Stefano Fontana
La questione della libertà di religione secondo la dottrina cattolica è tuttora aperta. Non si può dire che la Dignitatis humanae del Vaticano II l’abbia chiusa, né che l’abbia fatto alcun documento successivo, nonostante ognuno abbia portato qualche elemento talvolta di confusione ulteriore e talaltra di chiarimento parziale. Per la Dottrina sociale della Chiesa trattasi di questione centrale dato che riguarda il rapporto tra il sacro e il profano, tra il potere spirituale e quello temporale, tra la religione e la politica.
La problematica è molta ampia. Qui vorrei soffermarmi su un micro-punto, vale a dire una diversa posizione presa da Leone XIII e dal Vaticano II. Non mi sembra che gli addetti ai lavori vi abbiamo posto attenzione.
Nell’enciclica Immortale Dei del 1 novembre 1885, dedicata alla costituzione cristiana degli Stati, Leone XIII dice che nel caso della democrazia moderna, ove lo Stato null’altro sarebbe che “la moltitudine moderatrice di se stessa” e il popolo “la sorgente di ogni diritto e di ogni potere”, “è logico che lo Stato si ritenga sciolto da qualunque dovere verso la divinità, che non professi ufficialmente alcuna religione, né si creda obbligato a ricercare quale sia tra le molte la sola vera, né ad anteporre una alle altre, né a favorirne una più delle altre, ma tutte le lasci egualmente libere, finché non ne venga danno all’ordine pubblico”. Il passo meriterebbe un commento adeguato punto per punto, ma qui vorrei soffermarmi solo sul micro-punto dell’ultima frase. Il ragionamento che dice: bisogna tollerare tutte le religioni a meno che non ne venga un danno per l’ordine pubblico, è considerato da Leone XIII sbagliato e da rifiutarsi. Il fatto che le religioni non provochino danni all’ordine pubblico non deve essere considerato un criterio per ammettere la libertà di religione.
La Costituzione Dignitatis humanae del Vaticano II sulla libertà religiosa dice il contrario, ossia che le religioni devono godere di piena libertà nella pubblica piazza salvo quando contrastino con l’ordine pubblico: “Se si nega all’uomo il libero esercizio della religione nella società, quando è rispettato il giusto ordine pubblico, si fa quindi ingiuria alla persona umana … [alle comunità religiose] posto che non siano violate le giuste esigenze dell’ordine pubblico, è dovuta per diritto l’immunità” (nn. 3 e 4).
Entrambi i testi fanno riferimento alla stessa espressione: “ordine pubblico”, “giusto ordine pubblico”. Uno però non lo considera elemento dirimente per la libertà di religione nella pubblica piazza, l’altro sì. In altre parole, per il primo testo, se una religione diversa da quella cristiana non mette in pericolo l’ordine pubblico ugualmente non può godere da parte dello Stato degli stessi diritti del cristianesimo. Per il secondo testo, invece, sì.
Proviamo a pensare a quali potrebbero essere le motivazioni di una posizione come quella espressa da Leone XIII che, a prima vista, sembra la più strana delle due: se una religione non fa del male a nessuno, perché non considerarla alla stregua del cristianesimo?
Un primo motivo è che per ordine pubblico si potrebbe intendere il dato sociologico di non provocare incidenti, conflitti, esasperazioni, scontri, insubordinazioni rispetto agli agenti, appunto, dell’ordine pubblico. Inteso così il concetto sarebbe esteriore, ma all’interno delle persone, il proselitismo religioso potrebbe ugualmente farsi strada e indebolire la convergenza su valori comunitari che solo il cristianesimo è in grado di garantire.
Un secondo motivo, potrebbe riguardare il fatto che in questo modo si introdurrebbe una negativa indifferenza dell’autorità politica rispetto alle religioni. Il ragionamento sarebbe infatti il seguente: se non disturbano la pace pubblica, tutte le religioni sono da considerarsi politicamente uguali. Se l’autorità politica ragionasse in questo modo, si renderebbe autonoma dalla religione e inizierebbe un percorso di laicizzazione che non si arresterebbe più. Essa rinuncerebbe all’esercizio della propria ragione politica davanti al fatto religioso e, progressivamente, vi rinuncerebbe anche in altri campi, a cominciare da quello morale. Perché, infatti, non fare allora anche questo ragionamento: se non disturbano la pace pubblica, tutte le morali sono politicamente uguali?
Un terzo motivo potrebbe essere infine il seguente. Le religioni non devono essere valutate dall’autorità politica solo come fenomeni sociali ma come fenomeni religiosi. Il giudizio che la politica deve dare non riguarda solo le conseguenze sociali della religione, se esse siano favorevoli a contrarie all’ordine pubblico, ma anche la natura religiosa stessa. Dovrebbe, per esempio, porsi questa domanda: la società politica può vivere senza i sacramenti che la Chiesa cattolica distribuisce come segni della grazia? Senza la Confessione non finisce anche il senso del male? Senza l’estrema unzione non si perde di vista il senso della vita? Senza la comunione non si ritiene che ci uniamo da soli tra di noi anziché essere uniti? E così via.
Vediamo allora che la questione è tuttora aperta, e riflettere su queste differenze nel magistero può aiutare.
Fonte: vanthuanobservatory.org