“Qui habet aures audiendi audiat!”. Sulla regalità sociale di Cristo
A cura del Sodalitium Equitum Deiparae Miseris Succurrentis
Gentilissimo dottor Valli,
qualora non lo ritenessimo frutto del disegno provvidenziale risulterebbe per noi abbastanza curioso che proprio nel medesimo giorno, il 3 novembre scorso, in questo suo blog lei abbia dato contemporaneamente spazio a due particolari articoli: uno redatto da lei stesso (Lettera ad Aurelio Porfiri sulla regalità di Cristo) e l’altro dal professor Stefano Fontana (Libertà religiosa. Da Leone XIII al Vaticano II: un punto controverso, due opposte visioni).
L’argomento fondamentale di entrambi questi scritti verte infatti, direttamente o indirettamente, sul tema della Regalitas. Nel primo compare la menzione dell’enciclica Quas Primas (d’ora in poi, QP) di Papa Pio XI (1925), la quale si sofferma specificatamente sulla Regalità di Cristo; nel secondo, invece, ci si riferisce esplicitamente all’enciclica Immortale Dei (d’ora in poi, ID) di Papa Leone XIII (1885), la quale affronta il nodo dei rapporti che dovrebbero intervenire tra Chiesa e potere temporale laico nell’esplicazione dei rispettivi uffici.
Ebbene, alla luce del fatto che queste sono proprio le due encicliche a cui viene fatto diretto riferimento nei due saggi pubblicati dal Sodalitium Equitum Deiparae Miseris Succurrentis [1] – oltre che in numerosi propri interventi su altrettanti diversi blog – tale circostanza ci spinge a voler intervenire a nostra volta, sentendoci chiamati in causa nel merito di un argomento sul quale solitamente – così constatiamo – pur ponendosi sulla iniziale base di giusti presupposti, tuttavia non ci si spinge mai fino all’esito delle proprie dovute e “naturali” conclusioni.
L’argomento a cui alludiamo si può sinteticamente così esprimere: dopo aver giustamente rivendicato e riaffermato la Regalità, oltre che spirituale, anche sociale e temporale di Nostro Signore Gesù Cristo, ebbene, la Sua funzione metastorica di Rex, per necessaria conseguenza ed in analogia con quella di Sacerdos, rimane parimenti suscettibile in maniera ontologicamente “naturale” – ossia, in quanto è inerente alla propria “natura” – di venir di necessità attualizzata storicamente secondo un proprio e relativo ufficio vicariale.
Ma su tale implicita conseguenza, come dicevamo, pare non porsi mai la sufficiente e convinta attenzione anche da parte dei cattolici più tradizionali.
D’altra parte, è lo stesso Pontefice Pio XI che così scrive nella QP: «Sbaglierebbe gravemente chi togliesse a Cristo Uomo il potere su tutte le cose temporali, dato che Egli ha ricevuto dal Padre un diritto assoluto su tutte le cose create, in modo che tutto soggiaccia al suo arbitrio. Tuttavia, finché fu sulla terra si astenne completamente dall’esercitare tale potere, e come una volta disprezzò il possesso e la cura delle cose umane, così permise e permette che i possessori debitamente se ne servano. A questo proposito ben si adattano queste parole: “Non toglie il trono terreno Colui che dona il regno eterno dei cieli” (dal Brev. Rom. Inno del Mattutino dell’Epifania)».
In altre parole, per quanto in terra il Papa sia il Vicario spirituale del Cristo Sacerdote, l’Imperatore è quello temporale del Cristo Re. L’assenza di questo secondo vicariato, se non implica di certo la scomparsa della Chiesa – la quale può continuare comunque ad assolvere spiritualmente alla funzione sacramentale, tramite il sacerdozio – ne comporta ad ogni modo, nella dimensione temporale, un assetto “pastoralmente” squilibrato, palesemente monco, avendo lasciato il laicato privo di quei saldi riferimenti socio-legislativi e quel controllo giuridico, operati dalla Regalità ed ispirati appunto solo a Cristo Re, che eviterebbero ad esso laicato il disorientamento nonché lo smarrimento dei propri fini di salvezza spirituale.
Tutto ciò è quanto ha condotto sino a quella degenerazione della laicità che, come è ormai già da tempo sotto gli occhi di tutti, si configura nella piaga del laicismo; empietà che si manifesta come una forma di anarchia e di rivolta, rispetto agli insegnamenti della Chiesa, fondamentalmente improntata all’ideologia del relativismo.
Senza la vigile funzione esercitata da un potere temporale che tragga la sua ragion d’operare non già da una semplice teoria socio-politica umana, ma da quella che è piuttosto una sua vera e propria identità ontologica sacrale, guadagnata tramite il sacramentale dell’unzione così come amministratogli dal sacerdozio (identità che pertanto pertiene solamente alla Regalità in senso pieno, e non ad un qualunque governo repubblicano o pseudo-monarchico sul tipo delle monarchie parlamentari moderne), ecco infatti che si è inevitabilmente giunti a negare alla stessa componente sacerdotale della Chiesa «[…] il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare […] le genti di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità» (QP).
Ma non basta! Con la definitiva caduta dell’Impero, il pastore pontificio, privato del suo “cane da gregge” (= l’Imperatore-Veltro della profezia dantesca di Inf I, 101) e trovatosi così nella difficoltà di radunare da solo tutte le proprie pecore, ha dovuto far fronte a tale situazione di debolezza commettendo l’imperdonabile errore di farsi carico lui stesso di correre dietro ad esse, ossia andandosi ad occupare direttamente delle questioni politico-temporali. E così la Chiesa sacerdotale è scesa sempre più ad un dialogo di compromesso col “mondo”; e nel velleitario tentativo di riguadagnarlo a sé, si è invece fatta contaminare da esso, sottomettendovisi.
La necessità di riportare questa consapevolezza alla coscienza di sé, e di tutti i cattolici, rimane dunque un dovere dal quale nessun fedele può esimersi. Così prosegue infatti Pio XI: «Tale stato di cose va forse attribuito all’apatia o alla timidezza dei buoni, i quali si astengono dalla lotta o resistono fiaccamente; da ciò i nemici della Chiesa traggono maggiore temerità e audacia. Ma quando i fedeli tutti comprendano che debbono militare con coraggio e sempre sotto le insegne di Cristo Re, con ardore apostolico si studieranno di ricondurre a Dio i ribelli e gl’ignoranti, e si sforzeranno di mantenere inviolati i diritti di Dio stesso» (Q.P.).
Ora è chiaro che l’atto di fede di “militare con coraggio sotto le insegne di Cristo Re” non potrà mai connaturarsi con lo Stato democratico-repubblicano, giacché, come dice lo stesso Pontefice Leone XIII e come riporta il prof. Fontana: «[…] l’origine della potestà civile è in Dio, non nel popolo, […] appare evidente che in tal modo lo Stato (scilicet: democratico) non sarebbe nient’altro che la moltitudine arbitra e guida di se stessa; e poiché si afferma che il popolo contiene in se stesso la sorgente di ogni diritto e di ogni potere, di conseguenza la comunità non si riterrà vincolata ad alcun dovere verso Dio» (I.D.).
Senza voler entrare qui nel merito della delicata questione sulla natura dei rapporti tra Sacerdozio e Regalità (vittima purtroppo, ancora, di troppi fraintendimenti ed incomprensioni, ma sulla quale ci siamo già dilungati maggiormente in altre sedi), concludiamo citando ancora alcune emblematiche parole di Leone XIII: «Nell’ambito politico e civile, le leggi hanno per oggetto il bene comune, e sono conformate non alla volontà e al fallace giudizio della moltitudine, ma alla verità e alla giustizia; l’autorità dei Principi riveste un carattere in certo modo sacro e sovrumano, e ha dei limiti perché non si allontani dalla giustizia né trascenda ad abusi nel comando […].
Vi fu un tempo in cui la filosofia del Vangelo governava la società: allora la forza della sapienza cristiana e lo spirito divino erano penetrati nelle leggi, nelle istituzioni, nei costumi dei popoli, in ogni ordine e settore dello Stato, quando la religione fondata da Gesù Cristo, collocata stabilmente a livello di dignità che le competeva, ovunque prosperava, col favore dei Principi e sotto la legittima tutela dei magistrati; quando sacerdozio e impero procedevano concordi e li univa un fausto vincolo di amichevoli e scambievoli servigi. La società trasse da tale ordinamento frutti inimmaginabili […].
E certamente tutti quei benefìci sarebbero durati, se fosse durata la concordia tra i due poteri: e a ragione se ne sarebbero potuti aspettare altri maggiori, se con maggiore fede e perseveranza ci si fosse inchinati all’autorità, al magistero, ai disegni della Chiesa. Si deve infatti attribuire il valore di legge eterna a quella grandissima sentenza scritta da Ivo di Chartres al pontefice Pasquale II: “Quando regno e sacerdozio procedono concordi, procede bene il governo del mondo, fiorisce e fruttifica la Chiesa. Se invece la concordia viene meno, non soltanto non crescono le piccole cose, ma anche le grandi volgono miseramente in rovina” (I.D.)».
Chi ha orecchi per intendere intenda
[1] AA.VV., Cavalleria: una via sempre aperta, Città Ideale, Prato 2017; AA.VV., Cristo è Re. La Regalitas quale archetipo della Chiesa cattolica, Cantagalli, Siena 2021.