di Aurelio Porfiri
Caro Aldo Maria,
credo che in questo nostro scambio epistolare, che secondo me ci ha messi in grado di tirare fuori tante cose che ci covavano dentro, ci siamo detti tutto, o quasi. Nella tua ultima lettera mi facevi partecipe ancora una volta dello stato di costrizione sanitaria in cui ti senti intrappolato e io ti capisco, non è piacevole per nessuno.
Mentre riflettevo sulle lettere che ci siamo scambiati mi veniva in mente la conversazione che ebbi con un amico comune, nella quale venivano fuori alcuni degli argomenti che sono stati presenti anche nel nostro scambio. Lui mi disse una cosa che mi è rimasta sempre impressa, e cioè che siamo alla fine di una civilizzazione. Da quel momento questa frase mi è rimasta nella memoria, perché credo sia profondamente vera. Siamo alla fine di qualcosa.
Ricordi? Qualche lettera fa ti ho parlato del crepuscolo. Mi sembra che questa immagine possa rendere bene l’atmosfera in cui siamo immersi: siamo nel momento in cui qualcosa si sta spegnendo. La domanda ovviamente è: siamo a una fine o a un nuovo inizio? Certo, i segni che interpretiamo ci fanno essere pessimisti e, per quanto mi riguarda, l’unico motivo per cui tengo il freno pigiato è che credo nella promessa di Gesù di assistere la sua Chiesa fino alla fine. Il problema è che non sappiamo come lo farà.
Qualche giorno fa ho letto la notizia di un uomo inglese, un operaio, che ha vinto più di dieci milioni di euro alla lotteria. Ebbene, in pochi anni questo signore ha sperperato il patrimonio, fino all’ultimo centesimo, in alcool, donne e divertimenti vari. E chi lo rimprovera egli risponde che non ha rimpianti, perché considera il periodo dei bagordi come il migliore della sua vita. Ora, se tutto ciò che stiamo vivendo è veramente una fine, l’atteggiamento di quell’uomo potrebbe sembrare quasi ragionevole: goditela, finché puoi. Ma noi abbiamo quella promessa di Gesù, che ha detto che non ci abbandonerà. Se avesse detto qualcosa, non so, tipo che ci avrebbe aiutato ma se le cose si fossero deteriorate troppo non avrebbe potuto farci niente, per noi sarebbe più semplice capire come uscire da questa situazione. Ma non ha detto così. E quella promessa, se abbiamo fede in Lui, ci vincola a questa sofferenza e ci inchioda a una croce.
Ricorderai quel cardinale che chiese ai cattolici insofferenti: perché non ve ne andate? La risposta è semplice: perché non possono. Perché credere in quella morte redentrice vuol dire anche credere che ha valore tanto per un cardinale quanto per me. Se accettiamo questo, ne dobbiamo accettare anche le conseguenze; se decidessimo di rifiutare, allora vivremmo in un’altra dimensione esistenziale.
Dunque: è una fine o un inizio? Molti si interrogano sulla Chiesa del futuro. Certo, quella che ci si prospetta spaventa, e ci chiediamo come potrà mai migliorare rinunciando a sé stessa. Io penso fermamente che non potrà farlo, e lo pensi anche tu. Forse si avvererà ciò che preconizzò alcuni decenni fa l’allora cardinale Joseph Ratzinger: un piccolo resto rimarrà e forse sarà come per quei giapponesi del passato, che vissero la loro fede lontano dalla Chiesa ufficiale ma senza distaccarsene. Certo, loro erano costretti dalle circostanze storiche, ma immagino che per molti ora la situazione non sia così dissimile.
Io non so bene che cosa ci aspetta, anch’io vivo la stessa lacerazione che vivi tu, una lacerazione che è propria di tanti anche nel clero e tra i religiosi. Nelle scienze sociali si parla molto di cambio di paradigma. Ecco, posso dire che certamente se un cambio di paradigma non si è verificato nella Chiesa, si sta però verificando in noi stessi. In noi che prendiamo sul serio la promessa dell’uomo di Nazareth e ci sediamo dentro il crepuscolo, scacciando l’oscurità con gesti confusi. In attesa dell’aurora.