Lettera aperta al papa / “Ecco perché io, teologo domenicano, dico che ‘Traditionis custodes’ è tutta sbagliata”
La seguente lettera aperta a papa Francesco è stata scritta da padre Wojciech Gołaski. Una lucida, profonda e appassionata critica a Traditionis custodes e al metodo Bergoglio.
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Di padre Wojciech Golaski, OP
A Sua Santità papa Francesco
All’attenzione di:
Rev. Maestro generale dell’Ordine, Gerard Francisco Timoner III OP
Rev. Provinciale della Provincia polacca, Paweł Kozacki OP
SE Vescovo della diocesi di Tarnów, Andrzej Jeż
Rev. Superiore della Casa di Jamna, Andrzej Chlewicki OP
Fratelli e sorelle nell’Ordine
Rev. Superiore del Distretto polacco della Fraternità san Pio X, Karl Stehlin, FSSPX
Omnes quos res tangit
Santissimo Padre,
sono nato cinquantasette anni fa e sono entrato nell’Ordine domenicano trentacinque anni fa. Ho preso i voti perpetui ventinove anni fa e sono sacerdote da ventott’anni. Della mia prima infanzia ho solo vaghi ricordi circa la Santa Messa nella sua forma precedente alla riforma del 1970. Sedici anni dopo la mia ordinazione, due amici laici (sconosciuti tra loro) mi esortarono a imparare a celebrare la Santa Messa nella sua tradizionale. Li ho ascoltati.
È stato uno choc per me. Ho scoperto che la Santa Messa nella sua forma classica:
– dirige tutta l’attenzione del sacerdote e dei fedeli verso il Mistero,
– esprime, con grande precisione di parole e gesti, la fede della Chiesa in ciò che sta accadendo qui e ora sull’altare,
– rafforza, con una potenza pari alla sua precisione, la fede del celebrante e del popolo,
– non conduce né il sacerdote né i fedeli ad alcuna invenzione o creatività propria durante la liturgia,
– li pone, al contrario, su un cammino di silenzio e contemplazione,
– offre per il numero e la natura dei suoi gesti la possibilità di incessanti atti di pietà e di amore verso Dio,
– unisce il sacerdote e i fedeli, ponendoli dalla stessa parte dell’altare e volgendoli nella stessa direzione: versus Crucem, versus Deum.
Mi sono detto: ecco cos’è la Santa Messa! E io, sacerdote di sedici anni, non lo sapevo! È stato un potente eureka, una scoperta, dopo la quale la mia idea della Messa non poteva rimanere la stessa.
Fin dall’inizio mi aveva colpito che questo rito fosse l’opposto dello stereotipo. Al posto del formalismo, libera espressione dell’anima davanti a Dio. Invece della frigidità, il fervore del culto divino. Invece della distanza, vicinanza. Invece dell’estraneità, intimità. Invece della rigidità, sicurezza. Invece della passività dei laici, il loro legame profondo e vivo con il mistero (è stato attraverso i laici, in fondo, che sono stato condotto alla Messa tradizionale). Invece di una voragine tra sacerdote e fedeli, una stretta unione spirituale tra tutti i presenti, protetta ed espressa dal silenzio del Canone. Nel fare questa scoperta mi è apparso chiaro: questa stessa forma è il nostro ponte verso le generazioni che sono vissute prima di noi e ci hanno trasmesso la fede. La mia gioia in questa unità ecclesiale che trascende ogni tempo è stata enorme.
Fin dall’inizio ho sperimentato la potente forza di attrazione spirituale della Messa nella sua forma tradizionale. Non erano i segni in sé che mi attiravano, ma il loro significato, che l’anima sa leggere. Il solo pensiero della prossima celebrazione mi riempiva di gioia. Ho cercato ogni occasione per festeggiare con entusiasmo e desiderio. Ben presto maturò in me una certezza assoluta: se avessi celebrato la Messa (così come ogni Sacramento e cerimonia) solo nella sua forma tradizionale fino alla fine dei miei giorni, non avrei minimamente mancato alla forma postconciliare.
Se qualcuno mi avesse chiesto di esprimere con una sola parola i miei sentimenti sulla celebrazione tradizionale nel contesto del rito riformato, avrei risposto “sollievo”. Perché era davvero un sollievo, di una profondità indescrivibile. Era come quello di chi, avendo camminato tutta la vita con scarpe con un sassolino che sfrega e irrita i piedi, ma che non ha altra esperienza del camminare, si vede offrire, sedici anni dopo, un paio di scarpe senza sassolino e le parole: “Ecco”, “Indossale”, “Provale!”.
Ho riscoperto non solo la Santa Messa, ma anche la sorprendente differenza tra le due forme: quella in uso da secoli e quella postconciliare. Non conoscevo questa differenza perché non conoscevo la forma precedente. Non posso paragonare il mio incontro con la liturgia tradizionale a un incontro con qualcuno che mi ha adottato ed è diventato mio genitore adottivo. È stato un incontro con una Madre che è sempre stata mia Madre, anche se non l’avevo conosciuta.
In tutto questo sono stato accompagnato dalla benedizione dei Sommi Pontefici. Avevano insegnato che il messale del 1962 «non era mai stato legalmente abrogato ed è rimasto quindi, in linea di principio, sempre consentito», aggiungendo che «ciò che era stato sacro per le generazioni precedenti è rimasto sacro e grande anche per noi, e non poteva improvvisamente diventare del tutto vietato e nemmeno considerato dannoso. Spetta a tutti noi conservare le ricchezze che sono state sviluppate attraverso la fede e la preghiera della Chiesa e dare loro il posto che le spetta» (Benedetto XVI, Lettera ai vescovi, 2007). Ai fedeli veniva anche insegnato: “Per il suo uso venerabile e antico, la forma extraordinaria si mantenga con l’onore che le spetta”. Tale Messa è stata descritta come “un prezioso tesoro da custodire” (Istruzione Universae Ecclesiae, 2011). Queste parole seguono documenti precedenti che hanno permesso ai fedeli di utilizzare la liturgia tradizionale dopo le riforme del 1970, la prima delle quali è stata Quattuor abhinc annos del 1984. Il fondamento e la fonte di tutti questi documenti rimane la bolla di san Pio V Quo primum tempo (1570).
Santo Padre, se, senza dimenticare il solenne documento di Papa Pio V, prendiamo in considerazione il lasso di tempo che copre le dichiarazioni dei suoi immediati predecessori, abbiamo una durata di trentasette anni, dal 1984 al 2021, durante i quali la Chiesa ha detto ai fedeli, riguardo alla liturgia tradizionale, e sempre più fortemente: “C’è questa via. Ci puoi camminare”.
Ho quindi intrapreso il cammino offertomi dalla Chiesa.
Chi percorre questa strada, chi vuole che questo rito, vaso della Presenza divina e della divina Oblazione, porti frutto nella propria vita, deve aprirsi interamente per affidare se stesso e gli altri a Dio, presente e operante in noi mediante questo santo rito. Questo l’ho fatto, con completa fiducia.
Poi è arrivato il 16 luglio 2021.
Dai suoi documenti, Santo Padre, ho appreso che il sentiero che percorrevo da dodici anni aveva cessato di esistere.
Abbiamo affermazioni di due Papi. Sua Santità Benedetto XVI aveva affermato che il Messale Romano promulgato da san Pio V “deve essere considerato l’espressione straordinaria della lex orandi della Chiesa cattolica di rito romano”. Eppure Sua Santità Papa Francesco afferma che «i libri liturgici promulgati dai Papi san Paolo VI e san Giovanni Paolo II (…) sono l’unica espressione della lex orandi del rito romano». L’affermazione del successore smentisce così quella del suo predecessore ancora in vita.
Può un certo modo di celebrare la Messa, confermato da una Tradizione immemorabile e secolare, riconosciuta da ogni Papa, compreso Lei, Santo Padre, fino al 16 luglio 2021, e santificato dalla sua pratica per tanti secoli, cessare improvvisamente di essere la lex orandi del rito romano? Se così fosse, significherebbe che tale caratteristica non è intrinseca al rito ma è un attributo esterno, soggetto alle decisioni di coloro che occupano posti di alta autorità. In realtà, la liturgia tradizionale esprime la lex orandi del rito romano con ogni suo gesto e ogni sua frase e con l’insieme che compongono. È garantito anche per esprimere questa lex orandi, come ha sempre ritenuto la Chiesa, per il suo uso ininterrotto, da tempo immemorabile. Dobbiamo concludere che la prima affermazione papale [di Benedetto] ha solide basi ed è vera e che la seconda [di Francesco] è infondata ed è falsa. Ma nonostante sia falsa, le viene comunque conferito potere di legge. Questo ha delle conseguenze di cui scriverò di seguito.
Le concessioni sull’uso del Messale del 1962 hanno ora un carattere diverso rispetto a quelle precedenti. Non si tratta più di rispondere all’amore con cui i fedeli aderiscono alla forma tradizionale, ma di dare ai fedeli il tempo – quanto tempo, non ci è detto – per “tornare” alla liturgia riformata. Le parole del motu proprio e la vostra Lettera ai vescovi rendono del tutto chiaro che è stata presa la decisione, già in atto, di togliere la liturgia tradizionale dalla vita della Chiesa e gettarla nell’abisso dell’oblio: non si può usare nelle parrocchie, non si devono formare nuovi gruppi, bisogna consultare Roma se la devono celebrare nuovi preti. I vescovi ora devono davvero essere Traditionis custodes, “custodi della Tradizione”, ma non nel senso di guardiani che la proteggono, ma piuttosto nel senso di custodi di un carcere.
Consentitemi di esprimere la mia convinzione che ciò non accadrà e che l’operazione fallirà. Quali sono i motivi di questa convinzione? Un’attenta analisi di entrambe le Lettere del 16 luglio mette in luce quattro componenti: hegelismo, nominalismo, fede nell’onnipotenza del Papa e responsabilità collettiva. Ognuna è una componente essenziale del vostro messaggio e nessuna di esse è riconciliabile con il deposito della fede cattolica. E poiché non possono essere riconciliate con la fede, non saranno integrate in essa né in teoria né in pratica. Esaminiamole.
1) Hegelismo. Il termine è convenzionale: non significa letteralmente il sistema del filosofo tedesco Hegel, ma qualcosa che deriva da questo sistema, cioè la comprensione della storia come un processo buono, razionale e di inevitabili continui cambiamenti. Questo modo di pensare ha una lunga storia, da Eraclito e Plotino, a Gioacchino da Fiore, fino a Hegel, Marx e ai loro eredi moderni. La caratteristica di questo approccio è quella di dividere la storia in fasi, in modo tale che l’inizio di ogni nuova fase sia unito alla fine di quella precedente. I tentativi di “battezzare” l’hegelismo non sono altro che tentativi di dotare queste presunte fasi storiche dell’autorità dello Spirito Santo. Si presume che lo Spirito Santo comunichi alla generazione successiva qualcosa di cui non ha parlato alla precedente, o addirittura che impartisca qualcosa che contraddice ciò che ha detto prima. In quest’ultimo caso, dobbiamo accettare una delle tre cose: o in certe fasi la Chiesa non ha obbedito allo Spirito Santo, o lo Spirito Santo è soggetto a cambiamenti, o porta in sé delle contraddizioni.
Un’altra conseguenza di questa visione del mondo è un cambiamento nel modo in cui comprendiamo la Chiesa e la Tradizione. La Chiesa non è più vista come una comunità che unisce i fedeli trascendendo il tempo, come sostiene la fede cattolica, ma come un insieme di gruppi appartenenti alle varie fasi. Questi gruppi non hanno più un linguaggio comune: i nostri antenati non avevano accesso a ciò che lo Spirito Santo ci dice oggi. La stessa tradizione non è più un messaggio continuamente studiato; consiste piuttosto nel ricevere sempre nuove cose dallo Spirito Santo. Veniamo poi a sentire, come nella Sua Lettera ai Vescovi, Santo Padre, della “dinamica della Tradizione”, spesso con un’applicazione a eventi specifici. Un esempio di ciò è quando scrive che “l’ultima tappa di questa dinamica è il Concilio Vaticano II, durante il quale i vescovi cattolici si sono riuniti per ascoltare e discernere la via indicata alla Chiesa dallo Spirito Santo”. Questo ragionamento implica che una nuova fase richiede nuove forme liturgiche, perché le prime erano adatte alla fase precedente, che è finita. Poiché questa sequenza di tappe è sancita dallo Spirito Santo, attraverso il Concilio, coloro che si aggrappano alle vecchie forme, pur avendo accesso a quelle nuove, si oppongono allo Spirito Santo.
Tali opinioni, tuttavia, sono contrarie alla fede. La Sacra Scrittura, norma della fede cattolica, non fornisce alcun fondamento per una tale comprensione della storia. Piuttosto, ci insegna una comprensione completamente diversa. Il re Giosia, dopo aver appreso della scoperta dell’antico libro della Legge, ordinò che la celebrazione della Pasqua si svolgesse in conformità a esso, nonostante un’interruzione di mezzo secolo (2 Re 22-23). Allo stesso modo, Esdra e Neemia al loro ritorno dalla cattività babilonese celebrarono con tutto il popolo la Festa dei Tabernacoli, rigorosamente secondo gli antichi documenti della Legge, nonostante fossero trascorsi molti decenni dalla precedente celebrazione (Ne 8). In ogni caso, gli antichi documenti della legge servivano a rinnovare il culto divino dopo un periodo di fermento. Nessuno ha chiesto un cambiamento nel rituale per il fatto che erano arrivati nuovi tempi.
2) Nominalismo. Mentre l’hegelismo influenza la comprensione della storia, il nominalismo influenza la comprensione dell’unità. Il nominalismo implica che l’introduzione dell’unità esteriore (attraverso una decisione amministrativa dall’alto verso il basso) equivale al raggiungimento dell’unità reale. Questo perché il nominalismo abolisce la realtà spirituale cercando di coglierla e regolarla con misure materiali. Lei, Santo Padre, scrive: «È per difendere l’unità del Corpo di Cristo che sono costretto a ritirare la facoltà concessa dai miei predecessori». Ma per raggiungere questo traguardo, la vera unità, i vostri predecessori hanno preso la decisione opposta, e non senza ragione. Quando si comprende che la vera unità include qualcosa di spirituale e di interno, e quindi differisce dalla mera unità esterna, non la si cerca più semplicemente per uniformità di segni esterni. L’unità non risulta dalla revoca delle facoltà, dalla revoca del consenso e dall’imposizione di limitazioni. Il re Roboamo di Giuda, prima di decidere come trattare gli israeliti che desideravano per loro una sorte migliore, consultò due gruppi di consiglieri. I più anziani raccomandavano la clemenza e una riduzione dei fardelli delle persone: l’età, nella Sacra Scrittura, simboleggia spesso la maturità. I giovani, contemporanei del re, raccomandavano di aumentare i propri fardelli e l’uso di parole dure: la giovinezza, nella Scrittura, simboleggia spesso l’immaturità. Il re seguì il consiglio del giovane, ma ciò non portò all’unità tra Giuda e Israele. Al contrario, iniziò la divisione del paese in due regni (1 Re 12). Nostro Signore sanò la divisione con la mitezza, sapendo che la mancanza di questa virtù aveva causato la scissione.
Prima della Pentecoste, gli apostoli valutavano l’unità secondo criteri esterni. Questo approccio è corretto dal Salvatore stesso, il quale, in risposta alle parole di san Giovanni, “Maestro, abbiamo visto un uomo scacciare gli spiriti maligni nel tuo nome e non glielo abbiamo permesso, perché non era uno di noi», risponde: «Lo faccia, perché chi non è contro di te è con te» (Lc 9,49-50, cfr Mt 9,38-41).
Santo Padre, lei aveva molte centinaia di migliaia di fedeli che “non erano contro” di lei. E lei ha fatto così tanto per rendere loro le cose difficili! Non sarebbe stato meglio seguire le parole del Salvatore che indicavano un più profondo fondamento spirituale dell’unità? L’hegelismo e il nominalismo diventano spesso alleati, poiché la comprensione materialistica della storia porta alla convinzione che ogni tappa debba terminare irrevocabilmente.
3) Credere nell’onnipotenza del Papa. Quando papa Benedetto XVI ha concesso maggiore libertà all’uso della forma classica della liturgia, ha fatto riferimento a una consuetudine e un usus secolari che fornirono una solida base alla sua determinazione. La decisione di Vostra Santità non poggia su tali fondamenti. Al contrario, revoca qualcosa che è esistito e ha resistito per molto tempo. Lei scrive, Santo Padre, che trova sostegno nelle decisioni di san Pio V, ma ha applicato criteri esattamente opposti ai suoi. Secondo lui, ciò che era esistito e durato secoli sarebbe continuato indisturbato; solo ciò che era più recente è stato abrogato. L’unica base rimasta per la sua decisione è quindi la volontà di una persona dotata di autorità papale. Ma può questa autorità, per quanto grande, impedire agli antichi costumi liturgici di essere espressione della lex orandi della Chiesa romana? San Tommaso d’Aquino si chiede se Dio può far sì che qualcosa che una volta è esistito non sia mai esistito. La risposta è no, perché la contraddizione non fa parte dell’onnipotenza di Dio (Summa theologiae, p. I, qu. 25, art. 4). In modo analogo, l’autorità papale non può far sì che rituali tradizionali che hanno espresso per secoli la fede della Chiesa (lex credendi) improvvisamente, un certo giorno, non esprimano più la legge della preghiera della Chiesa stessa (lex orandi). Il Papa può prendere decisioni, ma non quelle che violano un’unità che si estende al passato e al futuro, ben oltre la durata del suo pontificato. Il Papa è al servizio di un’unità più grande della sua stessa autorità. Perché è un’unità donata da Dio e non di origine umana. È dunque l’unità che prevale sull’autorità, e non l’autorità sull’unità.
4) Responsabilità collettiva. Indicando i motivi della sua decisione, Santo Padre, lei avanza varie e gravi accuse contro coloro che esercitano le facoltà riconosciute da papa Benedetto XVI. Non è specificato, tuttavia, chi perpetra questi abusi, né dove, né in quale numero. Ci sono solo le parole “spesso” e “molti”. Non sappiamo nemmeno se sia la maggioranza. Probabilmente no. Eppure non la maggioranza, ma tutti coloro che si avvalgono delle suddette facoltà sono stati colpiti da una sanzione penale draconiana. Sono stati privati immediatamente del loro percorso spirituale, o lo saranno in un futuro non specificato. Ci sono sicuramente persone che abusano dei coltelli. Occorre dunque vietare la produzione e la distribuzione di coltelli? La sua decisione, Santo Padre, è molto più grave dell’ipotetica assurdità di un divieto universale di fabbricare coltelli.
Santo Padre, perché lo fa? Perché ha attaccato la santa pratica dell’antica forma di celebrare il Santissimo Sacrificio di Nostro Signore? Gli abusi commessi in altre forme, diffuse o universali che siano, non portano a nulla che a parole, a dichiarazioni espresse in termini generali. Ma come insegnare con autorità che «la scomparsa di una cultura può essere altrettanto grave, o anche più grave, della scomparsa di una specie vegetale o animale» (Laudato sì’, 145), e poi qualche anno dopo, con un solo atto, destinare all’estinzione gran parte del patrimonio spirituale e culturale della Chiesa? Perché le regole di “ecologia profonda” da lei formulate non trovano applicazione in questo caso? Perché invece non si è chiesto se il numero sempre crescente di fedeli che assistono alla liturgia tradizionale possa essere un segno dello Spirito Santo? Non ha seguito il consiglio di Gamaliele (At 5). Invece li hai colpiti con un divieto che non prevede nemmeno una vacatio legis.
Il Signore Dio, modello per i governanti terreni e, in primo luogo, per le autorità ecclesiastiche, non usa la sua potenza in questo modo. Così parla la Sacra Scrittura: “Poiché la tua potenza è il principio della giustizia: e poiché di tutti sei Signore, con tutti ti fai grazia (…): perché la tua potenza è a portata di mano quando appassisci» (Sap 12,16-18). Il vero potere non ha bisogno di dimostrarsi con la durezza. E la durezza non è attributo di alcuna autorità che segua il modello divino. Il nostro stesso Salvatore ci ha lasciato in proposito un insegnamento preciso e affidabile (Mt 20, 24-28). Non solo il tappeto è stato strappato, per così dire, da sotto i piedi delle persone che camminavano verso Dio; è stato fatto un tentativo di privarli del terreno stesso su cui camminano. Ebbene, questo tentativo non avrà successo. Nulla che sia in conflitto con il cattolicesimo sarà accettato nella Chiesa di Dio.
Santo Padre, è impossibile sperimentare la terra sotto i piedi per dodici anni e affermare improvvisamente che non c’è più. È impossibile concludere che la mia stessa Madre, ritrovata dopo molti lunghi anni, non sia mia Madre. L’autorità papale è immensa, me nemmeno questa autorità può far sì che mia Madre smetta di essere mia Madre! Una sola vita non può sopportare due rotture che si escludono a vicenda, una delle quali apre un tesoro, mentre l’altra sostiene che questo tesoro deve essere abbandonato perché il suo valore è scaduto. Se dovessi accettare queste contraddizioni, non potrei più avere alcuna vita intellettuale e, quindi, neppure una vita spirituale. Da due affermazioni contraddittorie può derivare qualsiasi affermazione, vera o falsa. Ciò significa la fine del pensiero razionale, la fine di ogni nozione di realtà, la fine della comunicazione effettiva di qualsiasi cosa a chiunque. Ma tutte queste cose sono componenti fondamentali della vita umana in generale, e della vita domenicana in particolare.
Non ho dubbi sulla mia vocazione. Sono fermamente deciso a continuare la mia vita e il mio servizio nell’Ordine di san Domenico. Ma per farlo devo essere in grado di ragionare correttamente e logicamente. Dopo il 16 luglio 2021 questo non è più possibile per me all’interno delle strutture esistenti. Vedo con tutta chiarezza che il tesoro dei santi riti della Chiesa, la terra sotto i piedi di coloro che li praticano, e la madre della loro pietà, continua a esistere. E mi è diventato altrettanto chiaro che devo testimoniarlo.
Non mi resta ora altra scelta che rivolgermi a coloro che fin dall’inizio dei cambiamenti radicali (cambiamenti, si noti, che vanno ben oltre la volontà del Concilio Vaticano II) hanno difeso la Tradizione della Chiesa, insieme con il rispetto della Chiesa per le esigenze della ragione, e che continuano a trasmettere ai fedeli il deposito immutabile della fede cattolica: la Fraternità sacerdotale san Pio X. La FSSPX si è mostrata disponibile ad accogliermi, nel pieno rispetto della mia identità domenicana. Mi sta fornendo non solo una vita di servizio a Dio e alla Chiesa, un servizio non ostacolato da contraddizioni, ma anche un’opportunità per oppormi a quelle contraddizioni che sono nemiche della Verità e che hanno attaccato la Chiesa con tanta forza.
C’è uno stato di controversia tra la FSSPX e le strutture ufficiali della Chiesa. È una disputa interna alla Chiesa, e riguarda questioni di grande importanza. I documenti e le decisioni del 16 luglio hanno fatto convergere la mia posizione su questo tema verso quella della FSSPX. Come ogni controversia importante, anche questa deve essere risolta. Sono determinato a dedicare i miei sforzi a questo fine. Intendo che questa lettera sia parte di questo sforzo. I mezzi usati non possono che essere un umile rispetto per la Verità e la gentilezza, entrambi scaturiti da una fonte soprannaturale. Possiamo così sperare nella soluzione della controversia e nella ricostruzione di un’unità che abbracci non solo coloro che vivono ora, ma anche tutte le generazioni, passate e future.
La ringrazio per l’attenzione che ha riservato alle mie parole e prego, Santissimo Padre, per la sua benedizione apostolica.
Con filiale devozione in Cristo,
Fr. Wojciech Golaski, OP
Fonte: rorate-caeli.blogspot.com
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