Il 18 novembre di centocinquant’anni fa nasceva Robert Hugh Benson. Per l’occasione vi ripropongo la mia prefazione al libro I grandi romanzi distopici. “Il padrone del mondo” e “L’alba di tutto”, edito da Fede & cultura.
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di Aldo Maria Valli
Uno scrittore che abbia a cuore, molto a cuore, alcune idee, una fede e una verità per lui determinanti ha davanti a sé una domanda: meglio un saggio o un romanzo? La strada della saggistica è quella della ragione, la strada della narrativa è quella dell’emozione. Non che le due non possano andare insieme, ma si tratta di decidere su quale tasto si vuole premere di più. Sapendo comunque che la narrativa, almeno in linea generale, è in grado di coinvolgere un pubblico più vasto.
Robert Hugh Benson (1871 – 1914), prete cattolico convertito dall’anglicanesimo, per dire ciò che gli sta a cuore, e per esprimere le sue preoccupazioni circa i rischi che vede all’orizzonte, nell’Inghilterra dei primi anni del Novecento sceglie la strada sia della saggistica sia della narrativa, ma se oggi lo ricordiamo, e lo leggiamo ancora con gusto, è soprattutto per la seconda, e in particolare per due romanzi fantapolitici e apologetici, Il padrone del mondo e L’alba di tutto, che catturano con il fascino del presagio, il gusto del paradosso e, per chi ha orecchie per intendere, la forza dell’avvertimento.
Consideriamo le date. Benson scrive Il padrone del mondo nel 1907 e L’alba di tutto nel 1911. La prima guerra mondiale (1914 – 1918) non è ancora scoppiata e per arrivare all’altro sconvolgimento epocale che segnerà il Novecento, la rivoluzione d’ottobre in Russia (1917), mancano alcuni anni. L’inaffondabile Titanic, simbolo della più avanzata tecnologia del tempo, non è ancora colato a picco (lo farà nel 1912) e in Inghilterra il diritto di voto è assicurato solo a una minoranza di cittadini maschi (verrà esteso a tutti nel 1918). Guglielmo Marconi ha da poco realizzato la sua prima trasmissione radio transatlantica (1901), nelle città incominciano a circolare automobili che non hanno più la forma di carrozze e nel 1908 il signor Ford, con il Modello T, inventa la prima auto costruita in serie. Finito il lungo regno della regina Vittoria, l’Inghilterra è nell’età edoardiana, segnata da rigido classismo, esplorazioni avventurose (il comandante Scott salpa per l’Antartide nel 1901 e nel 1910) e passione crescente per gli sport (i giochi olimpici di Londra sono del 1908). La Belle Époque sta per vivere gli ultimi sussulti e il mito del progresso incomincia a mostrare crepe ed aspetti perversi, come si vedrà durante il conflitto mondiale, l’«inutile strage», secondo la celebre definizione di Benedetto XV.
È in questo contesto che Robert Hugh, quarto e ultimo figlio dell’arcivescovo di Canterbury Edward White Benson, scrive i due libri che Fede & Cultura opportunamente propone in coppia al lettore italiano. Siamo nel campo di quella che oggi chiamiamo christian fiction o, meglio ancora, ucronia, cioè la storia alternativa, che si sviluppa secondo la logica del «che cosa sarebbe successo se…».
Mentre la storia non si fa con i se, l’ucronia vive di ipotesi, e Benson è un maestro nel tenerle assieme in modo che formino universi coerenti. Però i due libri partono da premesse opposte: mentre infatti Il padrone del mondo descrive una società futura (siamo attorno all’anno duemila) nella quale i cattolici sono emarginati e perseguitati, nell’altro libro, L’alba di tutto (ambientato alla metà degli anni Settanta del XX secolo), lo scenario è completamente diverso: il mondo è quasi interamente cattolico, le leggi della Chiesa sono alla base della morale e del diritto, il latino è la lingua internazionale e il Papa sta per avere il controllo su ogni regno.
L’alba di tutto nasce, come spiega lo stesso Benson, come una sorta di atto di riparazione. Dopo aver letto Il padrone del mondo, che ha avuto un successo immediato, molti lettori ci sono rimasti male: troppo pessimismo, troppi scenari da incubo. E allora ecco la nuova opera, che dovrebbe deliziare i buoni cattolici con la visione di un mondo ideale, nel quale la fede proposta e trasmessa secondo i canoni di Santa Romana Chiesa ha il predominio su tutto (se si eccettua la strenua opposizione dell’imperatore di Germania e dei socialisti).
Ma Benson, da buon inglese, ha un certo senso dell’umorismo che si nutre di paradossi. Ed ha anche il gusto per il coupe de théâtre, per cui l’eventuale lettore cattolico esaltato da un futuro tanto appetibile è bene che non si lasci andare a troppo facili entusiasmi.
Di certo Benson sa tenere desta l’attenzione di chi decide di giocare con lui. Lo fa con un’immaginazione sfrenata, che riguarda sia le cose sia il pensiero ed è lo strumento da lui utilizzato per dire: attenti a ciò che fate e vi fanno fare, attenti a ciò che pensate e vi fanno pensare, attenti alle verità in cui credete di credere o non credere. In ballo non ci sono dettagli di poco conto: c’è l’uomo stesso, c’è il suo destino eterno.
Quando scrive Il padrone del mondo Benson ha trentasei anni ed è prete cattolico da tre. Dopo essere stato ordinato nella Chiesa anglicana (1895), è incominciato per lui un cammino di conversione. Durante un viaggio in Egitto scopre che gli anglicani non solo sono pochissimi, ma, al di fuori dell’Inghilterra, non sono nemmeno considerati una vera Chiesa. Ma soprattutto, col passare del tempo e gli studi sempre più approfonditi, avverte in modo chiaro che tra anglicanesimo e cattolicesimo c’è un abisso: da una parte soggettivismo e mancanza di punti fermi, dall’altra sana dottrina e unità, garantite proprio da colui che per gli anglicani è la pietra dello scandalo, ovvero il Papa. La multiformità che ha riscontrato in seno alla Chiesa anglicana, per quanto riguarda sia le dottrine sia i riti, lo ha sconcertato. Si è accorto che tra gli anglicani l’insegnamento sulla presenza reale di Cristo nell’Eucaristia è trascurato e il sacramento della riconciliazione emarginato. Evidenti nella Chiesa anglicana sono poi i sintomi del classismo: tutto l’opposto di quanto avviene (anche se non sempre) tra i cattolici. Così, attraverso un percorso che ricorda quello di altri grandi convertiti, come John Henry Newman e, più ancora, Henry Edward Manning, il giovane pastore, spinto dalla ricerca della verità, ha chiesto di essere accolto nella Chiesa cattolica e il 12 giugno del 1904, a Roma, nella chiesa di San Silvestro, è stato ordinato sacerdote.
Quando leggiamo Benson non dobbiamo mai dimenticare questa vicenda spirituale. La sua ucronia nasce non dalla ricerca dell’eccentrico e dalla voglia di stupire, ma dal desiderio di condividere un senso di turbamento e apprensione: se il tesoro della fede è trascurato, svenduto, non custodito, se l’uomo, e non Dio, è messo al primo posto, le conseguenze sono pesanti. E lui, Robert Hugh, lui che è nato fuori dal gregge cattolico ed ha avvertito il bisogno di rientrarci, lui che per questo ha pagato e paga un prezzo, le conseguenze le conosce bene. Ecco dunque che le storie che immagina, sebbene ambientate in un futuro lontano, parlano di noi e ci chiedono di aprire gli occhi, anche se può costare sofferenza.
In uno degli episodi più significativi de Il padrone del mondo il protagonista, il prete cattolico londinese Percy Franklin, si trova ad assistere alle conseguenze devastanti di un incidente aereo. In quanto sacerdote, si prodiga per cercare di confortare i feriti, per assicurare il viatico ai moribondi. Ma ecco che arrivano i solerti addetti alla sanità dello Stato, i quali, anziché soccorrere e curare, che cosa fanno? Praticano l’eutanasia. Si tratta solo di un frammento di un romanzo complesso, ma forse qui c’è il succo: un regime formalmente pietoso ed umanitario, ispirato ai buoni sentimenti, si rivela in realtà portatore di morte. Perché? Perché ha abbandonato Dio e i suoi comandamenti, che sono per il nostro autentico bene, e al suo posto ha messo l’uomo e le sue leggi, che sono al servizio non del vero bene ma dell’utile, non della verità che tutto illumina, ma del relativismo che tutto giustifica, non della vera felicità ma di una felicità falsa e illusoria.
Il contrasto tra il prete che si china sul ferito con amore, per curare le piaghe del corpo e dell’anima, e il ministro statale dell’eutanasia che fa altrettanto, ma per procurare una rapida morte, non potrebbe essere più eloquente.
Qualcuno dirà: ma dalle ucronie di Benson ai nostri giorni è passato più di un secolo; possibile che siano ancora attuali?
La risposta è che Benson è non solo attuale, ma attualissimo. E lo è proprio perché scrive un secolo fa.
Come detto, l’autore vive prima dei due grandi conflitti mondiali, prima dell’avvento del comunismo in Russia, prima dell’irrompere del nazismo in Germania. Non avendo ancora conosciuto questi drammi senza precedenti e le loro sconvolgenti conseguenze (sul punto sono illuminanti le riflessioni di Luca Fumagalli, forse il nostro più acuto studioso di Benson), è in grado di delineare il conflitto tra bene e male, tra verità e menzogna, tra libertà e tirannia, con una radicalità che in seguito non sarà più possibile, perché quei terremoti politici, sociali, culturali e spirituali avranno inevitabilmente un’influenza (pensiamo all’opera di George Orwell, di Aldous Huxley) su ogni utopia e distopia. In una parola: libero dal peso dell’ideologia, Benson può andare al nocciolo della questione. E il nocciolo è che se l’uomo si mette al posto di Dio, se rifiuta Dio per adorare se stesso, si condanna al disastro, alla perdizione. In più, proprio perché a-ideologico, Benson si trova in una condizione molto simile alla nostra. Anche noi, che abbiamo assistito al crollo delle grandi ideologie, siamo privi di una concezione del mondo forte e vincolante. Anche noi, che viviamo nella cosiddetta postmodernità e nell’epoca del pensiero debole, non abbiamo una fede politica e una filosofia in grado di leggere e interpretare il presente. Anche noi riponiamo speranza e fiducia incondizionata nella scienza e nella tecnica, uniche «religioni» che ci restano. E se tutto ciò ci procura incertezza e disorientamento, ci permette anche, se lo vogliamo, di cogliere i problemi nella loro essenza, al di là delle letture imposte dalle ideologie.
Non a caso ne Il padrone del mondo il nemico non è un partito e il male non è impersonato da un dittatore o da un capopopolo. Giuliano Felsemburgh, il cattivo, è niente meno che l’Anticristo. E, in quanto tale, non si presenta con le caratteristiche perverse del male politico: non alza la voce, non si mostra aggressivo, non lancia invettive, non fa proclami. Al contrario, sembra proprio la bontà in persona. Si accredita come il pacificatore, come l’uomo del dialogo, equilibrato e saggio, sempre in grado di dominare le proprie emozioni e di governare al meglio. Elegante e istruito, parla quindici lingue. Di lui ci si può, ci si deve fidare.
In questo quadro la fede cristiana non è più necessaria e la Chiesa cattolica non ha più senso. Al posto della carità ecco la filantropia, al posto della fede in Dio ecco l’umanitarismo, la fede nell’uomo. In un’epoca in cui scienza e tecnologia assicurano comodità e certezze prima inconcepibili, non resta che affidarsi al nuovo Padrone del mondo: lui saprà dove condurci.
Dal suo punto di osservazione di cent’anni fa Benson vede l’oggi: l’eutanasia come atto necessario, i matrimoni a scadenza, il benessere psicofisico elevato a religione, la fede religiosa considerata alla stregua di una barbara superstizione, la coscienza umana come contenitore da riempire con la competenza tecnica e non con i valori morali, un governo mondiale che, in nome della pace, elimina le differenze. Su tutto e tutti c’è lui, Giuliano Felsemburgh, il salvatore del mondo, che inneggia alla «grande fratellanza universale» e supera ogni vecchia divisione in virtù di una pace che è in realtà uniformità e asservimento.
Solo Franklin e pochi altri, ragionando con la propria testa alla luce della fede cattolica, riescono a vedere oltre le apparenze, a scorgere il falso profeta che si cela dietro il simbolo della bontà e della pace. Ma la lotta è impari.
Qualche anno prima di Benson, un avvertimento simile era arrivato da Oriente, dal russo ortodosso Vladimir Solov’ev, che con il suo Il racconto dell’Anticristo aveva a sua volta delineato la figura di un imperatore apparentemente benevolo, ma in realtà diabolico. E proprio le parole rivolte all’imperatore dallo starets Giovanni, capo spirituale del piccolo gregge ortodosso, sono forse le migliori per riassumere anche ciò che Benson ci vuole ricordare: «Grande sovrano! Quello che abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui e tutto ciò che viene da Lui, perché sappiamo che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità». Ovviamente il sovrano farà uccidere il vecchio Giovanni, ma Dio non abbandonerà il suo popolo.
Se l’obiettivo è divinizzare l’uomo, il peccato originale va tolto di mezzo. Occorre dire, al contrario, che l’uomo è naturalmente buono. Ed è proprio ciò che fa l’umanitarismo. Evidentemente si tratta di una grande illusione; dunque è di fondamentale importanza che le coscienze siano dominate, asservite e debitamente cloroformizzate: nessuno deve scoprire il trucco. Di qui il culto dell’uomo, allo scopo di rafforzare la visione generale, e di qui la persecuzione dei cattolici, questi ostinati che non vogliono piegarsi e continuano a credere che il castello di carte possa crollare.
Giuliano Felsemburgh, l’Anticristo, porta il nome di Giuliano l’apostata perché condizione e risultato del suo trionfo è l’apostasia, il generale rinnegamento della fede. Che non deve avvenire mediante atti eclatanti ma, semplicemente, con la caduta nell’indifferenza, alleata decisiva dell’ostilità e della persecuzione ai danni dei cattolici.
Il quadro è ora veramente completo e davvero noi ci possiamo specchiare in esso.
Resta da segnalare che tra gli ammiratori di Benson c’è papa Francesco, il quale in più di un’occasione ha raccontato di aver letto Il padrone del mondo e di esserne rimasto colpito. Ma l’interpretazione che ne dà Jorge Mario Bergoglio sembra tutta orizzontale. Secondo Francesco, infatti, l’opera di Benson ci mette in guardia dalla «colonizzazione ideologica» voluta da chi, per interessi personali e sete di potere, persegue lo scopo di eliminare le peculiarità dei popoli e abbattere le differenze per imporre un pensiero unico. Il che è vero, ma è solo uno dei pericoli indicati da Benson, e non quello che sta alla radice di tutto. Perché la colonizzazione ideologica è in realtà solo uno dei frutti avvelenati di un progetto ben più ampio, il cui obiettivo principale è togliere di mezzo Dio. Il che non si può fare senza togliere di mezzo la Chiesa cattolica, colpendola duramente (come ai tempi di Benson) oppure annettendola (come oggi).
Bergoglio avrà letto tutto Benson? La domanda sembra legittima dal momento che mentre Benson (il quale, non lo dimentichiamo, scrive durante il pontificato di Pio X) segnala la netta divaricazione tra Chiesa e mondo, la predicazione di Francesco è invece incentrata sull’abbraccio conciliante.
Che un papa di Santa Romana Chiesa potesse un giorno raccomandare appassionatamente l’osservanza di quegli autentici dogmi del politicamente corretto laicista che sono il dialogo e l’inclusione il buon Benson, nonostante la sua sfrenata fantasia, non riuscì a immaginarlo. E che poi, in sovrappiù, lo stesso papa potesse consigliare di leggere proprio Il padrone del mondo, ma ridotto a una specie di anticipazione della Teología del pueblo, beh, ecco, tutto ciò avrebbe probabilmente lasciato il buon prete inglese senza parole.