L’improbabilità dell’esistenza è la spia dell’Assoluto. Il fatto che la vita esista è un evento talmente improbabile da mettere qualunque ipotesi scientifica con le spalle al muro.
di Francesco Lamendola
Uno sguardo disincantato sul mondo e una presunzione di sapere fatta di pregiudizi scientisti fanno sì che molti di noi abbiano perso la capacità di stupirsi davanti allo spettacolo del mondo. Diremo di più: ciò di cui sarebbe naturale stupirsi non è solo il fatto che il mondo sia così bello e vario, ma che il mondo esista, puramente e semplicemente; che esistano il cielo stellato e le distese del mare, che esitano le cose, che esistano gli uomini, che esista la vita con tutta la sua portata di serietà e di mistero. Perché infatti le cose dovrebbero esistere, visto che la loro esistenza ha luogo sfidando una mole enorme di fattori contrari, proprio come la vita esiste quasi a sfida della sua enorme improbabilità? Sarebbe molto più semplice se la vita non esistesse: perché la formazione della più piccola e semplice delle cellule organiche è qualcosa d’immensamente complesso e immensamente improbabile, considerato il distacco enorme che la separa dalla più complessa cellula di materia inorganica. Allo stesso modo, sarebbe più semplice se al posto del mondo, fatto di enti e di fenomeni, di possibilità e di improbabilità, non vi fosse nulla. Certo noi non saremmo qui a ragionare su di esso, perché il nulla dà sempre e solo nulla, mentre se noi siamo qui a farci delle domande è perché il mondo esiste e le cose ci sollecitano a porci delle domande a cercare delle risposte.
Tuttavia, posto che la nostra mente è fatta in maniera da poter concepire solo l’esistente, e a non sapere nulla del non esistente (tanto che pensare il non essere è semplicemente impossibile: il non essere può venire posto concettualmente, ma non pensato), resta il fatto che la nostra mente potrebbe non esserci, come potrebbe non esserci la vita e come potrebbe non esserci nulla di nulla. Invece qualcosa c’è. C’è il mondo, ci sono gli enti, ci siamo noi che ci facciamo mille domande. Perché? Sarebbe veramente curioso se le cose esistessero senza scopo e se la vita ci fosse data solo per farci domande alle quali non esiste risposta. Vi sarebbe una sproporzione enorme fra il “salto” che si è verificato nel reale, dal non essere all’essere e dalla non vita alla vita, e la modestia dei risultati: un mondo cieco e sordo che vaga nel nulla e una vita incapace di dare risposte alle sue domande più profonde e vitali. Tutti sentiamo che da quelle risposte dipende la differenza fra una vita senza senso e una vita pienamente realizzata: perché se le risposte esistono, allora è plausibile che il mondo esista proprio perché noi abbiamo la possibilità di trovare quelle risposte e, grazie ad esse, dare un autentico significato al nostro esistere. Dunque, torniamo al nostro assunto iniziale: come mai c’è una cosa chiamata esistenza? Gli scienziati ci dicono che si tratta di una cosa statisticamente alquanto improbabile; e parecchi filosofi potrebbero aggiungere che è anche una cosa terribilmente gratuita, nel senso di non necessaria. Non c’è alcuna necessità naturale per cui le cose debbano esistere, e meno ancora perché debba esistere la vita intelligente: se fosse stato il caso a produrla, bisognerebbe pensare che tutte le leggi naturali sono state stravolte per consentire a un evento così altamente improbabile di verificarsi, a dispetto di ogni ragionevole previsione statistica. Ma se le leggi di natura sono state stravolte, chi o che cosa le ha stravolte, dal momento che la natura ha le sue leggi, determinate da fattori ben precisi, e non si prende certo il gusto di capovolgerle? Verrebbe perciò da pensare che non la natura, ma qualcosa o qualcuno che sta al di fuori di essa, e al di sopra di essa, si è preso il lusso di piegare le leggi naturali per far sì che invece del nulla vi sia qualcosa, e che questo qualcosa sia un mondo mirabilmente ordinato, nel quale trova spazio la vita intelligente: cioè la vita che si stupisce di esistere e non può fare a meno d’interrogarsi.
Osservava a questo proposito un autorevole esponente del mondo accademico e scientifico inglese, Bernard Lovell, membro della Royal Society, professore di astronomia a Manchester e direttore dell’osservatorio radioastronomico di Jodrell Bank (da: B. Lovell, Nel centro delle immensità. Alla scoperta dell’universo; titolo originale: In the Centre of Immensities, 1978; traduzione dall’inglese di Libero Sosio, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1980, pp. 63-65):
La stima della probabilità che la vita sia emersa anche altrove nell’universo si trova attualmente di fronte a dilemmi di origine tanto astronomica quanto biologica. Innanzitutto c’è la stima del probabile numero dei pianeti abitabili nell’universo, la convinzione dell’esistenza di un gran numero di pianeti ha una base teorica, ma è sostenuta da dati d’osservazione molto tenui. Anche ammesso che i pianeti esistano in gran numero, sembra che lo sviluppo di atmosfere propizie alla vita debba richiedere equilibri assai delicati di temperatura e di gravità. Le misurazioni eseguite dalle sonde spaziali lanciate su Marte e su Venere hanno chiarito l’estrema particolarità della situazione terrestre. Se nonostante tutti questi elementi di incertezza supponiamo che per il gran numero di stelle nell’universo debbano esistere anche altri pianeti oltre alla Terra con ambiente adatto allo sviluppo della vita, allora dobbiamo affrontare il dilemma biologico. Le difficoltà che si frappongono alla comprensione dei complicati processi verificatisi più di tre miliardi di anni or sono acquistano tanto maggiore evidenza quando si consideri l’estrema improbabilità dell’emergere della cellula dagli amminoacidi e dai nucleotidi dei mari primordiali. Conoscendo il numero di amminoacidi e nucleotidi e la lunghezza delle catene si può calcolare che esistano circa 10130 possibili combinazioni. Questo numero ci dà un’idea della complessità degli enzimi più piccoli. Le unità più piccole dotate di proprio metabolismo – per esempio organismi unicellulari come il batterio “Eschericchia coli” hanno una grossa molecola di acido nucleico contenente da tre a quattro milioni di basi dispose l’una di seguito all’altra in una struttura a elica a doppio filamento. Il corredo genico di questo batterio offre qualcosa come 102.000.000 alternative. È un numero incomprensibile anche su scala astronomica: il totale degli atomi di idrogeno nell’universo osservabile è solo dell’ordine di 1078. La lunghezza del batterio “Eschericchia coli” è di circa due micrometri e la sua massa è 5 x 10-13 grammi. Se il batterio viene posto in una piccola quantità d’acqua contenente alcuni milligrammi di glucosio e Sali minerali (azoto, fosforo, zolfo, ecc.) a una distanza di 36 ore questa soluzione conterrà parecchi milioni di batteri. Il problema delle origini è perciò in che modo abbia avuto luogo questa selezione critica di possibili combinazioni di molecole, da una tanto sterminata gamma di possibilità. L’unica risposta scientifica generalizzata che si possa dare è che nel lungo periodo di tempo compreso fra mezzo miliardo e un miliardo di anni abbiano operato nei mari primordiali i processi del caso e della legge naturale: il caso, in quanto enorme è stato il numero delle diverse combinazioni di costituenti cellulari, e la legge naturale per cui solo le combinazioni più adatte hanno potuto resistere, in accordo con le leggi della selezione naturale appropriate alle condizioni estreme dell’ambiente.
L’ipotesi che processi governati dal caso e dalla legge naturale abbiano portato alla formazione di organismi a partire dalle molecole organiche relativamente semplici presenti nei mari primordiali, è sostenibile solo se è finito, nell’arco di tempo considerato, il numero delle possibili combinazioni di molecole. Qui sorge però una grossa difficoltà. Se torniamo all’esempio di una molecola proteica relativamente semplice con cento residui amminoacidi disposti secondo una precisa sequenza, la selezione di questa sequenza deve avvenire in modo casuale su un totale di 10130 possibilità. Una selezione governata dal puro caso significa che, in un arco di tempo compreso fra mezzo miliardo e un miliardo di anni, le molecole organiche presenti nei mari primordiali avrebbero dovuto poter provare 10130 combinazioni prima di trovare quella giusta, corrispondente alla sequenza di residui amminoacidi presente nella molecola proteica che stiamo considerando. È quindi minima, al di là di ogni immaginazione, la probabilità di giungere per caso alla formazione anche solo di una fra le più semplici molecole proteiche. Nelle limitate condizioni di tempo e spazio che stiamo considerando, tale probabilità è in pratica zero.
La nostra stessa presenza sulla Terra oggi è nondimeno una prova del fatto che una sequenza di eventi del genere, di probabilità quasi nulla, ha avuto luogo più tre miliardi di anni or sono.
Anche se nei quarant’anni trascorsi da quando queste parole venivano scritte sono state fatte importanti scoperte scientifiche, sia nel campo astronomico, con l’individuazione di un discreto numero di pianeti abitabili, sia in quello biologico, specie nell’ambito delle ricerche sul codice genetico, resta vero e valido l’impianto di fondo del ragionamento di Bernard Lovell: il fatto che la vita esista è un evento talmente improbabile da mettere qualunque ipotesi scientifica con le spalle al muro quanto ai tempi e ai meccanismi che l’hanno vista nascere. Le probabilità che un simile evento si verificasse nei tempi concessi dall’esistenza del nostro pianeta sono praticamente zero: questo è assodato. Sono passati i tempi in cui certi scienziati materialisti, come Emanuele Padoa, potevano rifilarci la storiella del brodo primordiale e della nascita delle prime cellule organiche a partire da quelle inorganiche, cioè degli organismi viventi dalla materia non vivente. Di fatto, la differenza di complessità delle rispettive strutture chimiche e biologiche è talmente enorme, abissale, incolmabile che la si può snocciolare solo a chi non abbia alcuna nozione sia pur minima di chimica generale e di chimica organica. Ma allora, se la vita non ha potuto formarsi da sola, né per caso, in quei pochi miliardi di anni, non c’è altro da fare che prendere in considerazione la sola spiegazione possibile che rimane in piedi: vale a dire che non sia stata opera del caso e, quindi, che sia stata il frutto di un disegno ben preciso.
La storiella del brodo primordiale? La vita dell’uomo, piaccia o non piaccia agli evoluzionisti duri e puri, non è un semplice epifenomeno del fenomeno “vita” e non è dovuta al caso, più di quanto lo sia la vita in generale!
È a questo punto che la sana ragione naturale dovrebbe compiere il salto dal terreno della scienza a quello che sta oltre la scienza, ossia il soprannaturale. Vi sono cose che la scienza non sa spiegare perché non dispone ancora dei mezzi necessari, e vi sono cose che non può spiegare perché non appartengono al suo campo d’indagine. Il campo d’indagine della scienza è la natura, con tutti i fenomeni che la caratterizzano; e la vita è senza dubbio il più significativo, il più impressionante, il più commovente. La vita è un evento altamente improbabile e addirittura, nelle condizioni che noi consociamo di spazio e di tempo relative al nostro pianeta, decisamente impossibile. Non parliamo poi di quella particolarissima forma di vita che è contraddistinta dall’intelligenza e dalla volontà: la vita dell’uomo, che, per quanto ne sappiamo, piaccia o non piaccia agli evoluzionisti duri e puri, non è un semplice epifenomeno del fenomeno “vita” e non è dovuta al caso, più di quanto lo sia la vita in generale. Ma possiamo anche estendere il ragionamento e considerare non solo la vita intelligente, non solo la vita biologica, ma anche la pura e semplice esistenza, come qualcosa di altamente improbabile, e perciò tale da sfidare ogni pretesa di spiegarla come se fosse “naturale”. Non è affatto naturale, non è affatto scontato che le cose esistano; che al posto del nulla ci sia qualcosa. Se le cose esistono, se esistono le molecole e le galassie, se esiste qualcosa che si offre al nostro stupore e alla nostra intelligenza e che ci sollecita a farci delle domande, a interrogarci sul significato e sull’origine dell’esistente, in altre parole a porre la questione della causa prima e della causa finale – da dove vengono gli enti e verso che cosa sono diretti – allora vale forse la pena di chiedersi se la loro esistenza non abbia proprio a che fare con il nostro stupore e con le nostre domande, in altre parole se lo scopo della vita non sia quello di comprendere la vita stessa. Non potrebbe essere che la vita esiste perché l’intelligenza si chieda a che scopo esiste, e sia spinta a cercare la risposta; e che questa risposta sia quella che ci hanno insegnato da bambini al catechismo, ossia che il senso della vita consiste nel conoscere, amare e adorare Dio, il Creatore di questa realtà meravigliosa che caratterizza l’esistente? In effetti, il bambino trova plausibile questa spiegazione, e per la buona ragione che egli possiede sia la capacità spontanea di meravigliarsi davanti a ciò che è grande e bello, ma anche misterioso, sia l’umiltà necessaria per accettare come vero quello che non contraddice la realtà e non impone forzature o contraddizioni alla ragione. Sbaglia chi crede che la mente del bambino funzioni in maniera irrazionale; è razionale, anche se la fantasia e il sentimento esercitano un forte influsso sulla sua particolare forma di razionalità. Ma provate a raccontargli qualcosa che contrasta apertamente con il dato della realtà o con quello che è ragionevolmente accettabile dal punto di vista logico, e subito lo vedrete esitare e sospettare che qualcosa non vada per il verso giusto; e vi chiederà, con uno sguardo che non ammette inganni, se quel che gli state dicendo è proprio vero. Perché il bambino ama sognare e fantasticare, ma non ama che sogni e fantasticherie sostituiscano il principio di realtà e la facoltà razionale che lo rende intelligibile. Ma tutto questo, si capisce, avviene in lui in maniera istintiva e non per via di un chiaro ragionamento…
Fonte: accademianuovaitalia.it