di Fabio Battiston
Caro Valli, leggo da tempo le sue numerose e accorate analisi sul problema del come “stare” e come “collocarci”, da credenti, in questa Chiesa di inizio terzo millennio, così irriconoscibile per molti fedeli. Lo considero anch’io un tema imprescindibile. Mi permetta quindi di offrirle la riflessione di un cattolico che, da diversi anni, si pone in modo assai problematico di fronte al Salus extra Ecclesiam non est di san Cipriano.
Sto cercando da anni di trovare una sintesi, una strada che mi permetta di risolvere il dissidio – ogni anno sempre più forte – che mi separa da quasi tutto ciò che la Chiesa sta esprimendo in parole, documenti e azioni concrete che coinvolgono tutti gli aspetti della nostra vita di credenti (dottrina, tradizione, liturgia, comportamenti, ecc.). Si tratta di uno scenario che va ben oltre ciò che da ormai otto anni è rappresentato dall’agenda dell’attuale ministero petrino. La nuova Chiesa possiamo infatti toccarla con mano, quotidianamente, a ogni livello. Dalle parrocchie ai seminari, dalla comunicazione cattolica ai movimenti, è facile verificare come i nuovi semi stiano purtroppo germogliando rigogliosi ovunque.
Ecco allora, impellente, la domanda che molti di noi si pongono: ma se io mi sento fuori da “questa” Chiesa, quale sarà il mio destino? Quale la salvezza al di fuori di essa? Il problema è enorme poiché è con un dogma che dobbiamo misurarci, non con un’opinione. Può esservi una via d’uscita? Forse sì, ed è quella che le offro qui, in tutta umiltà, come spunto di riflessione.
Proprio in questi giorni, più che mai assillato da questo problema (aggravato dall’attacco portato dal cardinale De Donatis alle liturgie vetus ordo, che seguo da diversi anni), ho ripreso in mano il motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI. Nello stesso tempo ho iniziato a leggere Il concetto di Chiesa nella Sacra Scrittura di Pavel Aleksandrovič Florenskij, il grande teologo, presbitero e scienziato russo ortodosso, fucilato dai comunisti nel 1937 in un gulag siberiano. Due grandi uomini, Ratzinger e Florenskij, e due storie diversissime, le cui intuizioni si sono tuttavia meravigliosamente intrecciate indicando una strada da percorrere per continuare a sentirsi pienamente parte della Chiesa, anche in un frangente così nefasto. Mi piace pensare che le loro riflessioni possano anche rappresentare un ponte tra la Chiesa d’Occidente e quella ortodossa; ma questo è un altro discorso. Vengo dunque ai nostri due protagonisti.
Inizio con Benedetto XVI, estraendo un passo dalla lettera ai vescovi in occasione della pubblicazione della lettera apostolica “motu proprio data” Summorum Pontificum (2007).
Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e dar loro il giusto posto.
Ecco invece cosa scriveva Pavel Florenskij, quasi cento anni prima, nel II capitolo del suo Il concetto di Chiesa nella Sacra Scrittura (il tema è quello della duplice natura – divinoumanità – della Chiesa): “Gesù Cristo non ha detto ‘tu, Pietro (oppure: voi, apostoli; oppure ancora: voi uomini) edificherai la tua (o la vostra o la loro) Chiesa’, bensì ‘edificherò’ (Mt 16,18), dunque lo farò Io, Gesù Cristo, che giusto ora tu, Pietro, hai riconosciuto quale Figlio di Dio’, ed ‘edificherò la mia Chiesa’, e non la Chiesa degli apostoli, di Pietro e degli uomini in genere. Così facendo si stabilisce con precisione che la Chiesa… è opera del Figlio di Dio… La dottrina della Chiesa non è una combinazione di opinioni personali, bensì verità, colonna e fondamento della quale è la Chiesa stessa (1 Tm 3,15)”.
Ed ancora (qui l’identità col pensiero ratzingeriano è pressoché totale): “… alla Chiesa serve l’elemento divino e l’elemento umano. Non sono tra loro contingenti neppure i due momenti dell’aspetto umano della Chiesa – l’autorità e la libertà – e la possibilità che la Chiesa cresca quale uomo perfetto (Ef 4,13) si fonda sulla loro armonia e sul loro equilibrio. La Chiesa non può ‘essere tratta in inganno secondo gli elementi del mondo’ (Col 2,8), non può cambiare come cambiano le mutevoli istituzioni umane. Le istituzioni umane sono ‘come pula che il vento disperde’ (Sal 1,4); mentre la Chiesa cresce organicamente nel senso più alto del termine. Il nuovo non soppianta, non distrugge il vecchio, ma lo afferma e lo svela. Questa la differenza tra vera crescita e semplice esistenza. Conseguentemente, il vecchio della Chiesa non sparisce nel flusso del nuovo, non ne è sommerso, ma viene immancabilmente custodito dall’autorità. Dal canto suo il nuovo non esita nei germogli appena spuntati del vecchio, ma si leva in alto, di libertà nutrito”.
Ecco, forse è questa la strada da seguire. Una strada che, al tempo stesso, mi indica l’errore che fino ad ora ho commesso: pensare troppo a confrontare me stesso, la mia visione e il mio sistema di valori con la sola componente umana della Chiesa, perdendo di vista quell'”Io edificherò la mia Chiesa”. Anche sul resto credo che l’indicazione di Ratzinger e Florenskij non possa essere più chiara e, soprattutto, confortante: non dobbiamo temere la Chiesa degli uomini, soprattutto di “questi” uomini. Essa non è e non sarà mai la “loro” Chiesa.
Cercherò di seguire l’insegnamento di questi due maestri. Anche se la mia problematica non è ancora risolta, spero che attraverso le loro coordinate il mio cammino possa rivelarsi più sicuro.