di Francesco Lamendola
Un fatto di cronaca accaduto in una regione remota aveva colpito moltissimo la mia fantasia di bambino: il 1° novembre 1968 era stato assassinato, insieme ad altri otto membri della sua pacifica spedizione (sei uomini e due donne), un missionario della Consolata, il piemontese Giovanni Calleri di Carrù (Cuneo), di soli trentaquattro anni. Erano caduti, lui e gli altri, sotto le mazze e le frecce di una delle ultime tribù selvagge del pianeta, gli Atroaris della regione di Roraima, nella zona pressoché inesplorata tra il Brasile e il Venezuela, nel fitto della foresta amazzonica. Mi chiesi: davvero possono accadere cose del genere, in piena età industriale? Pochi anni prima, un altro fatto strano aveva colpito la mia immaginazione: il ritrovamento, in India, di un ragazzo-lupo, che era stato allevato dalle bestie selvagge e ora tornava alla civiltà, del tutto sprovvisto, però, degli attribuiti che rendono l’uomo, appunto, un essere civile. Il massacro della spedizione Calleri, il cui scopo era convincere gli indigeni a lasciar passare un’autostrada in costruzione, senza attaccare gli operai del cantiere, e anzi aprendosi a pacifici rapporti con l’uomo bianco, era stato scoperto quasi un mese dopo che era giunto l’ultimo messaggio radio: i corpi erano stati trovati in avanzato stato di putrefazione, ma non abbastanza perché non si potessero riconoscere le ferite che i poveretti avevano subito, testimonianza inequivocabile di un eccidio implacabile e premeditato da parte degli indios. Così ha ricostruito le probabili modalità dell’eccidio il padre Gabriele Soldati (in: Bindo Meldolesi e altri, Roraima. Viaggi ed esplorazioni tra gli indios, a cura di Brino Marcon, Edizioni del Noce, 1996, pp. 291-293):
Gli indigeni, com’è loro uso, hanno attaccato al mattino. Ne è conferma il mancato collegamento radio delle ore 17 del 1° novembre, pienamente garantito da padre Calleri. Non furono colti nel sonno, perché ciò, oltre a contrastare con una sicura prassi di dignità da parte dell’indio, dimostrata dal fatto che gli scheletri erano muniti di scarpe e vestiti. Non furono torturati prima di morire, perché risulta che la morte fu dovuta a un gran numero di frecce. Ogni cadavere presenta l’omoplata [la scapola, n.n.] ripetutamente trapassata ed è quindi probabile che l’attacco sia stato sferrato da un numero elevato di guerrieri. La frattura del cranio, riscontrata in tutti i cadaveri, più che far pensare a un colpo di grazia, sembra invece esprimere un’esigenza del prestigio guerriero degli indios, in base al quale essi vollero improvvisare un’azione secondo loro grandiosa e degna di essere raccontata nelle loro assemblee. Alcuni crani risultano fratturati, altri meno, in ragione dello strumento usato: tutti però furono colpiti al capo. Il meno offeso fu padre Calleri, che presentava appena un lieve sfondamento sul temporale destro, conseguenza forse di un colpo di martello. Risulta anche che i corpi non furono abbandonati sul luogo dell’eccidio, ma trascinati nell’interno della foresta con l’aiuto di pertiche, le mani e i piedi legati. Il materiale della spedizione venne portato via o nascosto: particolare, questo, che non privo di ombre, perché alcune cose non erano di alcun interesse per gli indios. L’aver abbandonato la maloca [villaggio] e l’essersi trasferiti ad una trentina di chilometri verso ovest, in una regione soggetta ad allagamenti, conferma il panico da cui fu certamente colto il gruppo degli aggressori, in previsione di una rappresaglia dei bianchi.
Anche in questa ricostruzione è presente, a nostro parere, qualche residuo del mito del Buon Selvaggio. Non è vero che gli indios non avrebbero potuto attaccare di notte e sorprendere le vittime nel sonno perché ciò sarebbe stato contrario al loro codice d’onore; i militari brasiliani, anzi, dopo aver ritrovato ed esaminato i resti dei membri della spedizione, conclusero che le cose dovevano essersi svolte proprio a quel modo, e che le ferite al capo inferte a tutti loro indicavano che erano stati aggrediti di notte, se non proprio nel sonno, certo nel momento in cui erano particolarmente indifesi e vulnerabili. Inoltre l’interpretazione delle ferite al capo offerta in questo brano indulge a considerazioni un po’ gratuite e si sottrae alla spiegazione più logica e naturale: che le vittime fossero state colte del tutto impreparate, perché chi sta sulla difensiva, sia pure disarmato, difficilmente può essere abbattuto da un colpo di mazza sulla testa, perché la testa è la parte del corpo che chi si vede minacciato istintivamente cerca di proteggere. Lo stesso padre Calleri, nell’ultima lettera, dice di sapere che gli Atroaris sono “specialisti” nel colpire a tradimento. Quanto all’osservazione che il colpo inferto a padre Calleri era stato solo un lieve sfondamento dell’osso temporale, ha quasi il sapore dell’ironia: per quanto lieve possa apparire allo sguardo freddo dell’anatomopatologo, si tratta pur sempre di un colpo che è stato vibrato da qualcuno che aveva la precisa volontà di uccidere.
Circa le ragioni dell’eccidio, ecco quanto ipotizzano gli autori del libro succitato (pp. 281-282):
Viene spontaneo, ora, farci una domanda. Perché gli indios compirono l’eccidio? Forse a questa domanda non si potrà mai dare una risposta sicura. L’ipotesi che gli indios abbiamo trucidato gli uomini che componevamo la spedizione per rapire le donne risulta priva di fondamento, perché in questo caso esse sarebbero state risparmiate. Molto più attendibile, invece, l’ipotesi che si rifà direttamente a quel tanto di rischio che la missione pacificatrice comportava. È probabile che, nonostante l’impiego di tutti i mezzi di carattere strategico e psicologico impiegati da padre Calleri e dai suoi compagni per persuadere gli indios, ad un certo punto sia prevalso in loro l’antico sentimento di diffidenza, di paura e di odio che li portò a compiere la strage.
Padre Calleri non era all’oscuro di questa eventualità e lo dimostra anche la seguente lettera che scrisse alla mamma e alle sorelle, delle quali una è suora di clausura, prima di partire per l’eroica spedizione.
Cara mamma e care sorelle,
(…) Vi do una notizia: mi trovo in questo momento a Manaus, capitale dell’Amazzonia, per preparare una missione straordinaria: stavolta è molto difficile e dura. Il governo nazionale, che sta costruendo una grande strada intercontinentale tra il Brasile e il Venezuela, e detta strada è costretta a passare in una zona occupata completamente da indios ferocissimi, di dove nessuno è mai riuscito a venir fuori vivo, ha chiesto ufficialmente l’intervento del nostro Istituto, il quale ha scelto me per eseguire l’impresa. Centoventi persone, in questi ultimi anni, hanno perso la vita sotto le frecce degli indios, nel tentativo di pacificarli. La cosa è parecchio grossa: ne parlano giornali e radio. L’Istituto, attraverso il Superiore Generale che venne appositamente a Roraima, non mi obbligò, è logico. Ma io accettai. Il coraggio non mi è mai mancato; inoltre, trattandosi di un’impresa altamente umanitaria, sono certo che Iddio penserà a dare una mano anche Lui. … Sinceramente, non sono sicuro di farcela. Ci metterò, però, tutta la prudenza e lo studio per evitare momenti brutti. Ma una cosa è certa: che questo gruppo di indios sono esperti nel cogliere l’individuo quando meno se lo aspetta. Che lo Spirito Santo mi mandi la sua luce quando sarà tempo! In Catrimani, ora, le nove tribù con cui sono venuto in contatto, sono miei amici, molto… è costato parecchio duro lavoro, ma tutto andò bene: questa volta, invece, non lo so…
Sono con Dio e la sua buona collaborazione.
(…) Arrivederci presto!
Giovanni
Come si vede, padre Calleri aveva un oscuro presentimento: non solo non sottovalutava i rischi della spedizione, ma era perfettamente consapevole che sarebbe stata una scommessa con la morte. Conosceva già le mentalità degli indios, essendo riuscito a pacificare e rendersi amiche alcune tribù che, come gli Atroaris, non avevano mai stabilito contatti pacifici coi bianchi; però questa volta il caso era diverso, sapeva che avrebbe avuto a che fare con degli indigeni particolarmente feroci e ostili e che la sua sorte e quella dei suoi compagni sarebbe stata appesa a un filo. D’altro canto può essere che proprio il successo della precedente spedizione gli abbia falsato un po’ la prospettiva, conferendogli troppa sicurezza, o l’illusione di aver compreso a sufficienza la psicologia di quella gente. Sappiamo, dai messaggi radio inviati a Manaus prima della tragica fine, che gli Atroaris si erano mostrati fin dall’inizio piuttosto aggressivi e che avevano cercato di metter le mani sul materiale; e che egli li aveva indotti a più miti consigli mostrandosi molto fermo e per niente spaventato dai loro gesti minacciosi. Sapeva che altri uomini bianchi avevano pagato con la vita il fatto di essersi mostrati spaventati e aver lasciato che gli Atroaris rubassero tutto ciò che avevano, sperando con ciò di ammansirli e di salvare la pelle. L’idea di padre Calleri era di non cedere in alcun modo alle pretese aggressive degli indios, per poi, con calma, fare loro alcuni doni, in modo che fosse ben chiaro che quegli oggetti non venivano ceduti sotto l’incalzare della paura, ma per pura generosità e benevolenza.
Bisognerebbe però sapere come la videro gli indios e se si sentirono provocati e beffati da quegli estranei che erano penetrati nel loro territorio e sfoggiavano ogni sorta di ricchezze, ma erano alquanto restii a privarsene in favore dei legittimi padroni di quella regione. Pertanto, mostrandosi deciso e sicuro del fatto suo, è possibile che padre Calleri abbia rimandato la resa dei conti, ma che proprio tale sicurezza abbia finito per irritare gli indios, i quali la scambiarono per una forma di arroganza e di disprezzo nei loro confronti. Il loro capo, in special modo, può essersi sentito offeso e aver temuto che il suo prestigio fosse intaccato dal fatto di non aver ottenuto niente da quegli stranieri, vedendosi respinto come un qualunque pezzente che stende la mano verso i beni superflui del ricco, ma se la vede ricacciare indietro. È impossibile dire con certezza cosa accadde in quei cervelli. Padre Calleri, come chiunque abbia avuto a che fare con loro, e in generale con gli uomini primitivi, sa che una delle caratteristiche principali del loro comportamento è l’estrema volubilità e imprevedibilità, simili, per certi aspetti, a quelle dei bambini: un momento sorridono e si mostrano quanto mai amichevoli, un momento dopo cambiano completamente attitudine, come il cielo quando le nuvole coprono il sole d’improvviso: allora mostrano il volto ostile e fanno dei gesti inequivocabilmente minacciosi.
Due cose ci hanno colpito in quella lettera commovente, e sia chiaro che non ci permettiamo di muovere una critica a quell’eroico missionario, consci che solo chi non fa nulla non sbaglia mai, e che anche gli uomini migliori, animati dalle intenzioni più pure, possono commettere degli errori, naturalmente senza rendersene conto. Primo, una certa qual eccessiva fiducia in se stesso, basata sulla consapevolezza di possedere un animo coraggioso. Il fatto che le autorità siano ricorse a lui come il solo capace di portare a buon fine una missione tanto difficile e pericolosa può forse aver accarezzato quel tanto di vanità che ciascuno di noi si porta dentro e che non è necessariamente un male, se viene messa al servizio della buona causa, com’è stato per padre Calleri e moltissimi altri missionari; resta però l’impressione che, pur essendo ben consapevole dei rischi cui andava incontro e pur dicendosi fiducioso nell’indispensabile aiuto di Dio, egli contasse molto sulle proprie risorse, la propria esperienza e la propria capacità di giudizio. La seconda cosa che ci colpisce è l’assoluta certezza di padre Calleri d’aver accettato una missione di natura altamente umanitaria e del tutto disinteressata. Ma era proprio così? Dopotutto, l’apertura della strada intercontinentale attraverso la millenaria foresta comportava un giro d’interessi economici di prima grandezza: perciò non si trattava di un’impresa del tutto disinteressata. Disinteressato era lui, con la sua volontà di pacificare gli indios ed evitare inutili spargimenti di sangue da ambo le parti (lui stesso ricorda che centoventi bianchi erano stati uccisi negli ultimi anni, solo per aver tentato di contattare amichevolmente gli indios); ma non altrettanto si può dire di quelli che sollecitarono l’intervento dei missionari, mettendo in moto la sua spedizione. Esiste perfino una versione “alternativa” del massacro, secondo la quale l’unico sopravvissuto era in realtà un traditore, il quale, d’accordo sia con gli Atroaris (i quali però non conoscevano tutto il piano), sia con l’esercito brasiliano, fece in modo di favorire l’eccidio, così che i militari avessero il pretesto d’intervenire alla loro maniera, senza tanti scrupoli nei confronti degli indigeni. Nulla possiamo dire su questa versione un po’ machiavellica, tranne che non la si può escludere del tutto.
Padre Calleri non avrebbe voluto che la sua morte fosse strumentalizzata, né che gli indios fossero puniti, com’è accaduto. Ma una cosa è certa: il mito del Buon Selvaggio oltre che falso è pericoloso.
Fonte: accademianuovaitalia.it