Musica sacra nella Chiesa di Milano. Il Sessantotto perenne dei nostalgici delle canzonette
Cari amici di Duc in altum, ho ricevuto una nuova lettera dell’Organista Ambrosiano Indignato, nom de plume dietro il quale si nasconde un esperto di musica sacra. Nel suo mirino questa volta un articolo – scritto da un autore di canti per celebrazioni e apparso nel sito della Chiesa di Milano – fermo all’idea che per “catturare” i fedeli, specie se giovani, occorra scendere sul terreno delle canzonette. Evidentemente l’autore non si è accorto delle frotte di giovani che accorrono alla Messa vetus ordo anche per fuggire da certi orrori musicali postconciliari.
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di Organista Ambrosiano Indignato
Le premesse di un autunno caldo sul versante della musica sacra meneghina, concretizzate nei primi mesi di servizio di monsignor Massimo Palombella alla direzione della Cappella del Duomo, vedono nella pubblicazione della riflessione di Guido Meregalli sul portale diocesano un nuovo episodio della saga che speravamo di esaurire con qualche commento bonario sulla “ventata d’aria nuova” apportata dal maestro salesiano (tra falsettisti, nuove armonizzazioni e riesumazioni eccellenti) in Cattedrale.
Il pretesto di un commento alla recente lettera dell’arcivescovo Delpini ai musicisti di chiesa dà la stura al Meregalli per inveire con una filippica contro alcune criticità della liturgia contemporanea che l’autore del Salmo 8 mal sopporta. Nella riflessione di Meregalli sono condensati (e incensati) tutti gli stigmi e i fallimenti dell’interpretazione soggettiva e parziale del Concilio: il flusso di coscienza dell’autore non solo ignora Sacrosanctum Concilium e Musicam sacram liquidandoli come espressioni di una mistagogia ormai anacronistica ma arriva a vette di sufficienza che sconfinano nell’eterodossia. Si stenta a credere che il sito dell’arcidiocesi di Milano abbia rilanciato tali amenità: “La liturgia – scrive Meregalli – segna il passo. Da sola, non arriva. Da sola, non regge. Da sola, è gustabile solo da una minoranza di persone che con essa ha maturato una lunga familiarità. Da sola, respinge l’adulto che da anni non entrava in chiesa. Da sola, raffredda il giovane che pure partecipa al gruppo giovani, va in vacanza con l’oratorio, ama le GMG, prega in cappellina, ma davanti alla liturgia eucaristica si arrende, almeno finché non arriva una messa animata dai giovani durante la quale rientrare in gioco, appunto, con musica e canti”.
La liturgia culmine e fonte della vita della Chiesa, il memoriale salvifico del Sacrificio e la Presenza reale di Nostro Signore sarebbero dunque inefficaci se non accompagnati da musichette che guardano al repertorio di consumo, a testi sdolcinati e alla fiera della banalità? Abbiamo perso la bussola: la tradizione della Chiesa ricorda che la musica sacra può aiutare a penetrare più in profondità nel Mistero ma, in ultima analisi, non è essa stessa il Mistero!
La storia della musica insegna che, salvo rare eccezioni, i compositori hanno sempre adottato il linguaggio musicale loro contemporaneo (veicolo capace di trasmettere un messaggio comprensibile o almeno decodificabile in un determinato contesto) e che la musica sacra è uno dei tanti prodotti artistici di una congiuntura caratterizzata. Non c’è bisogno di citare in questa sede il parallelismo fra madrigali e mottetti liturgici di Palestrina e Monteverdi o il medesimo tema impiegato da Mozart per un’aria de Le nozze di Figaro e un devotissimo Agnus Dei. Le tinte vivide del Dies iræ della Messa da Requiem di Verdi non si ritrovano in scene di ineffabile potenza iconica presenti in contemporanei lavori teatrali del bussetano? Le Melodie Sacre di Perosi & co. non rappresentano forse il tentativo di rappresentare in musica un cambiamento epocale (o un’epoca di cambiamento, almeno sulla carta)? Tutti questi esempi hanno, però, un elemento comune che li colloca agli antipodi rispetto ai desiderata di Meregalli: i compositori del passato – e anche molti del presente – che si sono cimentati con la musica liturgica hanno utilizzato e utilizzano al meglio delle possibilità espressive il proprio linguaggio musicale per impreziosire la Sacra Liturgia al fine di glorificare Dio ed edificare gli animi dei fedeli. Qui si legge, di contro, una dichiarazione d’intenti che sprona a liberarsi di ogni “orpello” in nome di una imprecisata semplicità primordiale. Quella che potrebbe essere letta come una apparente semplificazione di elementi forse incomprensibili da parte di alcuni (si badi bene che talvolta il genio è tale proprio in virtù dell’immediata incomprensibilità e della potenza evocativa che riesce a suscitare anche nei cosiddetti “semplici”) si tramuta in un diktat perentorio contro ogni forma di elevazione, crescita e arricchimento.
In una società che cerca di svuotare di significato e significante ogni fenomeno dell’umana esistenza, la musica sacra e finanche il Trascendente sono svenduti sul mercato della banalità. La liturgia, fenomeno sociale ed esperienza collettiva, ha permesso da sempre di pregustare in questo mondo le glorie del cielo anche mediante una componente spettacolare e scenografica. La lingua latina, la musica sacra e gli apparati sfarzosi non sono ostacoli ma facilitazioni per far si che la dimensione straordinaria compenetri in quella ordinaria. Non sono quindi desiderabili una Chiesa e una musica sacra che fungono da monito all’elevazione delle menti e dei cuori al Cielo?
Una gerarchia ecclesiastica in preda alla smania di rincorrere il mondo in nome di un’inclusività pelosa ha tarpato con forza le ali al volo democratico verso l’Alto. Offrire musica colta, affreschi, sculture e architetture maestose a chiunque varchi la soglia di una chiesa non è, come sostiene il codazzo di benpensanti plaudenti, una politica esoterica ma il tentativo concreto di irradiare nel mondo luce di vero, di bello e di santo.
Scorrendo il testo di Meregalli emerge la miopia di un osservatore che, travisando il mito delle origini, taglia i ponti con la plurimillenaria tradizione della Chiesa. Non si discute sul fatto che il Vaticano II sia stato un momento di crisi (da intendere etimologicamente, alla greca), tuttavia il Concilio non è lo spartiacque insormontabile che viene dipinto, non è il nuovo anno zero della Chiesa. Meregalli, insieme a tanti altri, approccia il Concilio come un dogma indiscutibile, perciò la mancata realizzazione di un’utopia non avvia una riflessione oggettiva, sincera e razionale. I nostalgici del Sessantotto (ecclesiastico) aspettano che la pianta del Concilio produca fiori e frutti saporiti senza considerare che recidendo le radici – fuor di metafora, tagliando con la tradizione – la linfa non può circolare.
Scrive Meregalli: “La Messa nacque due millenni orsono dal ripetersi informale di due semplici azioni: il riunirsi della gente attorno agli apostoli con la voglia di sentire qualche episodio della vita di Gesù (della serie: ci racconti di quella volta che…) e il mangiare insieme la cena per fare memoria del Maestro. Quanto è lontana la nostra liturgia da una tale semplicità? Riusciamo a disseppellirla dalla coltre di orpelli che la opprime? Una cosa è certa: se mai tornasse quella semplicità, tornerebbe presto la voglia di ascoltare l’apostolo, di mangiare il pane, di cantare Tu sei la mia vita, altro io non ho e tanto altro verrebbe di conseguenza. Violini e tamburelli entrerebbero a go go, e non come stampelle, ma come espressione di una gioia nativa e contagiosa”.
L’Apostolo summenzionato ammonisce in altri luoghi ricordandoci che “Tutto mi è lecito! Ma non tutto giova” (1 Cor 6, 12), ergo normativizzare ciò che è soggettivo discostandosi dal depositum che la Chiesa ci consegna è lecito ma certamente non giova. Se proprio non si vuol mettere in discussione la dogmaticità del Concilio, la strada intrapresa da Benedetto XVI è la più conciliante, tuttavia lo spauracchio della “riforma della riforma” evocato da Meregalli sa più di rivoluzione sovversiva che di lucida presa di coscienza del momento di stallo in cui ci troviamo invischiati.
Auspico che il volubile clero ambrosiano colga la natura polemica dello scritto di Meregalli (una bordata gratuita al povero arcivescovo Delpini e alla sua lettera d’incoraggiamento ai tanti professionisti e volontari impegnati per garantire un buon servizio liturgico nelle nostre chiese) e le attribuisca il giusto peso. Qui non c’è volontà di dialogo costruttivo ma livore e insofferenza: il lavoro dei musicisti di chiesa ambrosiani si fa ancora più arduo. Innalziamo nei cieli lo sguardo – come ci suggerisce una popolare melodia di questo tempo d’avvento – fiduciosi nella promessa evangelica: non prævalebunt!