di redazione messainlatino.it
I Responsa della Congregazione per il culto divino sull’applicazione di Traditionis custodes sono “apocalittici” (in senso etimologico), cioè pienamente rivelatori della dichiarazione di guerra lanciata dal Santo Padre contro i fedeli legati alla liturgia tradizionale.
Non è più possibile continuare a illudersi che non c’è nessun attacco o che in fondo sarebbe solo un ritorno all’indulto. Per chi ancora non lo avesse compreso chiaramente il 16 luglio, i Responsa rendono evidente che:
– il Santo Padre vuole non solo regolamentare ma sradicare e porre fine alla liturgia tradizionale;
– allo scopo intende frantumare la vita liturgica dei fedeli e persino delle comunità ex Ecclesia Dei;
– la temporanea sopravvivenza è concessa al solo scopo di rieducarli affinché si decidano ad abbandonarla del tutto per frequentare solo ed esclusivamente il novus ordo;
– in altre parole, il Santo Padre desidera che a breve, nella Chiesa universale, non risuoni più nessun “Introibo ad altare Dei”.
Il tutto col pretesto di una mentalità “anticonciliare” diffusa (senza mai dire quanti sono, in quali forme, eccetera, alla stregua di un grimaldello usato con kafkiana vaghezza per etichettare e colpire l’avversario, come avviene nei peggiori regimi che all’ora del declino infieriscono con particolare crudezza verso i “nemici del popolo”).
E se anche fosse questo a spingerlo, allora un conto è adottare singole misure per un singolo problema, ben altro invece è voler estinguere ex abrupto una liturgia che per secoli ha scandito la vita della Chiesa cattolica, e che dovrebbe essere venerata piuttosto che perseguitata da un papa.
Premessa
Tracciamo qui una rapida panoramica, divieto per divieto, dell’ultimo assalto del prefetto del Culto divino, monsignor Roche, con l’assenso del papa nell’udienza del 18 novembre, datato il 4 dicembre e apparso il 18 dicembre sul bollettino della Sala Stampa della Santa Sede.
Innanzitutto, colpisce la forma: non un’istruzione applicativa, ma appunto quella dei responsa ad altrettanti dubia posti da alcuni (uno, nessuno, centomila?) vescovi. Una sollecitudine mai riscontrata per ben altri e più noti dubia dei quattro cardinali, due dei quali sono entrati nell’eternità prima di ricevere risposta.
La parte discorsiva iniziale non fa che ribadire la bontà e l’irreversibilità dell’«unica espressione della lex orandi», vale a dire la liturgia riformata, voluta dai padri conciliari (senza però mai e poi mai interrogarsi sulla concreta applicazione di questa riforma, sull’effettiva rispondenza alla costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium e soprattutto senza mai chiedersi se dopo 50 anni le chiese si siano riempite o svuotate). È ivi compresa anche la constatazione di quanto sia «triste vedere come il vincolo più profondo di unità [cioè la Messa] diventi motivo di divisione»: è vero, è triste, ma chi ha fomentato questa divisione? I fedeli che nella liturgia antica hanno scoperto maggior nutrimento spirituale rispetto alla media di celebrazioni parrocchiali la cui mediocrità è sotto gli occhi di chiunque? Oppure certa gerarchia che si accanisce contro una liturgia densa di spiritualità, che ha l’unica colpa di essere “preconciliare”?
Primo dubium
Il primo dubium riguarda la possibilità di derogare al divieto di celebrare la Messa tradizionale in chiese parrocchiali, laddove non siano presenti oratori, cappelle o altri edifici non parrocchiali. A prima vista appare qui un miglioramento, ma solo a prima vista. In realtà è il più istruttivo sul fine e i mezzi. La Congregazione concede infatti il permesso di celebrare in parrocchia, se non si dispone di altri edifici, ma il permesso deve venire dalla Congregazione stessa, valutando «con scrupolosa attenzione» ed evitando che i fedeli “ordinari” ne vengano “contaminati” al punto da suggerire che «non è opportuno che venga inserita nell’orario delle Messe parrocchiali essendo partecipata solo dai fedeli aderenti al gruppo». Manca solo la raccomandazione di sigillare le porte.
Questo punto termina con l’ipocrita excusatio non petita (accusatio manifesta) che «In queste disposizioni non vi è alcuna intenzione di emarginare i fedeli che sono radicati nella forma celebrativa precedente: esse hanno solo lo scopo di ricordare che si tratta di una concessione per provvedere al loro bene (in vista dell’uso comune dell’unica lex orandi del Rito Romano) e non di una opportunità per promuovere il rito precedente». Oltre a ribadire il fine di “rieducazione” alla famigerata «unica forma» della lex orandi, ribadisce anche l’opinione (errata) di monsignor Roche per cui le aperture di san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI intendevano solo contenere i gruppi esistenti e non promuovere in alcun modo il rito tradizionale – a smentirlo basterebbe l’invito di San Giovanni Paolo II: «L’animo di tutti coloro che si sentono legati alla tradizione liturgica latina, mediante un’ampia e generosa applicazione delle direttive» (Ecclesia Dei, 2 luglio 1988); e la constatazione di Benedetto XVI che «anche giovani persone scoprono questa forma liturgica, si sentono attirate da essa e vi trovano una forma, particolarmente appropriata per loro, di incontro con il Mistero della Santissima Eucaristia» (Lettera ai vescovi, 7 luglio 2007) oltre all’auspicio dell’arricchimento reciproco tra le due forme del rito. «Anche giovani persone»: questa motivazione, che aveva spinto Benedetto XVI ad ampliare le precedenti concessioni, spinge ora Francesco a restringerle. Infatti, la giovane età media dei fedeli tradizionali, inversamente a una presenza giovanile piuttosto rarefatta nelle celebrazioni secondo l’«unica espressione» della lex orandi, smentisce sia il cliché dei pochi “nostalgici” che richiederebbero il vetus ordo sia il “mito fondativo” della liturgia postconciliare come “Messa dei giovani”. Semmai, i giovani li ha fatti scappare.
Secondo dubium
Al secondo responsum si frantuma l’unità di vita liturgica dei fedeli e delle comunità legati al rito antico, minando implicitamente ma inesorabilmente l’integrità e l’esistenza delle stesse comunità ex Ecclesia Dei. In generale è concessa soltanto la Messa, non altri sacramenti secondo l’uso tradizionale. Questi ultimi sono permessi solo alle parrocchie personali erette allo scopo ma – attenzione – solo il Rituale e niente Pontificale. Cioè, almeno queste ultime potranno celebrare battesimi, matrimoni eccetera (contenuti nel Rituale) in rito antico, ma non cresime e ordinazioni (divieto di usare il Pontificale)! E parliamo di comunità nate e costituite appositamente per quella forma liturgica cui d’ora in poi sarà vietato l’uso del proprio rito per alcuni eventi cardine, a partire dall’ordinazione dei propri membri. In altre parole, si concede per ora (passateci l’espressione) il diritto di sopravvivenza ma non quello di procreazione. Anche qui si ripete paternalisticamente l’intento di «accompagnare quanti sono radicati nella forma celebrativa precedente verso una piena comprensione del valore della celebrazione nella forma rituale consegnataci dalla riforma del Concilio Vaticano II».
Altri dubia
I dubia seguenti riguardano la concelebrazione, motivo per revocare al presbitero la facoltà di celebrare in rito tradizionale qualora neghi la validità e la legittimità della concelebrazione. In realtà, in gran parte si tratta di sacerdoti diocesani, quindi concelebranti almeno saltuariamente nelle celebrazioni in rito nuovo; e a rigore di termini ricordiamo che anche in sacerdoti degli istituti rito tradizionale nel giorno dell’ordinazione concelebrano (unico caso previsto secondo la liturgia tradizionale), per cui non ne negano in principio la legittimità e validità. Essa appare piuttosto un pretesto capzioso per togliere il permesso al sacerdote che legittimamente preferisce celebrare individualmente, come previsto anche dal canone 902.
Segue l’apologia del Lezionario, «uno dei frutti più preziosi della riforma liturgica», con un curioso cortocircuito: le letture del rito antico dovranno essere prese dal lezionario e dalla traduzione in vigore per il rito nuovo. Allo stesso tempo però, «Non potrà essere autorizzata nessuna pubblicazione di Lezionari in lingua vernacola che riporti il ciclo di letture del rito precedente» (sempre perché, detto tra le righe, lorsignori sperano che si estingua di qui a qualche anno, per cui non si può incoraggiare la pubblicazione di libri liturgici appositi per esso).
Neanche a dirlo, il vescovo non potrà concedere autonomamente il permesso di celebrare secondo il Messale antico, ma dovrà essere autorizzato dalla Sede apostolica. Questa è la migliore smentita su un ipotetico ritorno all’indulto giovanpaolino: quest’ultimo infatti lasciava ai vescovi grande libertà di concedere, invece Traditionis custodes lascia loro soltanto la libertà di negare, mentre non possono concedere nulla senza passare per la Sede Apostolica (cioè per Roche, che sarà ben lieto di negare il permesso, per mandato del Santo Padre). Ci risulta da fonti certe che la Congregazione ha l’ordine, da parte del papa, di bocciare ogni richiesta in tal senso.
Seguono infine ulteriori casistiche, che si possono ben riassumere con questa massima: tutto ciò che non è proibito è obbligatorio (ma generalmente è proibito).
Ci sarebbe troppo da scrivere e da piangere di fronte a una gerarchia aperta a tutto e a tutti, ma pronta a cestinare qualsiasi cosa che emani eccessivo odore di Tradizione, dando un calcio a quei fedeli mai presi in considerazione ma etichettati a priori come “rigidi”, “pelagiani” eccetera, mentre il Santo Padre ci tratta da “figliastri” manifestando nei nostri confronti un livore degno di miglior causa. E intanto la Fraternità San Pio X e i sedevacantisti stappano champagne!
Fonte: messainlatino.it