Il papa, Pietro e lo Spirito Santo. Risposta a un “dubium”
Cari amici di Duc in altum, il 4 gennaio scorso The Wanderer, nel suo articolo La confessione di Pietro e un “dubium” teologico chiedeva aiuto, appunto, ai teologi circa una sua tesi, ovvero che “Pietro è la roccia su cui si fonda la Chiesa purché confessi che Gesù di Nazareth è il Verbo di Dio fatto carne”. Secondo l’autore, “tutti gli eletti in un conclave devono confessare Cristo, e quando vengono incoronati o installati, o in qualsiasi modo si voglia definire il fatto di prendere possesso della sede romana, devono fare una professione di fede, contenente la confessione”. Ma “cosa accadrebbe se un papa smettesse di confessare che Gesù è il Verbo?” E ancora: “Per abbandonare la confessione è necessario un atto esplicito o è sufficiente che, di fatto, si rinneghi la divinità di Nostro Signore?”. Nel seguente contributo il teologo León de Nemea propone una risposta.
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di León de Nemea
Poiché sono un teologo, cercherò di rispondere nel modo più chiaro e conciso possibile. Ho anche studiato entrambi i diritti, civile e canonico.
Un autore che secondo me può aiutare molto è san Leone Magno. Nei suoi sermoni e nelle sue lettere parla diffusamente della natura del pontificato e in molti dei suoi testi sottolinea che è la confessione di Pietro il fondamento della scelta di Cristo, è la fede e non la persona che viene esaltata: «Tu sei beato perché è il Padre mio che te l’ha rivelato, e questa non è un’opinione che proviene dalla terra, che ti avrebbe indotto a sbagliare, ma è l’ispirazione dal cielo che ti ha istruito; e né carne né il sangue ti hanno insegnato, ma Colui di cui io sono l’unigenito (…) La nostra fede non viene meno, quella fede che fu lodata nel Principe degli Apostoli; e così come resta ciò che Pietro ha creduto in Cristo, così resta ciò che Cristo ha stabilito in Pietro» (Sermone 95).
Questo primo punto essenziale evidenzia che l’elezione non è dovuta a un atto di virtù proprio di Pietro, ma al Padre che, per mezzo dello Spirito Santo, opera in Pietro.
Allo stesso modo i papi, nel corso della storia, quando hanno compiuto la loro missione, lo hanno fatto non per un atto della loro prudenza, della loro virtù o della loro intelligenza, ma per lo Spirito che ha parlato in loro e per intercessione di Pietro. Quest’ultimo punto, a mio avviso, è quello che dovrebbe essere approfondito per capire meglio cosa sia il papato. San Leone nei suoi sermoni esprime un’idea molto forte e importante, ma che, a mio umile giudizio, non è stata sufficientemente esplorata. Così dice san Leone, nel suo Sermone 94: «Se facciamo bene qualcosa, lo otteniamo dalla misericordia di Dio attraverso la nostra preghiera quotidiana, che è frutto del lavoro e dei meriti di colui che, nella sua sede, continua a dare vita al potere e manifesta l’autorità».
A un primo sguardo l’idea di papa san Leone Magno, che egli esprime in tante altre prediche, ha due possibili spiegazioni. La prima è letteraria: san Leone usa un espediente poetico per indicare che la sede romana gode della speciale protezione di san Pietro. L’altra è più giuridica e, se vogliamo, più reale. In uno dei suoi sermoni, san Leone si definisce, e sembra estendere tale affermazione a tutti i papi, un indegno successore. Possiamo vedere qui l’esempio dei re d’Israele, quando Dio promette ai re che manterranno il loro trono a motivo della promessa fatta al suo servitore Davide. Quando Salomone si perverte con le idolatrie, Dio gli dice che gli toglierà il suo regno tranne che per quella parte che sarà conservata in onore della promessa fatta a Davide. Anche quando il regno cade e Israele perde i suoi re, viene mantenuta la promessa che uno della stirpe di Davide sarà messo sul trono. Ed è in virtù di tale promessa che nascerà Cristo.
Ebbene, per quanto riguarda il papato osserviamo qualcosa di simile. Il papato è conferito a Pietro dalla Fede che egli confessa, quindi i suoi successori sono, in un certo senso, eredi indegni perché partecipano a ciò che è stato ottenuto non per merito proprio, ma per averlo ereditato. E abbiamo visto che più dei meriti di Pietro si tratta del merito del Padre, cioè di colui che lo rivela a Pietro.
A questo proposito, il vescovato di Roma è molto particolare. Anche se tutti i vescovi sono successori degli apostoli, nessuno è trattato come il vescovo di Roma. Costui, e solo costui, è chiamato Pietro. Il patriarca di Costantinopoli non è chiamato Andrea, né Marco quello di Venezia.
La persona del romano pontefice è legata, anche sottomessa, alla persona di Pietro in modo analogo a quello con cui i vescovi sono legati allo stesso papa. Questo collegamento può essere provato, a mio avviso, da tre percorsi teologici. Ho già parlato del primo, che è quello “popolare”, l’espressione del Sensum fidelium che ha riconosciuto nel romano pontefice colui che Cristo ha posto a capo della sua casa, ed ecco perché il popolo lo chiama Pietro. Qui troverebbe posto l’aneddoto del Concilio di Calcedonia, a proposito del quale si narra che, dopo aver letto il Tomus ad Flavianum di papa Leone, tutti dissero: «Questa è la nostra fede, questa è la fede della Chiesa, Pietro ha parlato per bocca di Leone».
La seconda è la via canonica, la principale in papa Leone, che ebbe un’importante formazione come giurista. Questo cammino mette in luce la missione particolare dell’apostolo san Pietro e l’incarico ricevuto da Cristo nel capitolo 21 del Vangelo di san Giovanni. Come spiega san Leone, i papi, quando svolgono la loro missione, agiscono mossi da Pietro. A questo proposito, è curioso che quando si spiega la comunione ecclesiale si parli sempre di essere cum Pietro e sub Pietro. Così dice anche il famoso adagio latino: Ubi Petrus, ibi ecclesia.
Anche in questo caso si potrebbe parlare di un’interpretazione poetica e di una reale. La prima è quella che ci fa dire che “è una metonimia”. Se così fosse, però, l’adagio funzionerebbe con il nome di qualsiasi papa, ma non riesco a immaginare che qualcuno dica, che so, Ubi Sisinius, ibi ecclesia o (sebbene sicuramente molti oggi lo potrebbero dire) Ubi Franciscus, ibi ecclesia. Il soggetto dell’autorità pontificia alla cui fede bisogna essere uniti per essere cattolici è Pietro, non Francesco o chiunque altro.
La terza via è quella liturgica. Nelle celebrazioni come la Cattedra di san Pietro apostolo, la Dedicazione della basilica di San Giovanni in Laterano o la memoria di san Leone Magno, i testi liturgici ci parlano dell’importanza dell’Apostolo, che continua ancora oggi a compiere la missione data da Cristo. Ad esempio, nell’antifona delle lodi in memoria di san Leone Magno, così come nell’antifona della comunione (se ben ricordo) si dice: «Forte della parola di Cristo, Pietro sta con fermezza al timone della Chiesa». Osserviamo in quelle feste la stessa modalità nelle preghiere delle collette, antifone, letture e commenti dei Santi Padri e Dottori.
Tenuto conto di quanto detto finora, se Francesco è papa non è per meriti e virtù proprie, ma per la fede di san Pietro, che è il vero pastore della Chiesa; il papa sarebbe un portavoce di Pietro, di modo che adempie alla sua funzione di papa quando esegue la missione affidata a Pietro.
Ora, il fatto che in questo caso specifico ci siano ragioni più che sufficienti per intuire che la fede personale di Jorge Mario Bergoglio non si accorda con la fede cattolica non sottrae un apice alla sua legittimità di papa: lo rende solo un cattivo papa.
Si è papa quando si è stati legittimamente scelti per assolvere a questo compito. Come immagino i lettori sapranno, il sistema è molto cambiato nel corso del tempo. Attualmente è legittimamente considerato papa un cardinale che nel conclave riceve i due terzi dei voti e accetta il pontificato. Il fatto che, come purtroppo accade oggi, egli abusi del suo potere e violi quotidianamente la sua posizione e cerchi di vendere il suo pensiero-spazzatura come se venisse da Dio stesso è principalmente un suo problema. È come se un messo reale invece di proclamare i decreti del re dicesse quello che vuole: per quanto reprobo egli possa essere, continua a essere un messo reale finché il re, e solo il re, lo rimuove dal suo incarico. Finché questo non accade, il popolo ha già ciò che è stato decretato e, quando il messo reale dice il contrario, il popolo deve agire secondo il decreto del re, non in base a quanto detto dal messo.
Mi affido qui al magnifico articolo di Eck Francesco, il papa dei tristi destini. L’articolo rispecchia fedelmente ciò che è Francesco e spiega che, se non cambia comportamento, lo attende un giudizio personale molto severo.
Avendo risposto, spero, alla domanda sollevata, non mi resta che unirmi all’ultimo invito contenuto nell’articolo di Eck, ovvero di pregare per Francesco perché, se a chi molto è stato dato molto sarà richiesto, a Francesco, a cui è stata data la responsabilità suprema, sarà richiesto moltissimo.
Fonte: caminante-wanderer.blogspot.com