Pane, formaggio & pandemia. Le nuove parole che governano il mondo
Per il momento si potrà ancora andare a comprare pane e formaggio. Così, con elegante sineddoche e malcelato disprezzo, si è espresso il ministro qualche giorno fa.
Si sa che la lingua italiana consente molte possibilità di esprimere i sentimenti con il traslato. Per esempio di un folle in posizione di potere che prevarichi i deboli senza motivo si potrebbe dire: taci, Caligola. E questa è l’antonomasia. Oppure di uno che ti lascia attonito per la pochezza umana e intellettuale, potremmo utilizzare un’iperbole: è così stupido che quando lo senti parlare daresti fuori di matto. Ma se siamo comprensivi ci contentiamo di una litote: non è un’aquila.
Tornando all’espressione utilizzata dal nostro conestabile, la trovo particolarmente azzeccata per chi, come me, già da tempo si è adattato a vivere chiuso in casa come un sorcio. Il che comunque qualche vantaggio lo comporta, almeno si evita che qualche cameriere ti sputi nel piatto.
Il cambiamento del linguaggio pubblico negli ultimi due anni è affascinante. La parola regina è naturalmente pandemia. C’è chi dice che sia stata usata a sproposito, e che qualche anno fa l’acronimo OMS ne abbia perfino cambiato la definizione. Comunque sia, la pandemia c’è ed è questa cosa che ci ha riempito… la vita negli ultimi tempi. Per togliermela dalla testa io traduco mentalmente pandemonio, che mi pare termine altrettanto pertinente per descrivere la situazione in cui ci troviamo. L’altra parola è vaccino, e qui gli indizi che il termine venga usato impropriamente sembrano precisi e concordanti. Piacerebbe capirne qualcosa di più, magari un dibattito televisivo aiuterebbe; preferibilmente su La 7, ma vanno bene tutti i canali. La medaglia di bronzo spetta al tampone.
Sono entrate poi nell’uso corrente tante nuove parole. Molte inglesi, alcune di derivazione dalla lingua italiana antica, ma con significato nuovo. Vengono subito in mente lockdown, smart working, green pass, booster, recovery plan, resilienza, transizione ecologica, tracciamento.
Forse la più orecchiata è asintomatico. Dall’inverno 2020 siamo a priori tutti malati, divisi in due categorie: malati con sintomi e malati senza sintomi. I funzionari, capillarmente dislocati, guardano con sospetto la persona che sostiene di essere sana e comunque, se proprio proprio, su di essa ricade l’onere di dimostrarlo. Fino a oggi, questa dimostrazione, a prezzo di qualche tortura psicologica, è stato possibile darla. Domani chissà. I poteri forti hanno consentito volentieri anche una certa circolazione della locuzione poteri forti, siccome non significa niente.
Poi ci sono gli acronimi. Di Oms si è detto. Molto frequentati Iss, Cts, Aifa, e me ne sfugge certamente qualcuno. Strane entità, sigle che il pensiero tende per impulso naturale a scansare dal suo orizzonte: incomprensibili, remote, misteriose e dunque autorevoli, come deve essere.
Pnrr è un altro fonema abbastanza oscuro per scoraggiare la gente a metterci il naso. Per quanto su questa parolina si giochino scelte importanti per il futuro e dunque sarebbe bene che se ne sapesse qualcosa di più, per stavolta non tradirò il segreto.
Molto pratica, di facile memorizzazione e pronuncia, la sillaba dad. Siamo tutti un po’ in dad. I maestri sono efficienti e suadenti, le lezioni giornaliere e assidue, eppure, incredibile a dirsi, c’è ancora chi si ostina a non imparare. A mali estremi estremi rimedi, forse occorrerà che venga sottratto il diritto a pane e formaggio, butto lì un suggerimento.
Vi sono state anche modifiche per sottrazione: scomparse dal radar le formule “ce lo chiede l’Europa” e “gli italiani non lo vogliono fare”. Queste il popolo non se le beve più. In questo momento, con la temperatura alta a causa del cambiamento climatico, non è conveniente rilanciarle; torneranno utili in futuro forse.
Scomparsa d’incanto anche la parola spread. A oggi non sono certo che sarà riesumata: non perché nel frattempo si saranno risolti i gravi problemi economici del Paese, ma perché non sarà più necessario inventare giustificazioni per proseguire nella spoliazione dei beni della popolazione. Tanti comunque si sono portati avanti: già oggi non hanno nulla e così possono gustare in anticipo la felicità che agli altri toccherà entro il 2030 prossimo venturo.
Parole che vanno, parole che vengono. Alla fine, confusi, ci si ritrova senza. E allora non c’è pensiero più bello e più limpido di questo di Ludovico Samek Ludovici per esprimere cosa succede: “chi non ha le parole non ha le cose, non ha mondo: se vogliamo strappare a una persona il mondo, basta strapparle le parole con cui capisce quel mondo. Le parole saranno sempre più impoverite di significato e crederà che il mondo corrisponda alla povertà di significato delle sue parole. La perdita della nostra capacità di significare attraverso il nostro linguaggio nel mondo è una perdita del mondo”.
Anche le formule di saluto stanno al passo coi tempi. Si va dal confidenziale e sportivo contatto delle nocche, al più formale incontro dei gomiti: “Salve, come va?”, “Saturo abbastanza bene, grazie”.
Uno degli aspetti più suggestivi del cambiamento che dico è il nuovo stile con il quale si esprimono i nostri dipendenti, come per un breve periodo della storia recente sono stati appellati i politici, ma il termine non ha attecchito.
Il tradizionale, vituperato politichese è stato abbandonato, e con esso ogni elementare forma di prudenza. Ora parlano chiaro, eccome! Sul piano strettamente politico è il segnale che il sistema come l’abbiamo conosciuto fino a oggi non serve più, deve essere abbattuto. Sul piano umano è la perdita di ogni rispetto dei cittadini e di riconoscimento della dignità umana, l’affermazione della protervia del potere che con un ghigno ti urla in faccia quel vecchio proverbio siciliano, o il marchese del Grillo che ti dice “io so’ io e voi…” . Sul piano culturale il segno di una devastazione che, razionalmente, non dà adito a speranze.
Ripenso ad alcuni momenti esemplari. Nell’aprile 2020 un uomo qualunque, fino a poco tempo prima sconosciuto, da qualcuno inopinatamente messo a capo della comunità di cui faccio parte (anzi, facevo parte, ipse dixit) apparve in televisione pallido, quasi emaciato, e pronunciò innanzi a molti milioni di italiani parole incredibili: “È vietata ogni forma di assembramento di persone in luoghi pubblici e privati”. Questo ordine brutale fu stemperato da una barzelletta: “si considerano necessari gli spostamenti per incontrare congiunti purché venga rispettato il divieto di assembramento e il distanziamento interpersonale di almeno un metro e vengano utilizzate protezioni delle vie respiratorie”. Ma a me non scappava da ridere, ebbi paura. Obbedimmo. Nei giorni successivi, chiusi in casa, avemmo tutto il tempo per seguire il dibattito sul significato da attribuire alla parola congiunti.
Seguirono altri pronunciamenti, constatammo il ritorno del plurale maiestatis: noi consentiamo, noi concediamo. Qui, incapace di argomentare sine ira et studio, mi limiterò a notare ciò che fu subito chiaro: che quei messaggi rappresentassero, dal punto di vista politico, una rottura definitiva, il punto di passaggio tra un prima e un dopo.
Il successore del signore summenzionato è diverso per temperamento e formazione. Mentre il primo, avvocato di mestiere, maschera la mancanza di esperienza di partito con un’espressione forbita che può anche confondere, l’attuale primo ministro non si preoccupa di somigliare a un politico. Nel parlamento pare straniato, non si sente a casa sua. Però è concentrato sul compito daeseguire, senza tentennamenti, un manager ideale. Chi, per sua sfortuna, ha frequentato certe aziende, specie multinazionali, conosce quei direttori. In neolingua si chiamano ceo, sta per chief executive officer. Diventare ceo è il sogno di tanti. Il rispetto e l’ammirazione di cui gode questa parola meriterebbe un articolo a sé, di taglio sociologico antropologico. I ceo parlano poco. Quando sono costretti a farlo vanno al sodo. Possono essere molto, come dire, asciutti: “L’appello a non vaccinarsi è l’appello a morire. Non ti vaccini, ti ammali, muori. Oppure fai morire. Non ti vaccini, contagi, lui o lei muoiono”. Affermazioni in effetti spaventose. Naturalmente ciascuno nutre le paure che cuore e ragione gli ispirano.
La dichiarazione clamorosa più recente è quella di un vecchio senatore a vita che ha invocato la necessità di modalità meno democratiche dell’informazione in caso di guerra, come secondo lui sarebbe quello di questa pandemia. Come modalità meno democratiche?? Non si è mossa una foglia.
Devo peraltro dichiararmi d’accordo sul fatto che è in corso una guerra, e loro la stanno vincendo. Loro? Ma chi sono loro? E chi siamo noi? Già, perché in una sintesi sull’uso della lingua negli ultimi due anni, non può mancare un accenno ai pronomi personali. L’utilizzo che va per la maggiore è quello che serve, sciaguratamente, a dividere la gente comune, i colleghi, gli amici, e perfino le famiglie. Un effetto scientemente provocato, e che può essere riassunto nel mistificante, aberrante dualismo vax-no vax.
Io e chi la pensa come me, cioè noi, a detta loro manchiamo di senso civico. Loro invece ne hanno in sovrabbondanza e se si sono vaccinati lo hanno fatto anche per proteggere noi. Noi siamo egoisti, loro altruisti. Loro sono convinti che noi siamo ignoranti, e se parlano di me hanno di sicuro ragione. Loro credono nella scienza. Noi, non c’è bisogno di dirlo, siamo rimasti al medioevo. Noi, secondo una nuova religione che va velocemente affermandosi, manchiamo a un dovere morale e quindi facciamo peccato. Loro sono assolti a prescindere, senza bisogno di confessione. Noi odiamo, loro amano.
Sarà per questo che noi, secondo quanto si comincia a dichiarare apertis verbis, meriteremmo di finire in galera. Se ciò dovesse accadere loro non farebbero una piega, direbbero che l’abbiamo voluto noi, potevamo scegliere. Noi non seguiamo le regole e loro ci spiegano che per essere coerenti non dovremmo accettare neppure l’imposizione della cintura di sicurezza o della patente di guida. Perché loro sono intelligenti, noi no.
Alcuni, forse perché fa loro velo l’affetto, dicono che ci rispettano. Però se non possiamo prendere un tram o andare all’ufficio postale non è affare che li riguarda, potevamo scegliere. Generalmente sono di sinceri sentimenti democratici e strenui difensori dei diritti civili, specie quelli di conio recente.
Ma la guerra vera è un’altra, occulta, non dichiarata, però giorno dopo giorno sempre più evidente: quella tra l’esercito dell’umanità intera che, ne siano coscienti oppure no, include anche gli sventurati difensori del QR code sui quali ho appena celiato, e i veri, unici loro: pochi, un pugno di esseri nelle cui mani si è accumulata, non si sa come, tutta la ricchezza del pianeta e che grazie a questo misfatto e alla complicità di un po’ di scherani, decidono le sorti del mondo; fedeli forse di qualche innominabile credenza che a noi non è dato, e comunque non vogliamo, sapere, e in nome della quale giustificano il loro agire.
Qualche volta mi è stato chiesto: ma insomma chi sono questi loro? Naturalmente non ho saputo rispondere (e che ne so io?) e mi sono trovato in condizione di debolezza di fronte all’interlocutore, che non ha interesse a riflettere, conoscere e ponderare i fatti, stabilire tra essi delle relazioni. Pretende prove immediate, che lo esentino dalla fatica di capire. Solo prove, nient’altro che prove. Proprio come quelle che sarebbero necessarie in un giudizio in tribunale. Gode che tu non possa fornirgliele. Ma se per qualche miracolo gliene portassi qualcuna, l’imputato finirebbe comunque assolto perché sarebbero ritenute insufficienti. Del resto quando qualche nome si prova a farlo, il pavloviano riflesso è immediato: ma è un filantropo, un benefattore. E fine della discussione. Perché noi siamo dei complottisti. Noi comunque, finché ne avremo cuore, resisteremo. Whatever it takes.
Fonte: ricognizioni.it