Ipotesi sui «tre anni e mezzo» delle Scritture. Per una lettura attualizzante di Apocalisse 13

Cari amici di Duc in altum, l’autore del contributo che qui vi propongo è il linguista (il quale purtroppo non può firmarsi) che ha già scritto per il blog qui e qui. Nel nuovo saggio – che richiede al lettore, per dimensione e taglio, un’attenzione speciale – l’autore scrive: “È giunto il momento di osare una rilettura attualizzante di Ap 13, giacché i tempi che viviamo impongono scenari che non s’erano mai visti nella storia dell’umanità”. Ipotizzando che “la bestia abissale sia il nemico secolare della Chiesa, ossia chi con volti e metodi sempre diversi eppur analoghi nega che Gesù sia il Christós, il Messia che redime l’umanità con la Sua morte in croce, pare inevitabile identificare l’avversario principe, da circa tre secoli a questa parte, con le logge massoniche sorte nei Paesi a tradizione cristiana e da lungo tempo dominanti, in modo più o meno diretto, governi e istituzioni”.

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Vorrei proporre alla riflessione un’ipotetica lettura, che temo potrà sonare spericolata, di quei passi biblici ove si parla, in termini sostanzialmente identici, di un periodo di tre anni e mezzo. Queste mie righe valgano come possibile via esegetica, se non suggestione interpretativa, che avanzo con la debita prudenza e senza pretesa di coglier nel segno. Chi scrive non è un biblista ed è cosciente dei rischi cui va esponendosi chi s’accosti alle Scritture manchevole di quella dottrina che si esige dagli specialisti. Tuttavia conforta la constatazione che su larga parte dei luoghi citabili, in specie del Nuovo Testamento, regna l’incertezza ermeneutica, tante e così divergenti son le ipotesi formulate sia da Padri e Dottori della Chiesa, sia dagli studiosi moderni, cattolici o meno.

Cinque son i periodi, nel testo biblico, dei quali si precisa la durata di tre anni e mezzo: 1. la gran siccità, causata da Dio tramite il profeta Elia, vòlta a colpire il regno di Achab caduto nell’idolatria (I Rg 17-18, dove invero non è ben esplicito l’arco di tre anni e mezzo, ch’è però assicurato da Gesù stesso secondo Lc 4, 25, ripreso da Jc 5, 17); 2. l’idolatria e la profanazione del Tempio di Gerusalemme – in cui apparirà insediata l’abominatio desolationis – vedute in sogno dal profeta Daniele (Dn 7, 25; 8, 14; 9, 27; 12, 7 e 11[1]); 3. la missione profetica dei due testimoni, che pur uccisi dalla bestia abissale risorgeranno dopo tre giorni e mezzo (Ap 11, 3 [tre anni e mezzo di missione] e 9 [tre giorni e mezzo d’esposizione dei due cadaveri]); 4. la dimora nel deserto della donna prima incinta e quindi puerpera, alla quale Dio assicura rifugio dal gran drago che vuole divorare il fanciullo (Ap 12, 6 e 14); 5. il dominio sul mondo concesso alla bestia salita dal mare, che proferisce bestemmie, è adorata dall’umanità intera marchiata dal suo nome o numero, e abbatte in guerra persino i santi (Ap 13, 5).

In tutti i casi notiamo tre elementi comuni: la presenza minacciosa di un oppressore impuro e sacrilego (1. Achab e la moglie Gezabele; 2. il re pagano persecutore; 3 e 5. la medesima bestia salita dall’abisso[2]; 4. il drago-satana); la resistenza al male, con l’assistenza celeste, ad opera di pochi se non di una sola persona (1. Elia e chi silente coopera con lui; 2. «gl’intelligenti del popolo» [Dn 11, 33], parte dei quali cadrà però massacrata; 3. i due testimoni; 4. la donna perseguitata; 5. i non marchiati dalla bestia, l’esistenza dei quali apprendiamo in Ap 20, 4); la vittoria assoluta su empî e vessatóri (1. sterminio dei sacerdoti di Baal [I Rg 18, 40] e successive morti cruente di Achab [22, 35] e Gezabele [II Rg 9, 32-37]; 2. rovina del re tracotante cui nessuno presterà aiuto [Dn 11, 45]; 3. resurrezione dei due testimoni con gran paura degli astanti [Ap 11, 11] e successivo affogamento della bestia in un lago di fuoco e zolfo in vista della pena eterna [Ap 19, 20 e 20, 10]; 4. nascita del fanciullo sfuggito al drago e rapito a Dio [Ap 12, 5], vittoria di Michele e dei suoi angeli sul drago [12, 7], in séguito legato per mille anni nell’abisso [20, 3] in attesa della disfatta finale [20, 10]; 5. glorificazione e beatitudine dei non marchiati dalla bestia [Ap 20, 4-5], destinata ad affogare nel suddetto lago di fuoco e zolfo [Ap 19, 20 e 20, 10]).

Al fine di un’esegèsi analitica e complessiva dei cinque passi, bisogna primariamente chiedersi se sia sempre lecita e opportuna un’interpretazione letterale dei tre anni e mezzo, o se invece, in taluni casi, non sia prudente prediligere letture allegorico-simboliche. Per i due luoghi del Vecchio Testamento non vedrei significativi ostacoli all’approccio letterale: 1. nel caso di Elia, se da un lato non possiamo saper gli anni precisi, verso la metà del IX sec., in cui sarebbe avvenuta la siccità punitiva, non v’è d’altronde motivo cogente per negare fondamento storico al terzo anno d’arsura di cui I Rg 18, 1 e al totale di ‘tre anni e sei mesi’ di chiusura del cielo che Gesù ricorda ‘ai giorni di Elia’ (Lc 4, 25)[3]; 2. la profezia di Daniele, poi, non ha lasciato dubbî agl’interpreti, che vi hanno riconosciuto l’operato di Antioco IV Epìfane, la cui persecutoria dominazione della Giudea, paganizzata a forza, si svolse nel giro di tre anni e mezzo tra il 168 e il 164 a.C., subendo progressive incrinature dall’ardimento ribelle dei Maccabei. La critica razionalistica, notoriamente, ha deprezzato ad opera di un falsario d’età maccabea la sezione di Daniele sulle infamie che dovrà perpetrare il sovrano seleucide, tanto precisamente son esse descritte, si dice, da non potersi attribuire ad un autore del VI a.C. Di questo passo, però, è parso poi lecito svuotare qualsiasi luogo veterotestamentario di contenuto profetico, fino a impugnare le affermazioni di Gesù stesso nei Vangeli sull’attendibilità degli antichi profeti, ivi incluso Daniele veggente l’‘abominio della desolazione’ (Mt 24, 15). Nondimeno, la possibilità di trovare conferma storica del periodo di tre anni e mezzo non impedisce di cogliere altresì la valenza simbolica di tale cifra, corrispondente alla metà di sette, numero benedetto da Dio poiché associato al compimento della Creazione (Gn 2, 2-3). Tre e mezzo dovrà pertanto indicare, come chiarisce la tradizione esegetica, ciò ch’è ancora parziale e che, pur avendo specificità e individualità sia storica sia simbolica, non conclude l’opera della Provvidenza nella storia. In tale ottica, prevalentemente simbolica, tenteremo ora di rileggere i tre capitoli dell’Apocalisse (11-12-13) sui tre anni e mezzo, non potendosi argomentare, nelle ipotesi interpretative che andrò tracciando, durate letteralmente intese di tre anni e sei mesi.

Comincerei col cap. 12, la cui visione non dev’esser necessariamente posposta, nell’economia della Heilsgeschichte, a quella del cap. 11: è infatti noto e patente che l’Apocalisse non va letta nei termini rigidamente cronologici di una successione sempre nuova d’eventi. Su Ap 12 v’è ampia concordia, fin dall’esegesi più antica, sull’identificabilità della donna con Maria[4], perseguitata dal drago che avversa il Redentore nascituro, e del rifugio nel deserto con la fuga in Egitto della Sacra Famiglia. Siccome è però illusorio dimostrare la peraltro non impossibile dimora di tre anni e mezzo in Egitto – tacendo i Vangeli al riguardo e sussistendo dubbî sull’anno di morte di Erode –, meglio dar alla cifra una valenza simbolica d’incompiutezza: Cristo fanciullo è stato sì tratto in salvo dalla crudeltà cieca del re, ma è al ritorno in patria ch’Egli inizia la Sua missione salvifica.

Più problematica è la decodificazione di Ap 11, dove un consolidato e plurisecolare convincimento vede nei due testimoni, proiettati agli ultimi tempi, Elia ed Enoch, sia perché son le uniche figure a non esser mai morte venendo rapite in cielo (Gn 5, 24 per Enoch e II Rg 2, 11 per Elia), sia perché fu Elia ad avere avuto il potere di chiudere il cielo a che non piovesse per tre anni e mezzo (Ap 11, 6 e 3 ex I Rg 17, 1 + Lc 4, 25). Eppure tale lettura è lungi dall’esser soddisfacente, almeno per tre ragioni: 1. ambedue i testimoni (Ap 11, 6), e non uno solo, hanno il potere d’impedire la pioggia, il che fa pensare a persone diverse e prefigurate da Elia; 2. i testimoni han pure il potere di mutar le acque in sangue (ibid.), eco palese della prima piaga d’Egitto, allorché Dio diede a Mosè e Aronne facoltà di trasformare in sangue le acque degli Egizi (Ex 7, 17-21); 3. in Ap 11 non vi è elemento alcuno che possa evocare credibilmente la memoria di Enoch. Una valida alternativa esegetica, che valorizza in chiave tipologica i precedenti di Elia e Mosè/Aronne, è a mio avviso costituita dai santi martiri Pietro e Paolo, la cui energica testimonianza unita a un’inflessibile predicazione sfida il dispotismo neroniano – manifestazione della bestia (Ap 11, 7), sulla quale torneremo – e riesce vittoriosa vista l’ascensione in cielo dei due combattenti miracolosamente risorti dopo tre giorni e mezzo (11, 12). Non solo: la comunità ebraica di Roma avversa al cristianesimo – probabilmente non estranea, o quanto meno non ostile, alle persecuzioni ordinate da Nerone contro i cristiani – avrebbe dovuto assistere di lì a qualche anno (luglio 70) alla distruzione del Tempio di Gerusalemme eseguita dalle armate di Tito. Confesso però che lascia pensosi, in questa ipotesi esegetica di Ap 11, il fatto che i cadaveri dei due testimoni figurino esposti ‘sulla piazza della gran città ch’è chiamata spiritualmente [pneumatikôs] Sodoma ed Egitto, dove [hópou] fu crocifisso anche il loro Signore’ (v. 8). Inevitabile pensare a Gerusalemme, ma il suggerimento ‘pneumatico’ di San Giovanni sembra legittimare anche l’identificazione con l’allora pervertita Roma, sotto l’impero e tramite un prefetto della quale fu decretata la morte in croce di Gesù. Se tal ipotesi di comprensione di Ap 11, peraltro non nuova né isolata[5], ha una sua verisimiglianza, dovremo ritenere ancora una volta i tre anni e mezzo una cifra simbolica[6], giacché la missione romana di Paolo e Pietro non avvenne prima dell’inizio degli anni 60 del I sec. e la loro condanna a morte si sarebbe consumata intorno al 67 (senza considerare, poi, che passarono altri tre anni prima della distruzione del Tempio). Una cifra di simbolica incompiutezza, in quanto contrassegna un momento fondamentale sì, ma non definitivo della storia: dal martirio dei due più eminenti atleti di Cristo – la ‘pietra’ cui Gesù promise ‘le chiavi del regno dei cieli’ (Mt 16, 18-19) e l’apostolo delle genti (Rm 11, 13 e Gal 2, 8) – nasce a Roma la Chiesa, la cui missione evangelizzante sarebbe stata solo all’inizio.

Veniamo infine ad Ap 13, il capitolo più letto, meditato e a buon diritto più temuto dell’Apocalisse. Esso è dominato dalla blasfema bestia marina cui vien dato potere d’azione sul mondo per quarantadue mesi, cioè tre anni e mezzo, durante i quali salirà dalla terra un’altra bestia, che ‘aveva due corna simili ad agnello e parlava come un drago’ (v. 11). La seconda bestia agevola l’adorazione della prima, ritenuta invincibile poiché guarita da un colpo mortale ad una delle sette teste, e oltre ad operare prodigi dice agli uomini di fabbricare un’eikóna (‘immagine’, ‘figura’, ‘idolo’) della prima bestia, eikòn cui verrà dato spirito vitale affinché ‘sia parlasse […] sia facesse sì che quanti non adorassero l’immagine della bestia fossero uccisi. E fa tutti, i piccoli e i grandi, e i ricchi e i poveri, e i liberi e gli schiavi, in modo che diano loro un marchio [cháragma] sulla loro mano destra o sulla loro fronte, e in modo che nessuno possa comprare o vendere se non colui che abbia il marchio, [cioè] il nome della bestia o il numero del suo nome. Qui è la sapienza. Colui che ha intelletto [noûn] calcoli il numero della bestia: è infatti numero d’uomo, e il suo numero [è] seicentosessantasei.’

Ho voluto dare dei vv. 16-18, vistane l’inquietante fama, una versione fedelmente letterale, rispettosa dei così diffusi anacoluti e sottintesi nell’Apocalisse. La tradizione ha veduto costantemente l’Anticristo nella prima bestia e lo pseudoprofeta (di cui infra in Ap 16, 13; 19, 20; 20, 10) nella seconda, intendendo quest’ultima come la Chiesa apostata che, simile ad agnello ma parlante da drago, ormai collabora con l’avversario e ne favorisce i disegni di perdizione dell’umanità. Esegesi ragionevole e plausibile, ma con una precisazione prudenziale: meglio dare ad anticristo un’accezione generica, cioè vedervi una compagine umana ostile a Cristo ed emergente nella storia in plurime vesti e a varia intensità, anziché un uomo singolo che dovrà apparire alla fine dei tempi. Ciò sarebbe coerente con le uniche cinque attestazioni della parola antíchristos nel Nuovo Testamento, tutte e cinque nelle lettere dello stesso San Giovanni[7], quattro nella prima (2, 18-22 e 4, 3) e una nella seconda (7): ivi leggiamo che anticristo è chiunque neghi in Gesù il Messia realmente incarnatosi e che già si trovano ad esservi molti anticristi (kaì nŷn antíchristoi polloì gegónasin), appartenenti peraltro un tempo alla comunità cristiana (I Jo 2, 18-19). ‘Infatti il mistero d’iniquità sta già operando’, avvertiva San Paolo (II Th 2, 7: tò gàr mystérion édē energeîtai tês anomías), sicché nella bestia abissale sarà opportuno riconoscere aggregati di persone, ora occulte ora palesi, intente a far guerra a Cristo e alla sua Chiesa lungo i secoli. Ciò non esclude, ben inteso, che la storia della salvezza sia prevista culminare col manifestarsi dell’‘uomo della perdizione’ che andrà insediandosi nel tempio di Dio e additerà se stesso come dio (ibid. 2, 4), e che quegli sia il secondo abominio della desolazione annunziato da Gesù nel sermo eschatologicus (Mt 24, 15). Ma l’Apocalisse resiste a tentativi d’individuarvi singole e irripetibili persone sia nella battaglia ultima dell’Armagedon, sia nelle grandi piaghe precedenti: prova ne sia la ricorrenza in varî punti dell’opera (dunque non solo nel cap. 13) tanto della prima quanto della seconda bestia, certo identica allo pseudoprophétēs che ritroviamo nel supplizio finale seguìto dalla parusia di Cristo (Ap 20, 10). L’Apocalisse distingue infatti tre figure malvagie nel seguente ordine gerarchico: il drago, ch’è satana; la bestia del mare/abisso, ch’è il nemico giurato dei fedeli all’Agnello; la bestia della terra, ch’è il falso profeta, ossia il clero apostata divenuto preda della prima bestia. E che la bestia dell’abisso sia di natura umana è assicurato dal suo numero, il 666, svela San Giovanni a chi rettamente mediti. Vani e peregrini furono i tentativi ghematrici, nel corso dei secoli, di additare nomi d’imperatori e re nefandi, mentre ben capì l’enigma chi vide nel 6 l’essere umano con i suoi limiti, se è vero che nel sesto giorno fu creato l’uomo (Gn 1, 26-31) e che solo nel settimo Dio portò il Creato a perfezione (Gn 2, 2-3). Arrestarsi al 6, o peggio esaltarlo dilatandone la potenza[8] e replicandolo all’infinito (il ternario del 6 in 666 non è da prendersi alla lettera: il tre è notoriamente in greco un moltiplicatore iperbolico[9]) equivale allora a glorificare l’umanità illudendosi d’oscurare Dio. Donde la condanna celeste: Maledictus homo qui confidit in homine[10].

È giunto il momento di osare una rilettura attualizzante di Ap 13, giacché i tempi che viviamo impongono scenari che non s’erano mai visti nella storia dell’umanità. Ora, se abbiamo poc’anzi ipotizzato che la bestia abissale sia il nemico secolare della Chiesa, ossia chi con volti e metodi sempre diversi eppur analoghi nega che Gesù sia il Christós, il Messia che redime l’umanità con la Sua morte in croce, pare inevitabile identificare l’avversario principe, da circa tre secoli a questa parte, con le logge massoniche sorte nei Paesi a tradizione cristiana e da lungo tempo dominanti, in modo più o meno diretto, governi e istituzioni. Sminuire o ridicolizzare il ruolo della massoneria nella formazione delle società moderne significa rifiutarsi di vedere – per accidia – il volto sempre più scoperto dei tiranni del nostro pianeta. L’ideologia massonica, profondamente anticristica nella sua antropolatria e nei suoi sogni luciferini, è ormai riuscita a insinuarsi nelle fila del suo nemico avìto, la Chiesa, avvelenandola nei precordi. Un processo di penetrazione partito da lontano, ben prima del grigio Vaticano II, e sfociato ora in apostasia: il sedicente pontefice col suo séguito in porpora, oggidì, in nulla si differenzia, nel suo lessico di eresia e perdizione, dalla retorica atea di chi ha in pugno – per il momento – le sorti del mondo. Temiamo che sulle gerarchie vaticane, e sempre più sui patriarchi orientali proni alle «magnifiche sorti e progressive», stia cadendo l’ombra della seconda bestia, del traviatore che impone il culto del suo sovrano. Il livello di ammorbamento apostatico a Roma non conosce infatti precedenti, giacché condotte viziose d’alti prelati in passato non van confuse col vituperio pubblico del depositum fidei – dissacrazioni così patenti e frequenti, nelle parole del biancovestito argentino, da non esigere digressioni dimostrative. Resiste sì il ‘piccolo gregge’ evangelico (Lc 12, 32), fatto di sacerdoti e fedeli indisponibili al tradimento, ma nelle fasce elevate del potere romano – come purtroppo nei vertici ortodossi – difficile è ingannarsi sulla pervasività d’ideologie anticristiche. Si direbbe che quel capo quasi mozzo della prima bestia (Ap 13, 3), poi prodigiosamente sanato tanto da valerle l’adorazione universale (v. 4: ‘chi [è] simile alla bestia e chi può guerreggiar con essa?’ [11]), simboleggi la Chiesa ancor trionfante sul flagello massonico, e che nella guarigione dal taglio mortale si possa scorgere la capitolazione di Roma, e forse pure di Costantinopoli.

Più arduo figurarsi, invece, in che possa consistere l’eikòn della prima bestia, cioè quella sua immagine viva e parlante la cui adorazione è ordinata – pena la morte – dalla seconda bestia (Ap 13, 15). Che qui sia in gioco una forma grave d’idolatria è sicuro; probabile è inoltre che lo spirito della civitas mundi venga assorbito a tal segno dalla chiesa apostata da obbligare i fedeli all’adorazione degl’idoli propugnati dalla prima bestia: idoli consistenti in dottrine perniciose, ora propagate con tecnologie talmente sofisticate (pensiamo alle possibilità aperte da realtà virtuale e Internet) da riprodurci in modo realistico i maestri di tali dottrine come vivi e parlanti. E a quel piccolo gregge indisposto a derive idolatriche son comminate l’esclusione dalla nuova ekklēsía, la reiezione dalla società e fors’anche, a breve, la soppressione fisica.

Che dire, poi, del 666? Certo fino ad ora la storia non ha mai visto una sua applicazione universale tramite marchiatura, su mani destre o fronti, qual condizione ineludibile per comprare e vendere. Ai nostri giorni, però, un sospetto sta sorgendo. Forse un abbaglio, ma la cosa è quanto meno nei possibilia. Mi riferisco a quattro dati affatto nuovi: 1. il recente deposito di un brevetto Microsoft siglato WO/2020/060606 (titolo: Cryptocurrency system using body activity data), che prevede l’inoculazione in corpi umani di nanodispositivi per controllo da remoto[12]; 2. la campagna vaccinale in atto, promossa da quei burattinai (la bestia abissale?) che stanno imponendo al mondo, da due anni a questa parte, la religione covidica; 3. il supporto fanatico che i vertici delle chiese cattolica e ortodossa (fattisi pseudoprofeti?) stanno dando ai burattinai sia nel propagare il covidismo sia nell’obbligare i cristiani al sacramento vaccinale, benché frutto, quest’ultimo, di esecrandi sacrifizi fetali; 4. la dimensione universale della vaccinazione criminosa, che imperversa come sola via redentiva in tutti i continenti della terra e che si sta profilando sempre più come conditio sine qua non sarà lecito né comprare né vendere. Per prudenza, ora, lascerei tali dati alla libera riflessione del lettore, senza voler sostenere, in difetto di prove patenti, che sia in corso il processo di marchiatura dell’umanità col nome o numero della bestia. Rimane però il fatto che la cosa è oggi innegabilmente possibile, essendovi tutti i mezzi per realizzarla e presentandosi attualmente, per la prima volta nella storia, un’occasione inaudita – la psicosi pandemica su scala mondiale – d’iniettare in ogni corpo quanto concepito dai ‘superiori incogniti’. Se e come sostanze iniettate possano recare il cháragma della bestia e disporsi all’altezza della mano destra o della fronte, non sta a noi immaginarlo – salvo che destra e fronte, ma temiamo di no, siano emblemi di partecipazione rispettivamente materiale (gli yes-men, i Mitläufer, gli utili idioti) ed interiore (menti lucide ma corrotte) al piano anticristico[13]. Certo l’impegno in prima linea del principe di Microsoft – si rammenti il brevetto 060606 di cui sopra – alla promozione e all’universale impressione del sigillo vaccinale non rasserena sugl’intenti dei perversi al timone del mondo.

Lo ripeto, e con vigore: ciò che mi son arrischiato a scrivere sulla riferibilità all’oggi di Ap 13 è puramente ipotetico e potrebbe dimostrarsi, con nostro pieno sollievo peraltro, in larga parte erroneo. Ma se le mie ipotesi dovessero avere un qualche fondamento, allora la durata di tre anni e mezzo che l’Apocalisse attribuisce alla tirannide della bestia salita dal mare andrà intesa, nuovamente, in un senso simbolico anziché concreto[14], dovendo designare la parentesi apostatica della Chiesa serva delle massonerie votate al principe di questo mondo. Dico parentesi perché Ap 13 non si riferisce alla fine ultima dei tempi bensì a un periodo di grande tribolazione, dopo il quale – non è specificato, tuttavia, se sùbito o molto dopo – il drago verrà incatenato per mille anni nell’abisso e sulla terra regneranno pacifici con Cristo, risorgendo da morte, ‘coloro che non avevano adorato la bestia né la sua immagine e che non avevan preso il marchio sulla fronte e sulla loro mano’ (Ap 20, 4)[15]. Soltanto al termine dei mille anni satana sarà liberato, uscirà a traviare le nazioni ai quattro angoli della terra e le radunerà per la guerra; avrà quindi luogo lo scontro finale tra le schiere diaboliche e le armate dell’Agnello, culminante nella distruzione delle prime: allora saranno gettati nel lago di fuoco e zolfo con il diavolo che li traviava sia la bestia sia lo pseudoprofeta (vv. 7-10). Ritengo che a questo secondo traviamento in Ap 20, dove riemergono per l’ultima volta le due bestie, e non al primo in Ap 13, si debbano riferire le sezioni propriamente escatologiche dei sinottici (Mt 24, 5-31; Mc 13, 5-27; Lc 21, 8-28) nonché l’impervio cap. 2 della II lettera ai Tessalonicesi[16]. In Ap 13, invece, non v’è ancora traccia della guerra definitiva seguìta dalla parusia di Cristo.

 

Tento una sintesi ricapitolativa. Notiamo che i tre anni e sei mesi, a prescindere da interpretazioni letterali o simboliche della cifra, marcano nella Bibbia momenti di eccezionale gravità spirituale nella storia umana. Di tal durata furono ante Christum natum due periodi di esiziale deviazione idolatrica (sotto Achab/Gezabele e sotto Antioco Epifane) e poi, secondo l’ermeneutica che abbiamo proposta, la fase di contrasto diabolico dell’Incarnazione (persecuzione di Erode e fuga in Egitto di Maria) e la fase natale della Chiesa in mezzo a tribolazioni di ogni sorta vissute in prima linea, sotto Nerone, dai due indefessi martiri Pietro e Paolo. E ora si direbbe in atto, per la prima volta nella storia, un tradimento apostatico della Chiesa, non più solamente arrendevole, come lo fu talvolta in passato, a lusinghe terrene, ma ormai capace di progressiva abiura al depositum fidei e di celebrazione del marchio infero, assurto a super-sacramento. Eppure, ciascuna di queste fasi di tre anni e mezzo, per angosciosa che sia, non ha carattere definitivo e culmina in un intervento divino: gli oppressori son esemplarmente abbattuti e i resistenti al male alfine riscattati.

Fuorviante sarebbe svilire l’Apocalisse a testo semilleggibile e oscuro che narra mostruose realtà dei tempi ultimi senza alcuna riferibilità né al presente – epoca in cui vanno imponendosi abiezioni contro natura finora ignote – né ai due millenni di cristianesimo già trascorsi e pervasi da calamità, orrori e guerre a non finire. Non lo consente esplicitamente, si badi bene, lo stesso apostolo, cui Cristo rivelò ‘le cose che bisogna accadano’ (Ap 1, 1 = 4, 1 = 22, 6: l’aoristo genésthai non ha, di per sé, alcun valore temporale), cioè comandò di scrivere ‘le cose viste e quelle che sono e quelle che avverranno dopo di queste’ (1, 19). L’Apocalisse è la storia della salvezza compendiata in uno straordinario ciclo d’affreschi visionari, spaventevoli ma più spesso consolatorî, e mal ordinabili in sequenza cronologica, poiché non di rado determinati quadri son ripresi e n’è variato il tratteggio o vi s’aggiungono particolari. Sta alla nostra facoltà intellettiva entrare in confidenza con l’Apocalisse, coglierne allegorie o riusi tipologici veterotestamentari, e soprattutto intuire che cosa possa essersi già realizzato o ripetersi, e che cosa invece sia di là da venire: scopriremo che l’insistenza numerica sul sette e sulla sua metà ha una sua cristallina ragion d’essere.

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[1] In alcuni punti l’indicazione temporale è imprecisa (la metà di 2300 in 8, 14 e 1290 in 12, 11), ma evidente risulta l’insistenza sul periodo di circa tre anni e mezzo.

[2] Come noto, il mare in Ap 13, 1 è il simbolico equivalente dell’abisso infernale.

[3] Qui come di séguito, mi assumo la paternità di tutte le traduzioni racchiuse fra apici.

[4] Ma pure con la Chiesa militante, sovente costretta a cercare riparo dagli attacchi nemici: interpretazione più elaborata e che obbliga ad astrazioni simboliche sul parto del Fanciullo, ma che potrebbe in ultima analisi convivere colla più immediata esplicazione mariologica.

[5] Il primo ad averla formulata, seppure in modo un po’ vago e con qualche incongruenza, mi risulta essere stato il dotto gesuita spagnolo Juan de Mariana (Ioannis Marianae e Societate Iesu Scholia in Vetus et Novum Testamentum. Ad Robertum Bellarminum Cardinalem e Societate Iesu. Matriti excudebat Ludouicus Sanctius [scil. Luis Sánchez] Typographus Regius, a. 1619, pp. 1010 [re vera 1100] – 1101 = p. 890 della ristampa Parisiis 1620). Diversi studiosi moderni hanno ripreso e affinato questa linea interpretativa: segnalo anzi tutto la monografia di Johannes Munck Petrus und Paulus in der Offenbarung Johannis. Ein Beitrag zur Auslegung der Apokalypse, Rosenkilde og Bagger, København 1950, utile ma un po’ troppo estesa rispetto ai risultati offerti; fra gli ultimi contributi, invece, suona persuasivo Enzo Bianchi nel suo commento ad loc. (L’Apocalisse di Giovanni, Qiqajon, Magnano [BI] 1988, rist. 2012, pp. 128-130).

[6] Come del resto, alla fine del cap. 12, al v. 13, la distruzione di un decimo della città e la morte di settemila dei suoi abitanti dopo la resurrezione dei due testimoni: non credo abbia senso dar peso letterale al 10 e al 7, ambedue numeri ad alta ricorrenza simbolica nell’Apocalisse.

[7] Non mi disturba che la tradizione soglia ascrivere al medesimo autore il quarto Vangelo, le tre lettere precedenti quella di Giuda e l’Apocalisse, pur non avendo io particolare titolo a esprimermi in merito. Mi limito soltanto ad osservare che il genere profetico-visionario, cui l’Apocalisse pienamente appartiene, è governato da logiche estranee alla comunicazione argomentativa e stilisticamente (oltre che lessicalmente) sorvegliata, come dimostrano opere analoghe non solo del mondo giudaico-cristiano, ma pure della Grecità pagana (il Plutarco dei miti escatologici, ad es., non è certo lo stesso dei trattati filosofici, senza che si debba parlare di autori diversi a fronte di strutture formali diverse). Se ci rappresentiamo San Giovanni intento a scriver di getto, in febbrile rapimento, quanto contemplato in estasi a Patmo, difficilmente lo immagineremo preoccupato d’artifizi letterari e dilettevoli figure retoriche (eppure vi è chi ha steso un commento gigantesco e ipertrofico all’Apocalisse cercandovi in primo luogo «alta letteratura» e usando l’aggettivo letterario a ogni piè sospinto, fino alla nausea: mi riferisco all’erudito gesuita Ugo Vanni nella sua Apocalisse di Giovanni, 2 voll., Cittadella Ed., Assisi 2018). Né il San Giovanni dell’Apocalisse potrebbe esser tacciato d’ignoranza del greco, a dispetto dei semitismi espressivi e dei persistenti anacoluti dal registro scopertamente colloquiale: non a caso, credo, egli minacciò eventuali interpolatori là dove scrisse, a fine opera (Ap 22, 18-19), che se qualcuno avesse tolto o aggiunto qualcosa Dio gli avrebbe tolto ‘la sua parte dall’albero della vita e dalla città santa’. Ecco perché la penna correttiva del maestrino, che sarebbe fin troppo facile usare per raddrizzar periodi barcollanti e appianare sintagmi spigolosi nell’Apocalisse, non solo è per quest’ultima fuori luogo, ma potrebbe anche rivelarsi spiritualmente perigliosa.

[8] Echeggio di proposito un bel passo di Dom Jean de Monléon (Le Sens Mystique de l’Apocalypse. Commentaire textuel d’après la Tradition des Pères de l’Eglise, Nouvelles Éditions Latines, Paris 1948, rist. anast. 1984, p. 217): «Il [scil. L’Antéchrist] aura beau multiplier ses œuvres, les découpler, les centupler, il aura beau déployer une activité forcenée, gonfler et dilater son nombre six, son nombre de créature, jusqu’à en faire 666, il n’arrivera pas à sortir de ce nombre imparfait, et ni lui ni ceux qui marchent sur ses pas n’entreront jamais dans le repos du Seigneur».

[9] Si pensi ad aggettivi come trismégistos (‘tre volte grandissimo’, ossia ‘immenso’), trísmakar o trisólbios (‘tre volte beato’, ossia ‘sommamente beato’), triskakodaímōn (‘tre volte sventurato’, ossia ‘terribilmente sventurato’) ecc.

[10] Così la Vulgata rendeva Jer 17, 5.

[11] Rovesciamento blasfemo del nome dell’arcangelo Michele, equivalente in ebraico a Quis ut Deus?

[12] https://patentimages.storage.googleapis.com/58/f5/bf/bf453d0035610f/WO2020060606A1.pdf (International Publication Date: 26 March 2020). URL consultato l’ultima volta in data 22 gennaio 2022.

[13] L’ampio uso metaforico in greco di cheír, ‘mano’, nel senso di azione, forza (spec. nemica), manipolo ecc. suffragherebbe quest’ipotesi. Lo stesso in verità non si può dire per métōpon, ‘fronte’, usato soltanto in accezioni assai concrete; ma uno scarto metonimico in direzione dell’intelligenza non mi sembrerebbe inverisimile.

[14] Se poi la fase acuta, cioè forse il dispotismo dei governi attuali su scala mondiale, dovesse limitarsi a tre anni e mezzo, non potremo che allietarcene!

[15] L’espressione ‘con Cristo’ (metà toû Christoû) dovrà intendersi in senso mistico, cioè in grazia di Dio; la letteralità diede infatti luogo, com’è risaputo, all’eresia chiliastica (il così detto millenarismo): argomento troppo vasto, sottile e spinoso per esser anche solo toccato in questa sede.

[16] In cui si precisa (v. 3) che nei tempi ultimi avrà luogo hē apostasía e si manifesterà l’uomo del peccato. Immagino che San Paolo, dicendo ‘l’apostasia’, si potesse riferire all’ultima tremenda aberrazione della cristianità (successiva ai mille anni apocalittici, reali o simbolici che siano, e segno inequivocabile dell’imminente ritorno di Gesù). Rimane aperta la questione – sulla quale non oserei sbilanciarmi – se per noi sia mai identificabile, nei tempi che corrono, ‘ciò che trattiene’ (tò katéchon) e ‘colui che trattiene’ (ho katéchōn) l’uomo di peccato e perdizione dal manifestarsi nella storia (II Th 2, 6-7).

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