di Aldo Maria Valli
Dopo la rielezione di Mattarella mi è venuto spontaneo andare a rileggere I santuari, il piccolo libro di Emanuele Macaluso che si occupa del modo in cui la Triade (mafia, massoneria e servizi deviati) ha condizionato il nostro Paese dal dopoguerra, secondo una linea ben riconoscibile: espropriare la politica, e in particolare il parlamento, delle proprie prerogative e fare azione di pressione sempre più marcata e palese sulle istituzioni, orientandone di fatto le scelte.
Notando come la rielezione di Mattarella, con il conseguente mantenimento di Draghi a palazzo Chigi, sia avvenuta esattamente secondo la linea indicata oltreoceano e dai potenti circoli finanziari, la lettura di Macaluso mi ha procurato rinnovato sconforto, ma mi ha anche aiutato a focalizzarmi su una questione che, con ogni evidenza, nella storia del nostro Paese risulta una costante.
Nella parte conclusiva del suo singolare libro, Macaluso osserva che quando si parla dei “santuari”, o dei “circoli”, non bisogna pensare solo a qualche loggia o a qualche insieme di colletti bianchi mafiosi. No, c’è qualcosa di più. “Qualcosa che la debolezza della politica rende più incisivo di quel che si possa credere, nel campo governativo e dell’opposizione”.
Il concetto di “debolezza della politica” è stato evocato spesso in questi giorni, dopo la pessima prova che la classe politica ha offerto in occasione della rielezione del presidente della Repubblica. Ma questa debolezza viene da molto lontano. Non è una malattia improvvisa. Ha anzi i caratteri di malattia genetica, alimentata senza tregua, nel corso di svariati passaggi storici, con l’attivo contributo di genitori che hanno operato, e operano, sia all’interno del Paese sia fuori.
Certamente i “santuari” e i “circoli” di cui parla Macaluso (il suo racconto è del 1981) hanno cambiato volto e modus operandi, si sono globalizzati, hanno utilizzato le risorse offerte dalle nuove tecnologie, ma lo schema di fondo resta lo stesso: orientare le scelte ed espropriare la politica. Il che richiede, in particolare, un costante svuotamento delle peculiarità del parlamento nazionale.
Nel mio breve saggio Virus e Leviatano osservo come, in occasione della pandemia, il concetto di “stato di emergenza” sia stato usato per esautorare il parlamento, concentrare il potere nelle mani dell’esecutivo e orientare il sistema verso una forma di dispotismo. Ma non è una novità. Nella storia d’Italia questo è un filo che lega stagioni diverse e che non è mai venuto meno.
Abbiamo visto come, in occasione della pandemia, l’esautorazione del parlamento sia avvenuta sulla base di un clima e di un vocabolario tipicamente di guerra. Quando ci sono di mezzo un’aggressione e un nemico – questo il ragionamento – il processo decisionale va reso più spedito: di qui l’idea che il parlamento debba essere svuotato, a vantaggio della concentrazione del potere nell’esecutivo.
Ebbene, questa è un’eredità che ci arriva da lontano e che ha sempre caratterizzato la politica italiana.
Se pensiamo alla Prima guerra mondiale, vediamo come le prerogative parlamentari vennero pesantemente limitate rispetto agli sviluppi dell’era liberale. In un Paese che da monoclasse stava faticosamente diventando pluriclasse, i “circoli” utilizzarono la guerra per un ritorno al passato. Niente di meglio di una guerra per frenare le classi emergenti, bloccare un processo sociale e imporre regole stabilite dall’alto, al di fuori di ogni passaggio democratico.
Lo si vide bene in Germania, ma lo si vide anche in Italia, dove il processo di parlamentarizzazione della politica fu bloccato a favore della corona, il cui potere decisionale riacquistò vigore, con grande vantaggio dei soliti “circoli”: in primis comandi militari e grande industria.
Guerra vuol dire sempre limitazione delle libertà. Vuol dire controllo dall’alto, vuol dire censura. E il parlamento in questo modo ne resta colpito. In caso di mobilitazione contro il nemico, apparati burocratici, grande industria e grande finanza saldano i loro interessi, e alla politica è impressa una svolta autoritaria.
Così avvenne in Italia per il primo conflitto mondiale, quando il rapporto fra i diversi poteri dello Stato fu modificato a tutto vantaggio dell’esecutivo, mentre il parlamento fu messo ai margini.
Tipico dello stato d’emergenza è l’utilizzo e la moltiplicazione delle giurisdizioni speciali, e anche sotto questo profilo stiamo vedendo come non ci sia, in fondo, nulla di nuovo sotto il sole.
Lo stato d’emergenza modifica sempre gli assetti politici e sempre a favore degli esecutivi, che in questo modo, non più sottoposti a un controllo, sono anche molto più liberi di rispondere alle sollecitazioni dei “circoli”, all’insegna di un blocco di interessi difficilmente scalfibile.
Quando un governo si attribuisce potersi speciali, il parlamento viene mortificato e spogliato. La stessa democrazia, così, risulta svuotata
Ma grandi interessi fanno sì che la guerra continui anche nei dopoguerra, perché lo stato d’eccezione è funzionale alle spinte autoritarie, dunque ai “circoli”. E lo è specialmente quando il tessuto sociale mostra segni di cambiamento.
Nell’Italia degli anni Venti, sottoposta a forti tensioni sociali, di nuovo emerge la tendenza all’assolutismo. E non solo in Italia, se si pensa al caso francese. Nel confronto costante tra esecutivo e legislativo si delinea la tendenza al rafforzamento della leadership, un obiettivo che, una volta ancora, legittima il sacrificio delle prerogative parlamentari. È così che la figura del presidente del Consiglio, che in precedenza aveva un ruolo più che altro di coordinamento, assume un rilievo sempre più marcato. È così che l’equilibrio fra i poteri viene meno e il parlamento è ridotto, al più, a certificatore delle decisioni prese dall’esecutivo.
È stato notato da autorevoli storici come nell’ascesa del fascismo il parlamento fu del tutto marginalizzato. Con la fine dell’opposizione aventiniana, la Camera di fatto divenne irrilevante. Mussolini, in un certo senso, fece dello stato di eccezione la condizione stabile nella quale esercitare il potere. Cadde il fascismo, cadde la monarchia, arrivò la Repubblica. Ma quel fiume carsico ha continuato a scorrere.
Mettere in collegamento diverse stagioni storiche può sembrare azzardato, ma sembra difficile non rilevare che, almeno a partire dalla Grande Guerra, in Italia è in azione una spinta antiparlamentare, e dunque antidemocratica, che non è mai venuta meno e che gioca un ruolo decisivo nella “crisi della politica”, a sua volta funzionale alle pressioni antidemocratiche. Una crisi alimentata anche dall’antipolitica sempre risorgente.
Nel saggio che conclude il suo libro, significativamente intitolato Il potere dei “circoli” e la debolezza della politica, Macaluso mette bene in evidenza come il “caso italiano” sia stato segnato da una costante e mai interrotta influenza di poteri esterni allo Stato, anche se la definizione di “esterni” non è del tutto corretta visto che tali poteri spesso si identificano con lo Stato stesso e ne condizionano gli organi. La storia dell’Italia è in larga parte la storia dell’influenza esercitata dai “circoli”, attraverso tappe che ben conosciamo e che arrivano fino a noi, dalla strategia della tensione alla P 2, dal delitto Moro fino a Mani pulite.
Dunque, la linea istituzionale e politica che si è venuta a determinare in Italia con lo stato d’eccezione pandemico di questi ultimi due anni non piove dal cielo, ma si inserisce in un filone consolidato. Penalizzazione del parlamento, svuotamento della politica, degrado della democrazia e imposizione dello stato d’eccezione ne sono i capisaldi. La stessa fine dei partiti va inserita nel quadro. Ricordando, come scrive Macaluso, che ogni volta che la politica si fa più debole i “circoli” ringraziano. Perché, già molto forti, lo diventano ancora di più.
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