di Silvio Brachetta
Papa Francesco, ospite da Fabio Fazio, sostiene che «la capacità di essere perdonato è un diritto umano», aggiungendo: «Abbiamo dimenticato che chi mi chiede il perdono ha il diritto di essere perdonato». Inoltre, «se si ha qualche debito con la società va pagato, ma col perdono» (qui).
In questi giudizi sono presenti alcune ambiguità, che derivano da una confusione tra ambiti diversi della giustizia e della grazia.
Argomenti a favore
Non è sbagliato, ma anzi rivelato, che il dovere non è per nulla estraneo all’amore di carità. È difatti rivelato, ad esempio, in Mt 18, 21-22: «Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: “Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”». Si parla appunto di «dovere» e Gesù non dà un consiglio generico, ma un comando.
Il fatto poi, in generale, che l’amore (di cui il perdono fa parte) non sia consigliato da Gesù, ma comandato, lo spiega – tra molti – san Pio da Pietrelcina: «[…] il Signore Dio non si è limitato soltanto a crearci e dire di amarlo, ma ce ne ha fatto un comando […]» (qui). Sono allora da interpretare in questo senso le parole del Cristo: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri […]» (Gv 13, 34) – poiché dal comandamento dell’amore (verso Dio e verso il prossimo) «dipende tutta la Legge e i Profeti» (Mt 22, 40).
Se poi al dovere si applica un corrispondente diritto, sembra dunque che l’amore e il perdono non siano soltanto dei doveri, ma diano luogo a diritti.
Argomenti in contrario
Nel Vangelo sono presenti comandi rispetto al Decalogo e «consigli», sia pure in forma di comando. Per questo motivo la povertà volontaria, la castità perfetta e l’obbedienza perinde ac cadaver (che non sia contro Dio) fanno parte dei consigli e si possono realizzare soltanto a seguito di una vocazione specifica (ad esempio, nella vita consacrata) o di una santità peculiare.
Per cui «Dio non vuole che tutti osservino tutti i consigli, ma soltanto quelli appropriati, secondo la diversità delle persone, dei tempi, delle occasioni e delle forze, stando a quanto richiede la carità; perché è lei che, come regina di tutte le virtù, di tutti i comandamenti, di tutti i consigli, in una parola, di tutte le leggi e di tutte le azioni cristiane, assegna a tutti il posto, l’ordine, il tempo, il valore». (San Francesco di Sales, Traité de l’amour de Dieu, 8, 6).
E, tuttavia, «i consigli evangelici sono indissociabili dai comandamenti» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2053).
Commento
San Roberto Bellarmino, Dottore della Chiesa, dice che i «consigli evangelici» sono «santissimi» e «utilissimi per osservare i Comandamenti con più perfezione» (in Dichiarazione più copiosa della dottrina cristiana, 1598). C’è quindi una “gradualità” nell’obbedire: i perfetti obbediranno più prontamente e i meno perfetti obbediranno meno prontamente, oppure non obbediranno affatto. Da qui il peccato e, possibilmente, la confessione e l’assoluzione.
Il Bellarmino aggiunge che «i consigli principali [povertà, castità, obbedienza] servano per levare gl’impedimenti della perfezione, la quale consiste nella carità». La carità, dunque, non è innata e scontata nell’uomo – così come la perfezione – ma dev’essere raggiunta, mediante il cammino di conversione e di penitenza, al quale è chiamato ogni cristiano (e ogni pagano, di cui si desidera il battesimo).
Si tratta di quella «legge della gradualità» di cui parla san Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio (n. 34). Certamente l’uomo è chiamato alla santità, ma egli – scrive il Papa – «è un essere storico, che si costruisce giorno per giorno, con le sue numerose libere scelte: per questo egli conosce ama e compie il bene morale secondo tappe di crescita».
Subito dopo, però, il Papa spiega che la «legge della gradualità» non significa affatto «gradualità della legge». È sbagliato, cioè, ritenere che vi siano «vari gradi e varie forme di precetto nella legge divina per uomini e situazioni diverse». Il precetto va assolto subito e chi trasgredisce il comandamento è nel peccato. Il fatto, cioè, che la povertà, la castità e l’obbedienza siano consigliate non significa affatto che l’avaro, il lussurioso e il ribelle siano fuori dal peccato, in attesa di realizzare la perfezione.
Tanto il sacerdote, quanto il laico, in caso di furto, di fornicazione o di disobbedienza, sono tenuti ad abbandonare immediatamente il peccato e a confessare la colpa dinnanzi a Dio, in vista dell’immediato perdono. L’imperfezione non significa libertà di peccare.
È in questo senso che i consigli evangelici restano, comunque, comandi legati al Decalogo. Sono consigliati per via dell’imperfezione umana soggettiva e per la tendenza a peccare, ma sono comandi oggettivi rispetto al Decalogo, che impone di non fare il male.
Tornando al perdono, si può avere difficoltà nel perdonare e, dunque, difficoltà nei confronti della stessa carità. Questo non significa, tuttavia, che venga meno il «dovere» di perdonare sempre: i duri di cuore non sono affatto giustificati ma, al contrario, esortati alla clemenza. C’è persino il dovere di perdonare chi non riesce a perdonare, proprio per via della «legge della gradualità», che presuppone la durezza di cuore e richiama la pazienza nei confronti del peccatore. Del peccatore dichiarato – beninteso – non di chi si ritiene giusto e, per questo, si crede a torto giustificato.
Che alle fondamenta del Precetto vi sia l’amore e la carità toglie al Decalogo ogni obbedienza derivata dal legalismo farisaico. L’amore è comandato, ma secondo la gradualità evangelica. Il perdonare, in fondo, non è altro che pazientare con il peccatore e, dunque, l’incarnazione della gradualità. È vero che Dio si aspetta l’obbedienza, ma solo l’obbedienza che deriva dall’amore di carità, non l’obbedienza servile degli schiavi.
C’è una giustizia farisaica e legalista e c’è una giustizia che la supera. Non che i due tipi di giustizia siano in contrasto assoluto. La giustizia civile e secolare è di tipo legalista, ma è secondo il disegno della Provvidenza, poiché la giustizia distributiva legale non contrasta con la giustizia del Regno (Mt 6, 33).
Lo ius romano e civile – il diritto giuridico – è legato alla giustizia distributiva: è un vero diritto e presuppone un dovere, altrettanto autentico. Ed è del tutto conforme alla Provvidenza, come del resto spiega san Tommaso in diverse sue pagine. C’è dunque un legame reale tra giustizia e diritto o tra giustizia e dovere. Diritti e doveri, in tal modo, procedono dal Regno di Dio. In questo senso, è abbastanza usuale in teologia e nel magistero riferirsi ai «diritti di Dio» o ai «diritti del Cielo» (sant’Ambrogio).
C’è però una questione essenziale da chiarire: non si può entrare nel regno dei Cieli – dice Gesù Cristo – se la nostra giustizia «non supererà quella degli scribi e dei farisei» (Mt 5, 20). Quando si applicano le categorie dei diritti e dei doveri è necessario specificare a quale giustizia siano applicati, altrimenti, in chi ascolta, si genera la confusione tra legalismo giudaico (o civile) e giustizia del Regno di Dio – tra comando e consiglio evangelico. Non è un equivoco da poco: da una parte agiamo da farisei ipocriti, dall’altra da cittadini della Gerusalemme celeste.
Diritti e doveri sono legati alla Legge, che è «compiuta» dal Cristo e non «abolita». È quasi superfluo il riferimento a san Paolo: «Non siete sotto la Legge ma sotto la Grazia» (Rm 6, 14) – che non significa l’abolizione della Legge, ma il compimento in Cristo. La Grazia non annulla i diritti e i doveri, ma li trasfigura. L’obbedienza sotto la Legge è servile, sotto la Grazia è libera. Il diritto sotto la Legge è dovuto, ma sotto la Grazia è un dono, gratuito appunto.
Il dovere sotto la Legge genera la paura del castigo, mentre sotto la Grazia è motivo di gioia. Il diritto sotto la Legge è preteso, sotto la Grazia è accolto. Quanto poi ai «diritti di Dio», hanno il corrispettivo nei doveri dell’uomo nei confronti di Dio. Non si tratta, però, di una situazione speculare: Dio non ha alcun dovere di giustizia nei confronti dell’uomo, cioè Dio all’uomo non deve nulla. Dio dà tutto all’uomo, ma non per via di un qualche dovere nei suoi confronti, bensì nella gratuità più totale, che è gratuità di amore, di grazia.
Per questi motivi, l’affermazione di Bergoglio, secondo cui «la capacità di essere perdonato è un diritto umano», senza alcun commento accessorio, è fortemente ambigua. Tanto più che le orecchie dell’uomo moderno sono oramai assuefatte alla martellante richiesta di diritti: dalla Rivoluzione francese in avanti, la questione diritti/doveri è stata quasi sempre una prerogativa dell’ambito civile e giudiziario. Accostare il Vangelo ai diritti umani si può fare, ma non con una qualche frase ad effetto, perché l’effetto potrebbe anche essere opposto alle intenzioni di chi parla.
Una seconda ambiguità è nella stessa costruzione logica della frase: Papa Francesco non dice che il diritto umano è relativo al perdono, ma alla «capacità di essere perdonato». C’è una capacità o meno di perdonare e un desiderio di essere perdonati. Non è immediatamente comprensibile il significato di «capacità di essere perdonato».
Terza ambiguità: «se si ha qualche debito con la società va pagato, ma col perdono». Ma il potere secolare non è tenuto ad applicare i consigli evangelici, ma la giustizia distributiva – la legalità. La giustizia umana commina sanzioni ed è del tutto conforme alla Provvidenza che lo faccia (san Tommaso), perché appunto la giustizia superiore o la grazia non annullano la giustizia legale e distributiva. Dio, infatti , è infinita misericordia e infinita giustizia. Dio è infinito amore (verso i penitenti) e infinito rigore (verso gli empi).
L’amore non annulla il rigore. Se l’ambito della grazia venisse confuso con quello legalistico-secolare, non avrebbe più alcun senso il rigore, né la punizione, né alcuna forza pubblica di contenimento del male. E, viceversa, se il perdono entrasse nella logica del puro diritto-dovere, verrebbe meno la gratuità della grazia, necessaria alla salvezza.