Istituto per gli studi di politica internazionale
Inflazione nuovamente in crescita, prezzi dell’energia alle stelle, esportazioni a rischio. A pochi giorni dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina, è difficile fare previsioni sulle conseguenze economiche che il conflitto produrrà sui partner europei delle parti in causa: la situazione è ancora troppo fluida e imprevedibile, dato che non è ancora chiaro fin dove Putin si potrebbe spingere dopo un’azione così spiazzante e per certi versi inattesa. Tuttavia, è bastato un giorno di guerra per suscitare un vero e proprio terremoto sui mercati, minacciando effetti pesanti quanto a livello finanziario che sull’economia reale. Perché lo scontro tra Mosca e Kiev è così importante per l’economia europea, e non solo? In quali ambiti le ricadute potrebbero essere più pesanti?
Una giornata sull’ottovolante
Nella giornata di giovedì 24, i principali indici azionari europei hanno perso circa il 4%; il valore dell’euro è sceso ulteriormente rispetto al dollaro toccando quota 1,12; il prezzo del Brent ha sfondato la “fatidica” quota dei 100 dollari al barile (per poi ripiegare appena al di sotto di questa soglia “psicologica”); il prezzo del gas si è impennato del 58% in un giorno solo, mentre quello del grano (di cui l’Ucraina è il quarto esportatore mondiale) ha raggiunto i 344 euro per tonnellata, il valore più alto mai toccato. Sembrerebbe ci siano tutti gli ingredienti per una tempesta perfetta che, partendo dai mercati finanziari, è in grado di riverberarsi anche sull’economia reale. Sarà proprio così? È difficile che un simile grado di volatilità e questi picchi possano durare molto a lungo, ma certo è che la tendenza al rialzo di energia e materie prime (che era in atto da mesi) sembra destinata a proseguire, mettendo anche sul tavolo l’ipotesi di una seconda recessione globale dopo quella del 2020, se si dovessero verificare gli scenari più pessimistici. Cerchiamo però di dare uno sguardo a cosa potrebbe accadere nei prossimi giorni e settimane nei vari ambiti dell’economia.
Stretta monetaria rinviata?
La spirale inflazionistica che ha colpito soprattutto l’Occidente sembrava aver reso inevitabile la normalizzazione delle politiche monetarie, con la conclusione dei massicci programmi di acquisto di titoli del debito pubblico da parte della FED e della BCE e con un prossimo aumento dei tassi di interesse. Questi piani saranno rispettati anche alla luce degli eventi di questi giorni? Al momento non sembrano esserci ragioni per prendere “inversioni a U”, ma è chiaro che con la complicazione dello scenario geoeconomico le scelte di policy da parte degli istituti monetari dovranno essere prese con ancora maggiore attenzione. Non a caso nella giornata di giovedì 24 Isabel Schnabel, membro dell’Executive Board della Banca centrale europea, ha dichiarato che l’istituzione di Francoforte “monitorerà attentamente il possibile impatto della crisi sulle scelte di politica monetaria”. A fronte di un aumento atteso dell’inflazione (che secondo la BCE si sarebbe progressivamente ridotta nella seconda metà del 2022, ma che alla luce dei fatti in corso potrebbe proseguire su ritmi elevati), e di una possibile frenata della crescita del Pil (circostanza che prima non era presa in considerazione), ci si troverà infatti di fronte al doppio dilemma di se e quando intervenire sui tassi di interesse: non alzarli potrebbe far correre ulteriormente l’inflazione, alzarli potrebbe invece porre un ulteriore freno alla ripresa economica. Secondo Oxford Economics, infatti, questa nuova crisi internazionale potrebbe contrarre la crescita del Pil nell’Eurozona dello 0,3% per quest’anno e di un ulteriore 1% tra 2023 e 2024. Una previsione sostanzialmente in linea con quanto sostenuto della BCE, che prevede una crescita più bassa dello 0,2% a causa degli elevati prezzi dell’energia. In pratica, questo bivio potrebbe riportare in auge uno scenario di stagflazione, con un aumento dei prezzi combinato a una crescita bassa.
Maastricht: il ritorno può attendere?
Un’altra grande partita che l’UE ha in previsione di giocare quest’anno è quella relativa alla riforma del Patto di Stabilità e Crescita, temporaneamente sospeso nel 2020 per far fronte alla crisi economica generata dalla pandemia ma il cui rientro in vigore è previsto per il 2023. A fronte di una situazione così difficile, nella quale diversi governi saranno probabilmente costretti a fare nuovamente fronte allo strumento del deficit per tamponare i forti rincari della bolletta energetica (per imprese e famiglie), siamo sicuri che verranno reintrodotte clausole (relativamente) rigide per il rientro del debito e per favorire il consolidamento fiscale? È chiaro che è ancora prematuro fare riflessioni approfondite su questo fronte e che decisioni di questo tipo dovranno essere valutate in base all’evoluzione della situazione. Tuttavia, una prolungata guerra in Ucraina potrebbe cambiare le carte in tavola anche in relazione alla ridefinizione della governance economica europea, sempre con l’intento di non soffocare la ripresa.
Non più “granaio del mondo”?
L’importanza dell’Ucraina come esportatore di derrate agricole non è stata ancora abbastanza sottolineata. Come si diceva in precedenza, Kiev è un produttore chiave di grano e di olii da semi (seguita a ruota dalla Russia). I suoi principali clienti sono i Paesi dell’Est Europa, ma anche l’Italia è esposta in maniera abbastanza significativo essendo il decimo acquirente di cereali ucraini. Non è un caso dunque se un produttore fondamentale per il mercato italiano, Divella, ha già sollevato un campanello d’allarme lamentando le difficoltà di importazione delle materie prime solitamente in arrivo dal mar d’Azov. È ancora prematuro fare scenari e ipotizzare una potenziale crisi dal lato degli approvvigionamenti agro-alimentari, ma i prezzi di queste commodities hanno già raggiunto livelli massimi e a farne le spese potrebbero essere le fasce più povere della popolazione che farebbero più fatica a permettersi beni di prima necessità. Una situazione potenzialmente esplosiva anche a livello sociale, se si pensa che la scintilla che portò allo scoppio “Primavere Arabe” nel 2011 fu proprio legata al rincaro dei generi alimentari. Dato che l’Ucraina esporta molte commodities agricole verso il continente africano (e soprattutto verso l’Egitto), non si possono trascurare i rischi che un trend al rialzo di queste materie prime potrebbero comportare per la stabilità politica nella regione.
Commercio internazionale: chi ci perde di più?
Un altro ambito fondamentale è quello dei flussi commerciali e degli investimenti esteri. La riduzione degli scambi dipenderà ovviamente dall’entità e dalla durata delle sanzioni, ma l’impatto sarà variabile a seconda del peso che i rapporti economici con la Russia hanno per i diversi Paesi europei. È da tener presente innanzitutto che, se si confrontano i dati relativi al commercio bilaterale dei principali Paesi UE con la Russia con il periodo immediatamente precedente alle sanzioni del 2014-15, si evince che il commercio con Mosca di Germania, Francia, Italia e Regno Unito è nettamente calato, con una media annuale superiore al 20% che raggiunge addirittura il 37% nel caso della Francia. Tuttavia, per Italia e Germania la partnership commerciale con la Russia vale di più, incidendo rispettivamente per il 3,4% e il 4% degli scambi totali con l’estero. Una percentuale che sale fino all’11% della Polonia o, addirittura, al 30% della Lituania (anche se ovviamente in termini assoluti il valore è decisamente più trascurabile). Il mercato russo è comunque molto importante per gli esportatori italiani, considerando ad esempio che il portafoglio di operazioni di Sace nel Paese vale 3,2 miliardi di euro e che nel 2021 – in un contesto già complesso a causa della pandemia – sono state finalizzate più di 50 operazioni di export credit.
In questo quadro ci sarebbero poche leve di politica economica a cui fare ricorso se davvero si giungesse a sanzionare pesantemente i flussi commerciali con la Russia. È anche per questo motivo che il Consiglio europeo – espressione delle volontà e degli interessi spesso contrastanti degli Stati membri – è stato finora abbastanza prudente, trovando inevitabilmente compromessi al ribasso. Il secondo round di sanzioni approvato nella serata di giovedì 24 è più pesante rispetto a quello – piuttosto blando, a dire il vero – varato martedì 22: il Consiglio europeo ha varato una stretta significativa a livello finanziario, dei trasporti e del commercio (restringendo le esportazioni dei beni dual use, che possono essere usati sia per scopi civili ma anche militari ed offensivi). Ma l’energia – vero tallone d’Achille dell’Europa – è rimasta ancora una volta fuori. Ed è anche per questo che l’UE al momento è contraria all’esclusione di Mosca dal sistema di pagamenti internazionali SWIFT: una mossa che danneggerebbe le aziende che fanno affari con la Russia, e che peraltro potrebbe non arrecare troppi danni al regime di Putin.
Ripresa interrotta?
Il rischio più grande per l’Europa dal conflitto scoppiato in Ucraina sembra un nuovo rallentamento della crescita, proprio nel momento in cui la ripresa stava prendendo più forza e gli effetti negativi della pandemia sul sistema economico sembravano finalmente alle spalle. Le sanzioni restano un’arma al servizio della politica estera e tesa a far prevalere soluzioni diplomatiche rispetto a quelle belliche. Ma, nel contesto di questa crisi, rischiano di essere un’arma a doppio taglio. Materie prime, energia, politica monetaria, scambi commerciali: attaccata da più fronti, l’Europa rischia di scoprirsi più debole e vulnerabile di quanto pensasse. È ancora presto per dire quanto questa crisi potrà incidere sulla ripresa economica del continente. Tuttavia, ci sono molti elementi su cui riflettere che si caratterizzano come ostacoli nel percorso dell’UE verso l’obiettivo dell’“autonomia strategica” e che nei prossimi anni dovranno essere affrontati nell’ottica di una maggiore convergenza.
Fonte: ispionline.it