di Antonio de Felip
Quando, in un futuro più o meno lontano, qualche storico indipendente ed equilibrato (ne esistono in natura?) rileggerà gli avvenimenti ucraini, non si stupirà della cappa oppressiva di disinformazione, della serie impressionante di menzogne e delle omissioni che caratterizzano la “narrazione”, come si usa dire oggi, occidentalista, filo-Usa e atlantista del conflitto.
Non si stupiranno della negazione euro-americana della storia dell’Ucraina, da sempre parte dell’ecumene russa, (è noto che la Rus’ nasce proprio a Kiev), della censura sulle innegabili ragioni della Russia che non può accettare di avere i missili della Nato a trecento chilometri da Mosca, della colpevole dimenticanza delle feroci persecuzioni e massacri di russi, russofoni e russofili a Odessa (decine e decine bruciati vivi nel 2014) e nel Donbass a opera delle bande ucraine. In fondo, penseranno, la verità è la prima vittima di ogni guerra e la propaganda, anche basata sulla menzogna, un corollario.
Ma, forse, questi storici verranno colpiti da un altro fenomeno: l’intensità e il livello emotivo dell’odio antirusso che questi eventi hanno scatenato. Raramente nella storia si è vista una isteria così profonda, rabbiosa e astiosa, un’esecrazione inumana e antiumana contro un intero popolo, i suoi cittadini, i suoi simboli culturali, la sua storia.
Quest’odio ha raggiunto picchi di beceraggine e malvagità che ha colpito una nazione, un popolo contro il quale, è bene ricordarlo, noi non siamo in guerra e non abbiamo nessun motivo per esserlo. Tutte le forze politiche (almeno così sembra, anche se poi a livello di singoli esponenti l’opinione, espressa molto sottovoce, è un po’ diversa), i media, gli opinion leader, l’accademia, la cultura mainstream partecipano ai “due minuti di odio” (ormai continuo e senza limiti) ordinato dal mondialismo contro la Russia, elevata al rango di stato super-canaglia. Facebook è arrivata al punto di accettare i commenti d’incitamento alla violenza contro i russi. Scrive Silvana De Mari: “Abbiamo l’infamia dei bambini russi trattati male nelle classi dove sono già statti trattati male i bambini non vaccinati”.
Un odio parossistico che potremmo definire grottesco e ridicolo, se la situazione non fosse tragica. L’Università Bicocca di Milano ha soppresso un ciclo di conferenze su Fëdor Dostoevskij. A seguito di una levata di scudi della parte meno becera dell’opinione pubblica, l’Università ha fatto una rapida, confusa e imbarazzata marcia indietro, ma il Magnifico Rettore e i Chiarissimi Professori auspicanti il bavaglio sono ancora al loro posto. D’altronde a Firenze qualcuno ha chiesto di “buttare giù” la statua del grande scrittore russo. L’Università di Trento ha messo al bando i ricercatori russi. Il metropolita Hilarion, vice del patriarca ortodosso Kirill e direttore per le relazioni esterne del Patriarcato di Mosca, non potrà più insegnare teologia all’Università di Friburgo perché non ha rinnegato il suo paese, come richiestogli dall’Ateneo.
Un “autorevole” giornalista di sinistra (sono sempre “autorevoli”, loro) ha redatto una lista di proscrizione di intellettuali presunti filo-Putin, che comprendeva il nome di Carlo Terracciano, intellettuale anticonformista mancato nel 2005. Un altro giornalista, Filippo Rossi, ha dichiarato, parlando dei cosiddetti “filorussi” italiani: “Ho incominciato a disprezzarli, a odiarli.” Il sindaco di Milano, Beppe Sala ha intimato a uno dei più grandi direttori d’orchestra al mondo, il russo Valery Gergiev, che dirigeva alla Scala La Dama di Picche, di Pëtr Il’ič Čajkovskij, di abiurare il suo paese e il suo governo. Siccome Gergiev, schiena diritta, si è rifiutato, il signor Beppe Sala, non si sa bene con quale potere e in palese violazione dei contratti, lo ha cacciato. Per solidarietà, se ne è andata dalla Scala anche la soprano Anna Netrebko, che ha dichiarato, tra l’altro: “Non è giusto costringere gli artisti a denunciare la propria terra d’origine”. La soglia del ridicolo è stata ampliamente superata con il divieto ai gatti russi di partecipare a una mostra felina.
Non solo le “inique sanzioni” che, assieme ai precedenti provvedimenti “ecologisti” dell’Unione Europea (il New Green Deal) hanno determinato gli insopportabili aumenti delle bollette che tutti abbiamo sotto gli occhi, ma anche il miserabile sequestro (con quale legittimazione giuridica?) dei beni dei cosiddetti oligarchi russi e la loro cacciata dall’Italia rappresentano un atto palesemente masochistico, visto i milioni di euro che costoro ci portavano. Ville e yacht sequestrati solo perché così ci hanno ordinato i padroni di Washington e di Bruxelles. Questi beni dovranno essere mantenuti in efficienza: pensate solo al costo giornaliero di uno yacht. Ovviamente i cattivissimi oligarchi non torneranno più in Italia, e questo, dopo le chiusure e le restrizioni imposte dalla dittatura sanitaria, affosserà definitivamente il turismo di qualità nel nostro paese.
Poi, un malizioso dubbio: perché i ricchi di tutto il mondo li chiamiamo ultraricchi o magnati o tycoon, ma solo i ricchi russi li chiamiamo, con intento chiaramente denigratorio, “oligarchi”? Perché non chiamiamo “oligarchi” anche Zuckerberg, Bezos, Soros e altri? Forse perché gli “oligarchi” russi, contrariamente alle Fondazioni dei ricchi liberal, non finanziano, a livello mondiale, lobby omosessualiste, Ong immigrazioniste, propaganda abortista e la sovversione delle “rivoluzioni colorate”, compreso il colpo di stato di Maidan del 2014 nella stessa Ucraina che eliminò un legittimo governo, sgradito perché filorusso?
Questa viscerale russofobia, che si configura come vera patologia psicosociale, accompagnata da una brutale campagna di menzogne da parte della stampa, ci dovrebbe non solo stupire, ma anche indignare. Ma non è così: tutto ormai ci sembra normale. Siamo tornati al 1915, quando la stampa dei paesi dell’Intesa s’inventò l’accusa, ovviamente falsa, ai soldati tedeschi in Belgio di tagliare le mani ai bambini.
Eppure, se guardassimo bene indietro nel tempo, constateremmo come esplosioni russofobiche si siano ripetute nella storia. Addirittura qualcuno giustifica l’ostilità verso Mosca perché erede, come Terza Roma, di Costantinopoli, la Seconda Roma. E la Costantinopoli imperiale suscitava antipatia nell’ecumene romano-cattolica, dalle dispute sulla “supremazia” di Roma, alla diatriba del “Filioque”, alla scomunica della Chiesa d’Oriente del 1054, al saccheggio di Costantinopoli da parte dei Crociati del 1204, al mancato aiuto, da parte delle potenze cristiane, alla stessa Costantinopoli che cadde, in un bagno di sangue, in mano ai turchi nel 1453.
Ma forse non è necessario andare così lontano nella storia, nelle sue ragioni e nelle sue ascendenze: la russofobia “storica” nasce nel XIX secolo nei paesi “liberali”, Gran Bretagna innanzitutto. Ma avvisaglie erano comparse anche prima. Scrive Franco Cardini: “La russofobia s’impose e crebbe essenzialmente durante la rivoluzione francese, allorché “russo” divenne sinonimo di iper-reazionario, e venne potentemente propagandata dalla cultura liberale inglese e francese al tempo della guerra di Crimea”.
È curioso pensare che, se possiamo oggi leggere un capolavoro cattolico e contro-rivoluzionario come Le serate di Pietroburgo di Joseph de Maistre, all’epoca ambasciatore del Regno di Sardegna, lo dobbiamo alla Russia ortodossa dello Zar Alessandro I, rimasta un’oasi di libertà in un’Europa ormai quasi completamente caduta sotto il furfantesco dominio delle feroci armate di Napoleone.
Con il Congresso di Vienna, la Russia si affermò come potenza sempre più importante in quell’Europa che aveva contribuito a liberare dalle rapine napoleoniche. Inoltre era già iniziata, nel diciottesimo secolo, l’avanzata russa verso la regione del Mar Nero e del Caucaso, con la liberazione della Crimea dal dominio tartaro: il Mar Nero smise di essere un lago musulmano, mentre aumentava l’influenza russa nei Balcani. La Grecia riuscì, nel 1821, a liberarsi dal dominio turco grazie soprattutto all’aiuto della Russia.
In Gran Bretagna scattò allora quell’atavico timore dell’insorgere di una nazione egemone in Europa e, sconfitto Napoleone, il nuovo nemico diventò la Russia. Come sempre, in questi casi (anche oggi), partì una campagna di denigrazione, di menzogne e di calunnie: vennero editati numerosi pamphlet che accusavano la Russia di voler conquistare, addirittura, il mondo.
La propaganda britannica s’inventò persino un falso testamento di Pietro il Grande che ordinava ai suoi successori, appunto, la conquista del mondo. Lo storico dell’Università di Harvard John H. Gleason, così scrisse sulla nascita della russofobia inglese: “All’inizio del XIX secolo si sviluppò nel Regno Unito un’antipatia verso la Russia che divenne rapidamente l’elemento più evidente e più duraturo della visione britannica del mondo”. In subordine, i propagandisti dell’establishment antirusso britannico, in prevalenza whig, cioè liberali, accusavano la Russia di voler minacciare l’India. Tuttavia qualsiasi tentativo di attacco da nord ai possedimenti inglesi era pressocché impossibile per le naturali barriere (deserti e poi catene montuose invalicabili) che li proteggevano.
In realtà la Russia aveva un altro obiettivo: la liberazione di Costantinopoli dal giogo turco. Innanzitutto perché questa conquista avrebbe significato il possesso strategico degli stretti dei Dardanelli e quindi il libero accesso delle navi russe al Mediterraneo. Ma soprattutto perché sarebbe stato uno straordinario risultato politico e religioso: il ritorno della Seconda Roma, erede di Bisanzio e dell’Impero Romano, nell’ecumene cristiana, il ristabilimento della piena libertà religiosa, la riconsacrazione della basilica di Santa Sofia dopo i sacrileghi saccheggi musulmani e la sua riduzione a moschea. Avrebbe significato una nuova legittimazione imperiale per lo Zar (contrazione di Caesar).
Non dimentichiamo poi che, fino ai genocidi turchi di cristiani (soprattutto Armeni e Greci) tra la fine ‘800 e inizi ‘900, la popolazione di Costantinopoli era composta in maggioranza da non musulmani, in prevalenza cristiani delle varie confessioni. Ma la Gran Bretagna non poteva accettare una Costantinopoli liberata e cristiana: per odio antirusso, per ostilità tutta anglicano-protestante contro l’Ortodossia, per la difesa di un “equilibro europeo” che sarebbe venuto meno, a vantaggio di Russia e Austria, con lo smembramento dell’impero turco.
Così, quando nel 1829, durante l’ennesima guerra russo-turca, le avanguardie della cavalleria russa giunsero a pochi chilometri da Costantinopoli con l’esercito ottomano in piena rotta, Londra minacciò di spostare la flotta e di dichiarare guerra a Mosca. Già da tempo la stampa inglese si era scatenata nel fomentare un isterico odio anti-russo. Scriveva il Times: “Non vi è in Europa persona sana di mente che possa guardare con soddisfazione l’immensa e rapida crescita della potenza russa.”
Ancora prima, nel 1827, l’Herald inneggiava a una guerra preventiva: “Con un simile accrescimento di potere, essa [la Russia] sarà in grado, quando vorrà e senza grandi difficoltà, di impossessarsi di Costantinopoli.” Così, grazie ai liberali inglesi, il pesantissimo giogo turco continuò a gravare sulle popolazioni cristiane, perseguitate e oppresse da secoli.
L’aggressività di Albione contro la Russia crebbe ancora. Si arrivò a fomentare nel 1836, anche con rifornimenti di armi e nonostante le proteste diplomatiche dell’ambasciatore dello Zar, la ribellione dei Circassi contro la Russia. Ed eccoci all’aggressione anglo-francese, con il cinico, opportunistico e militarmente ininfluente aiuto piemontese, all’Impero russo del 1854: la guerra di Crimea, che scoppiò in difesa della Turchia, che da decenni provocava la Russia la quale, dopo lungo tollerare, si decise a rispondere con le armi.
Lo zar Nicola I, fervente cristiano, dopo vari tentativi di mantenere la pace, intraprese la guerra, come dichiarò, “per uno scopo esclusivamente cristiano” e “sotto lo stendardo della Santa Croce”. Per lo zar, gli scopi della guerra erano chiarissimi: “Tutte le regioni cristiane della Turchia devono necessariamente diventare indipendenti, devono ridiventare ciò che erano in precedenza: principati e stati cristiani”. E ancora: “Non ho altra scelta che battermi, per vincere o perire con onore, come un martire della nostra Santa Fede, e ciò che dico lo dichiaro nel nome di tutta la Russia.”
Tutto l’est europeo si mobilitò per la liberazione dal giogo musulmano dell’impero ottomano. Migliaia di volontari bulgari, romeni, greci, valacchi si unirono alla Russia nell’ “ultima crociata”, come venne definita, contro i turchi.
Come avvenne, allora, che paesi cristiani ed europei entrarono in guerra contro un altro paese cristiano ed europeo in difesa di un impero musulmano che aveva rappresentato per secoli una minaccia per il nostro continente? La Francia aveva un antico contenzioso con la Russia per la protezione dei cristiani in Terra Santa. Ma l’aggressione alla Russia fu voluta e guidata dalla Gran Bretagna, in preda a una furiosa russofobia. I liberali inglesi, attraverso la stampa, accreditavano un’immagine della Turchia fatta di moderazione, modernizzazione e tolleranza religiosa, ovviamente totalmente falsa.
Anche durante tutto il XIX secolo e i primi anni del secolo scorso, la Turchia infatti non venne mai meno alla sua feroce politica anticristiana: dai massacri del 1821 nei Balcani, in Tracia, in Asia minore, a Costantinopoli dove il Patriarca e diversi vescovi furono impiccati in piazza, ai 20.000 greci massacrati a Chio nel 1822, alle stragi di cristiani in Libano e Siria nel 1860, alle uccisioni di massa in Bulgaria ove le vittime cristiane nel 1875 furono più di 112.000. E poi il genocidio degli armeni, dei greci, dei caldei e dei siriaci tra gli anni ’80 del XIX secolo e gli anni ’20 del secolo scorso.
Il russofobo Lord Palmerston, che per decadi guidò e ispirò la politica estera britannica, sosteneva una politica imperialista in nome di messianici “principi morali” che ricordano “l’esportazione della democrazia” predicata dagli USA: “Io penso – sosteneva Palmerston – che la reale politica dell’Inghilterra sia l’essere campionessa di giustizia e diritti, dando il giusto peso alle sue sanzioni morali, sostenendo ciò che ella ritiene sia la giustizia e punendo ciò che ella ritiene sbagliato.” Non suonano familiari queste parole?
Così, al tradizionale odio anticattolico dell’establishment anglicano-protestante e massone si affiancò un inedito odio antiortodosso e russofobo, a cui non furono estranei cospicui finanziamenti dalla Sublime Porta ai giornali radicali e liberal inglesi, spesso di proprietà metodista e calvinista: la Russia veniva dipinta come stato dispotico negli stessi anni in cui l’Inghilterra opprimeva e affamava l’Irlanda rimasta, nonostante la feroce, secolare occupazione, ostinatamente cattolica.
La Massoneria inglese, che era infiltrata nelle classi dirigenti turche (il ministro degli Esteri ottomano Mustafa Resid era massone, “iniziato” in una loggia di Londra), soffiava sul fuoco della russofobia. La prezzolata stampa inglese dipingeva la Turchia con romantica simpatia, come forza progressista, mentre la Russia era descritta come “semicristiana e superstiziosa”.
Si giunse al punto di negare che la Turchia opprimesse i cristiani, ma anzi a ritenere che fosse “tollerante e moderata” e che mantenesse la pace tra le varie confessioni cristiane, descritte come “sette fanatiche”. Alcuni esponenti politici contrari alla guerra, come Richard Cobden e John Bright, vennero attaccati dalla stampa britannica come “filorussi” e quindi “non inglesi”. Alla partenza delle truppe contro la Russia, un pastore anglicano disse che i soldati si stavano impegnando “per la difesa del genere umano” e definì i russi “un popolo di degenerati”. Un altro “reverendo” anglicano definì la fede ortodossa: “altrettanto impura e intollerante quanto la dottrina cattolica”. In un romanzetto propagandistico scritto da una militante di una setta protestante, gli ortodossi venivano definiti “pagani”, “infedeli” e “selvaggi”.
Anche durante la guerra di Crimea i turchi e gli altri musulmani (soprattutto albanesi e tartari di Crimea) si resero colpevoli di stragi e saccheggi di città cristiane, massacri di soldati russi arresisi mentre gli ufficiali inglesi stavano a guardare. Chiese e case vennero saccheggiate, i cristiani massacrati e costretti alla fuga. Scene simili si ripeterono in tutti i teatri di guerra, in Crimea e nei Balcani. Ai saccheggi in Crimea di beni, gioielli, mobili e sculture non furono estranei ufficiali inglesi accusati anche di violenze contro donne russe.
Certo è che la sconfitta russa ad opera delle potenze “liberali” prolungò di decenni l’occupazione di paesi cristiani da parte dei turchi e privò i cristiani della protezione russa, garantita da accordi precedenti.
Nel 1878 si ripeté il copione del 1829 e del 1854: in una nuova guerra russo-turca, le armate russe vittoriose erano, ancora una volta, vicinissime alla liberazione di Costantinopoli. E di nuovo in Gran Bretagna esplose l’odio contro la Russia. Questa volta l’isteria contagiò addirittura la Regina che così scrisse al primo ministro Disraeli: “Se i russi raggiungessero Costantinopoli, per la regina sarebbe una tale umiliazione da indurla ad abdicare subito”. E gli intimò “di essere audace”. Ricevuto il messaggio, Disraeli mosse la flotta e, ancora una volta, Costantinopoli rimase sotto il giogo musulmano grazie all’Inghilterra.
La russofobia era diffusa anche nella plebe: nelle taverne si cantava: “We’ve fought the Bear before/and while we’re Britons true/The Russian shall not have Costantinople” (“Già con l’Orso abbiam lottato/E finché sarem Britanni/i Russi Costantinopoli non avranno”). Eppure, pur con le consuete, scontatissime cautele sulla storia fatta con i “se”, se la Russia fosse riuscita a smembrare definitivamente l’impero ottomano, forse molti massacri successivi, come quello degli armeni e dei greci, non sarebbero avvenuti. Costantinopoli sarebbe ritornata cristiana e i greci avrebbero continuato a risiedere, come accadeva da millenni, nelle loro città in Asia Minore invece di essere vittime di una crudele pulizia etnica da parte dei turchi.
Torniamo a oggi: un odio viscerale e mistificante cola velenoso dalle Cancellerie d’Occidente, da calunniatori e diffamatori seriali, da costruttori di menzogne, dai media a reti unificate, da opinion leaderresi conformi o silenziati, da politici che anelano a chinare la schiena a padroni lontani, dalle multinazionali opportuniste, da intellettuali vigliacchi sgomitanti per un posto in prima fila, da conformisti ignari e ignoranti sventolanti straccetti arcobaleno, da collitorti di parrocchia e di curia. Contro costoro, vogliamo ricordare l’invito di Rudyard Kipling nella sua poesia If: O essendo calunniato, non rispondere con la calunnia/O essendo odiato a non lasciarti prendere dall’odio. Quello stesso Kipling che pure descrisse, col suo romanzo Kim, quel “Grande Gioco” tra Russia e Gran Bretagna.
Consigli di lettura
La propaganda occidentalista, atlantista e europoide è pervasiva e totalitaria. Ma possiamo sempre ricorrere a quelle buone armi che sono i libri. Sul tema della russofobia, della storia e della genesi della crisi in corso ecco qualche buon testo, anche recente, che può fornire risposte e svelare fatti che ci vengono tenuti nascosti. Innanzi tutto c’è il libro di un giornalista svizzero, Guy Mettan, Russofobia, con la prefazione di Franco Cardini, edito da Sandro Teti Editore. Assai consigliabile anche un testo di Paolo Borgognone, Capire la Russia, Zambon editore. Peter Hopkirk, esperto dell’Asia profonda, ha scritto, per Adelphi, Il Grande Gioco, sulle relazioni eurasiatiche tra Russia e Gran Bretagna. Sulle ragioni prossime e lontane della guerra di Crimea, compresa la russofobia di Londra, Einaudi ha pubblicato Crimea. L’ultima crociata, di Orlando Figes. Un altro libro pubblicato da Sandro Teti Editore, Attacco all’Ucraina, di vari autori tra cui Giulietto Chiesa, Fausto Biloslavo, Franco Cardini, descrive l’aggressione atlantista e delle Ong mondialiste e sorosiane all’Ucraina nel 2014, che ha determinato la crisi odierna. Infine, due libri sulla martoriata terra russa del Donbass, entrambi di autori vari: Battaglia per il Donbass, Anteo Edizioni e Donbass, una guerra nel cuore d’Europa dell’editore Passaggio al Bosco, con una postfazione di Aleksandr Dugin.
Fonte: ricognizioni.it