Mentre l’Europa fa i conti oggi con una nuova guerra, ricordiamo un anniversario: il 24 marzo 1999 la Nato dava inizio ai bombardamenti sul territorio della Repubblica federale di Jugoslavia. Un’azione davvero necessaria? Ventitré anni dopo, in proposito ci sono giudizi profondamente diversi.
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I bombardamenti Nato su Serbia e Kosovo furono la prima missione militare all’insegna del cosiddetto “interventismo umanitario” senza autorizzazione Onu. In Serbia, i bombardamenti Nato sono ricordati come un attacco ingiustificato con intenti fortemente punitivi nei confronti di tutta la popolazione serba. In Kosovo, invece, i bombardamenti Nato vengono quasi celebrati, ricordando la liberazione dall’apartheid serba e l’inizio di un percorso di autodeterminazione che sta portando il paese alla piena indipendenza.
I bombardamenti Nato, un esito annunciato
A ripercorrere ora i momenti che precedettero l’intervento Nato l’impressione che si ha è che a pesare non fu tanto il se della possibilità dell’intervento, ma il quando. Cronologicamente, i bombardamenti Nato fecero seguito al fallimento della conferenza di pace di Rambouillet, convocata in Francia nel febbraio 1999 tra i rappresentanti jugoslavi e quelli dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (UÇK).
In Kosovo, già da un anno imperversava la guerra tra l’esercito federale jugoslavo e i miliziani dell’UÇK, l’esercito di guerriglia nato nel 1997 in opposizione alla resistenza pacifica adottata dalla leadership kosovara-albanese contro la politica repressiva iniziata da Slobodan Milošević nel 1989. Lo scontro tra le due fazioni in lotta ripercorreva scenari già visti durante la guerra in Bosnia Erzegovina: le azioni militari si concentravano spesso sui civili del gruppo etnico avverso. Durante il 1998, a essere stati maggiormente colpiti dalla guerra in corso erano stati i civili kosovari-albanesi, con circa 1100 vittime e più di 230 mila tra sfollati interni e rifugiati.
Man mano che emergevano le notizie degli scontri in Kosovo, la possibilità di una campagna aerea veniva ampiamente annunciata. Il segretario di stato americano Madeleine Albright cominciò a parlare di “una battaglia tra giustizia e genocidio”, mentre il premier britannico Tony Blair insisteva sull’esistenza di “una battaglia tra bene e male, tra civiltà e barbarie, tra democrazia e dittatura”.
Già nel corso dell’autunno-estate 1998, gli alleati occidentali fecero capire al presidente Milošević che non avrebbero tollerato un’altra Bosnia. Nell’ottobre 1998, sotto la minaccia dei bombardamenti, Milošević si convinse ad accettare una missione di osservatori internazionali dell’Osce in Kosovo. Nel gennaio 1999, gli osservatori internazionali documentarono il massacro a Racak di quarantacinque civili albanesi da parte delle forze serbe. La Nato minacciò quindi nuovamente l’intervento, e Milošević si convinse a incontrare i rappresentanti dell’UÇK a Rambouillet.
Nella conferenza di pace, il grosso delle negoziazioni venne gestito dal segretario generale della Nato Javier Solana e dall’inviato speciale americano nei Balcani Richard Holbrooke. In un clima già sfavorevole alla delegazione serba, i rappresentanti occidentali erano fortemente sospettosi, temevano che Milošević stesse sfruttando le negoziazioni per guadagnare tempo e avanzare la campagna di pulizia etnica. Temevano che mentre le negoziazioni si dilungavano, si sarebbe potuta consumare un’altra Srebrenica. A inizio marzo, quindi, Solana e Holbrooke confezionarono un accordo che presentarono alla delegazione serba con l’ormai abituale minaccia di bombardamento.
In molti spesso sottolineano come gli Accordi di Rambouillet fossero inaccettabili da parte della Jugoslavia federale. L’annesso militare prevedeva il dispiegamento della Nato sul territorio kosovaro, e la possibilità di attraversamento e la relativa immunità per le forze Nato in tutto il territorio della federazione jugoslava. Milošević contro-propose il dispiegamento di una forza leggera Onu nel solo Kosovo. Gli alleati occidentali, memori del precedente bosniaco, non erano disposti ad acconsentire a una missione militare che sarebbe stata ostaggio delle meglio armate forze federali.
In un ultimo tentativo di mediazione, il 22 marzo 1999, l’Assemblea federale jugoslava approvò tutte le parti dell’accordo, inclusa un’ampia autonomia per il Kosovo, ma senza l’annesso militare. Quest’ultima mossa non fu presa in considerazione, e la sera del 23 marzo Solana diede mandato di iniziare i bombardamenti.
I bombardamenti iniziarono la sera del 24 marzo e terminarono il 9 giugno 1999. A questi presero attivamente parte le forze aeree di 13 dei 19 membri della Nato con circa mille velivoli totali e 37.465 sortite aeree, per un totale di novecento obiettivi abbattuti. In Serbia, la ferita inferta da quei bombardamenti è ancora fortemente sentita, soprattutto da parte degli oppositori alle politiche di Milošević, che si attendevano tutt’altro sostegno dall’occidente.
Per causa diretta dei bombardamenti, morirono all’incirca tra le ottocento e le mille persone, di cui la maggioranza in Kosovo. Secondo Human Rights Watch, i morti civili si aggirano intorno alle cinquecento unità. A essere bombardati, oltre agli obiettivi militari, furono anche le infrastrutture e diversi obiettivi civili. In totale, furono distrutti circa 148 edifici, 62 ponti, e danneggiati altri 300 edifici tra scuole, ospedali e istituzioni statali, per un danno totale pari a 30 miliardi di dollari.
La situazione in Kosovo
La prima indesiderata conseguenza dei bombardamenti Nato fu l’intensificarsi delle operazioni serbe in Kosovo. Sul totale della guerra in Kosovo, che conta circa 13.500 vittime, di cui diecimila civili, il maggiore numero di vittime venne registrato durante il primo semestre del 1999. Durante tale periodo perirono 10.122 persone, di cui 8.701 albanesi, 1.191 serbi e 230 appartenenti ad altre etnie. Di questi, la stragrande maggioranza furono vittime civili. Nel frattempo, il numero di rifugiati e di sfollati toccava quota 800 mila persone.
Le operazioni di pulizia etnica videro una forte recrudescenza sotto i bombardamenti. È il caso della città di Gjakova, dove dopo l’operazione delle forze serbe del 10 maggio 1999 circa quattrocento corpi vennero poi rinvenuti in una fossa comune nel vicino villaggio di Meja. Un altro caso emblematico sono le ritorsioni alle quali si abbandonarono le forze serbe il giorno dopo l’inizio dei bombardamenti Nato. Il 25, 26 e 27 marzo le forze serbe uccisero a sangue freddo all’incirca 270 civili in diversi villaggi sparsi per tutto il Kosovo.
La fine dei bombardamenti Nato e delle operazioni di pulizia etnica in Kosovo arrivò a inizio giugno 1999 grazie a un’offensiva diplomatica russo-finnica. Questi riuscirono a raggiungere un accordo con tutte le parti in causa, poi adottato come risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu l’11 giugno 1999. Secondo tale risoluzione, al Kosovo veniva riconosciuto un progressivo autogoverno sotto supervisione internazionale. Una missione civile Onu (Unmik) sarebbe stata inviata in Kosovo per assistere alla ricostruzione e allo sviluppo democratico, mentre la missione militare Kfor, sotto l’egida Onu e con la partecipazione di membri Nato e non, avrebbe garantito la sicurezza dei residenti. Il 12 giugno, l’arrivo delle forze militari Kfor fu salutato con evidente giubilo dalla popolazione kosovara-albanese.
I bombardamenti erano inevitabili?
La novità dei bombardamenti Nato del 1999 furono la determinazione con la quale vennero lanciati, l’unità di intenti tra gli alleati occidentali e la volontà comune di approvare un’azione militare al di fuori di ogni quadro Onu. Lo strappo rispetto al passato era evidente, sottolineato inoltre dalle sentite proteste (anche in Italia) contro i bombardamenti che scoppiarono qualche giorno dopo.
Ripercorrendo la serie degli eventi, sembrano emergere due ordini di ragioni che portarono i paesi della Nato a intervenire. Da una parte la volontà di affermarsi come unico garante umanitario a livello mondiale, dall’altra il sospetto nei confronti di Milošević e la determinazione a non rivivere l’incapacità e l’impotenza sperimentate durante le operazioni di pulizia etnica in Bosnia.
Ebbro dalla fine della Guerra fredda, l’Occidente si era convinto di poter fare tutto da sé. L’ipotesi di una mediazione con le altre istanze in sede Onu fu vissuta come un fastidio. Il consiglio di sicurezza Onu e i possibili veti andavano aggirati. Ironicamente, fu proprio l’intervento diplomatico russo-finnico a raggiungere l’accordo che sanciva la fine delle ostilità e l’avvio di un percorso di stabilizzazione in Kosovo.
Fonte: eastjournal.net