In memoria di Rolando Rivi, martire
Il 13 aprile 1945 a Monchio (Modena) partigiani comunisti uccidevano, dopo averlo torturato, il seminarista Rolando Rivi. Nell’anniversario della morte, ricordiamo la giovanissima vittima dell’odio anticattolico.
di don Francesco Ricossa*
Mi è stato chiesto di scrivere una breve presentazione dedicata alla memoria del giovane seminarista Rolando Rivi, il quale, ad appena quattordici anni, versò il suo sangue per la fede a Monchio (Modena) il 13 aprile 1945.
Lo faccio tanto più volentieri perché mi sento unito al giovane Rolando non certo dalla santità, ma dall’aver sentito anch’io, come lui, la bellezza della vocazione sacerdotale, l’amore per l’abito talare, che di questa vocazione è il segno visibile, in un periodo storico, quello degli “anni di piombo”, per tanti versi simile a quello terribile della guerra, nel cui contesto egli perdette la vita terrena.
Rolando era reggiano (nacque a San Valentino di Castellarano il 7 gennaio 1931, in diocesi e provincia di Reggio nell’Emilia) e conosco bene il seminario di Marola dove studiava il giovane martire, e dove insegnò anche per un certo periodo un mio zio, monsignor Filippo Rabotti. La fondazione del seminario della Montagna fu decisa, nel XIX secolo, dal Duca di Modena, Francesco IV, per ripiantare la fede scalzata dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione.
Non creda il lettore che io stia divagando. La famiglia di Rolando Rivi era infatti una famiglia profondamente cristiana, erede esemplare di questa nostra bellissima Italia che fu evangelizzata dagli Apostoli Pietro e Paolo e che respinse con fermezza la rivoluzione protestante. A fianco di quest’Italia cattolica, però, si faceva strada un’Italia incredula, anticlericale, anticristiana. I partigiani comunisti che uccisero un bambino come Rolando Rivi lo fecero perché vedevano in lui, nell’abito che portava e da loro era vilipeso, nella fede semplice che manifestava, un simbolo di tutto quello che essi odiavano. Quei partigiani erano conterranei dei Rivi, ma venivano da un’altra tradizione famigliare, da un’altra Italia. Un libro recente di Maurice Bignami (Gli uomini eguali), anche lui emiliano, figlio di un partigiano comunista, condannato a trent’anni per avere capitanato Prima Linea, “formazione armata sanguinosissima nata a Firenze nel ’76 da spezzoni di Lotta continua, Potere operaio e Autonomia milanese” (Il Foglio, 11 marzo 2006), è a questo proposito rivelatore.
Bignami dice che i suoi “idoli” giovanili, i suoi punti di riferimento che volle imitare con la lotta armata, (come i primi brigatisti rossi, d’altronde, molti dei quali erano reggiani) erano i partigiani comunisti del ’44, “i ragazzi” di suo padre, quelli scappati in Cecoslovacchia (come gli assassini di Rolando) per i loro omicidi… Ma al di là di quell’esperienza, Bignami si dice erede del 1789: “C’è una tradizione dell’omicidio politico che nasce con il regicidio e col 1789 – dichiara al Foglio – che conduce una guerra civile strisciante durata due secoli. (…) Ora mi rendo conto che eravamo alla fine di un lungo toboga e viaggiavamo a una velocità pazzesca, dietro di noi altre generazioni spingevano, quella del 1789, e poi dell’epopea napoleonica, e il 1968…”.
L’Illuminismo e la Massoneria, nel ‘700, la rivoluzione italiana dell’800, con la separazione tra Stato e Chiesa, il socialismo e il comunismo nel ‘900, le ideologie politiche che presero il posto della Religione, in genere: tutto ciò ha secolarizzato il nostro paese, ha strappato la fede dal cuore di tante anime e di tante famiglie, ha distrutto il regno sociale di Cristo; al suo posto, nel nome della laicità, il regno sociale di Satana, mendace e omicida fin dal principio.
Queste due Italie, queste due tradizioni, si sono incontrate sulle montagne di Monchio, in quella primavera del ’45. Una ha armato la mano omicida, l’altra ha spinto il ragazzo seminarista fino al martirio. L’odio contro l’amore: non c’è amore più grande di colui che dà la vita per i propri amici.
Negli anni ‘70 la memoria di Rolando, e di tanti altri che come lui che morirono per mano sacrilega, era conservata da pochi. Oggi, invece, il suo sepolcro è divenuto glorioso, e chi lo invoca è spesso testimone di miracoli che toccano il cuore e infervorano la fede.
Le ideologie sono forse morte, non lo so, ma la fede non è certo risorta per questo; oggi, in verità, non si crede più a niente. Non ci sono più martiri, forse, in Italia, né persecutori; ci sono solo più apostati.
*superiore dell’Istituto Mater Boni Consilii
Fonte: centrostudifederici.org