di don Pio Pace
Il cardinale Péter Erdö, settant’anni il 25 giugno, è arcivescovo d’Esztergom-Budapest e primate di Ungheria. Poliglotta, canonista di formazione, amministratore vigoroso, è considerato figura eminente, benché discreta e quasi timida, della tendenza «neo-conservatrice» all’interno del Sacro Collegio. È un buon rappresentante dei vertici delle Chiese dell’Est d’Europa oppresse sotto la dittatura sovietica.
Con ben poca simpatia, Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, presenta nel suo libro La Chiesa brucia [1] il tema della nazionalità legata al cattolicesimo – che queste Chiese coltivano volentieri – come la rinascita di un nazional-cattolicesimo sospetto. Egli ritiene che a torto le Chiese di Polonia e di Ungheria rivendichino una «teologia della nazione», raccomandata da Giovanni Paolo II, forte della sua esperienza polacca di liberazione dal comunismo, poiché questo papa era molto aperto sulle questioni migratorie e il «bene comune mondiale». In ogni caso, il capo della Chiesa magiara s’è mostrato in sintonia con la posizione di opposizione alle invasioni migratorie, espressa dal primo ministro Viktor Orbán, benché si sia premurato di rassicurare papa Francesco circa la propria fedeltà. Questa è chiaramente una fedeltà nella differenza, come si è potuto vedere in occasione dell’assemblea del Sinodo sulla famiglia del 2015, quando Péter Erdö ha difeso la posizione morale tradizionale: l’emergere del peccato d’adulterio condiziona l’accesso all’assoluzione sacramentale ed all’Eucarestia.
C’è così osmosi tra le prese di posizione in favore della famiglia degli episcopati di Polonia e di Ungheria e le politiche di ricostituzione tradizionale applicate dai governi di questi Paesi: morale familiare e insegnamento del catechismo a scuola. Si è nell’Europa del gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca), pure con la Slovenia di Janez Janša, vicino a Viktor Orbán (ma Janša giunge da una sconfitta elettorale), assai contraria ad accogliere le ondate di migranti, pronte a riversarsi su di essa.
Un’Europa differente, quella cui l’Ucraina è vicina. Un episodio interessante, all’interno degli avvenimenti, estremamente complessi da interpretare, della guerra in Ucraina, è stato la visita a Kiev, il 15 marzo 2022, dei primi ministri di Polonia, Slovenia, Repubblica ceca e Ungheria (quest’ultimo, Orbán, s’era fatto sostituire dal vicepremier ministro di Polonia, Jaroslaw Kaczynski, capo del partito al potere nel suo Paese). Tale visita, fatta teoricamente a nome dell’Unione europea per rassicurare gli ucraini circa il suo sostegno, potrebbe aver rappresentato una pietra miliare posta per ricondurre l’Ucraina, dopo la guerra, nel gruppo delle democrazie illiberali dell’Est, in opposizioni alle democrazie molto liberali dell’Ovest.
Però anche in Ucraina, come in Polonia o in Ungheria, la Chiesa è, se si vuole, «illiberale». La Chiesa greco-cattolica raggruppa la maggior parte dei cattolici ucraini e rappresenta l’8% della popolazione del Paese. Questa Chiesa conserva il ricordo molto vivo dei numerosi martiri, di cui si è coronata sotto il regime comunista [2]. Il grande testimone di quest’epoca terribile e gloriosa fu Josyf Slipyi, il quale, fatto cardinale in pectore (in segreto) da Pio XII, rimase alla testa della Chiesa greco-cattolica ucraina per quarant’anni, di cui diciotto in un campo di concentramento e in prigione. Finì i suoi giorni a Roma, dove ebbe rapporti talvolta tesi con Paolo VI, la cui Ostpolitik era da lui giudicata troppo accomodante verso il potere comunista. Nel 1977 mostrò la propria indipendenza, consacrando, secondo il diritto della sua Chiesa, vescovi senza mandato pontificio (tra i quali il futuro cardinale Husar, che divenne in seguito il suo secondo successore come arcivescovo maggiore, dopo il cardinal Lubachivsky). Il suo terzo successore è sua beatitudine Sviatoslav Chevtchouk, arcivescovo maggiore di Kiev e di Galizia, cinquantadue anni, originario della Galizia un tempo austro-ungarica, come lo fu Karol Wojtyla. Così guida oggi la più importante delle Chiese orientali unite a Roma, con sei milioni di fedeli. Alla testa della più grande Chiesa non latina, rappresenta in qualche modo il secondo nella gerarchia della Chiesa universale dopo il papa (benché assai lontano, beninteso, come numero di fedeli). Se non è patriarca, è perché Roma è restia per non offendere le Chiese ortodosse, e se non è cardinale è perché le sue posizioni morali (e generalmente ecclesiali), che più tradizionali di così non potrebbero essere, sono notoriamente diverse da quelle di Amoris lætitia.
Bisogna aggiungere che queste preoccupazioni morali, che caratterizzano il cattolicesimo dei Paesi dell’Est, convergono su talune questioni, ad esempio la lotta contro la legalizzazione delle «nozze» omosessuali, con quelle del patriarcato ortodosso di Mosca. Ci si ricordi del sorprendente incontro organizzato a Cuba nel febbraio 2016 per papa Francesco e il patriarca Cyrill, che prestò all’epoca il fianco a molte critiche, finalizzato a intensificare le relazioni tra Roma e Mosca. In effetti, numerose voci ortodosse vantano una sorta di ecumenismo civile, di resistenza all’ultra-liberalismo della cultura occidentale. E la guerra odierna non cancella una comunanza di vedute da parte dei cristiani dell’Est contro le minacce rappresentate da questo ultra-liberalismo verso le basi morali della vita sociale e familiare e verso la discriminazione ch’esso opera nei confronti dei cristiani nella società moderna.
In questo contesto, il cardinale Péter Erdö, che è stato peraltro presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali europee (Ccee) nel 2006, è un prelato che dovrebbe contare una volta giunto a termine l’attuale pontificato.
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[1] Laterza, 2021.
[2] Si veda: Persécutés pour la vérité. Les Gréco-catholiques ukrainiens derrière le rideau de fer [Perseguitati per la verità. Gli ucraini greco-cattolici dietro la cortina di ferro], Università cattolica d’Ucraina, Lviv, 2018.
Fonte: renovae.fr