di Aldo Maria Valli
Confesso una simpatia per Michel Onfray. Apparentemente dall’autore del Trattato di ateologia mi separa tutto. Ma non è proprio così.
Il Trattato di ateologia mette in discussione le religioni in generale e i tre monoteismi in particolare, ai quali l’autore imputa odio verso la vita, disprezzo nei confronti delle donne, rifiuto dell’intelligenza e della ragione. Non starò a contestare. È chiaro che per me il cristianesimo non ha nulla a che vedere con queste accuse, appartenenti a un armamentario ideologico vecchio e superficiale. D’altra parte, lo stesso Onfray nel suo ultimo libro, L’art d’être français, aggiusta il tiro e dichiara di battersi per la civiltà cristiana, contro la nuova barbarie del transumanismo, un’epoca di follia che nessuno, sostiene, potrà fermare, per cui, su questo Titanic che è la nostra civiltà, non resta che “affondare con eleganza”, come ha detto in un’intervista al Figaro.
Il punto è che il filo-anarchico Onfray, autore anche di libri come Il post-anarchismo spiegato a mia nonna, La politica del ribelle e Teoria della dittatura, a proposito del potere dice qualcosa a cui mi sento molto vicino e su cui rifletto sempre più spesso dopo gli avvenimenti degli ultimi due anni. Dice Onfray, riprendendo la lezione di Bakunin, che del potere occorre diffidare come della peste, e così di chi lo esercita. Perché il potere corrompe chiunque ne dispone, e non ci sono eccezioni.
Avendo studiato scienza della politica e storia delle dottrine politiche con un maestro del realismo quale Gianfranco Miglio, posso dire di essere arrivato alla medesima conclusione. Ci sono arrivato da strade completamente diverse da quelle di Onfray, eppure mi riconosco nella sua diffidenza radicale. E mi riconosco nella conseguenza pratica, ripresa dalla lezione di Thoureau, ovvero quella della disobbedienza civile: non rispettare le leggi non solo si può ma si deve, se le leggi ripugnano alla coscienza.
Lo so, qui si spalanca un abisso: può esistere una società organizzata se si apre questa porta che fatalmente può condurre all’anarchismo?
La vicenda del Covid e della vaccinazione ha forse dato una risposta. È possibile praticare la disobbedienza civile, in nome della coscienza, senza per forza di cose sfociare in un libertarismo autodistruttivo. È possibile contestare il potere in modo non violento, ma costruttivo e responsabile. È possibile dire “no” senza diventare necessariamente nemici della società organizzata ma, al contrario, mostrando come il primato della coscienza sia l’unica arma di cui disponiamo contro gli autoritarismi e specialmente contro quelli che si stanno proponendo in forme nuove.
Alla radice del sospetto verso il potere c’è l’eterno Étienne de La Boétie con il suo Discorso sulla servitù volontaria, non a caso amatissimo da Onfray e anche dal sottoscritto. Perché tanto spesso sopportiamo un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che noi stessi gli diamo e nessun potere se non quello che noi stessi gli assicuriamo? “Da dove ha potuto prendere tanti occhi per spiarvi se non glieli avete prestati voi? Come può avere tante mani per prendervi se non è da voi che le ha ricevute? Siate dunque decisi a non servire più e sarete liberi”.
Il buon Étienne non aveva nemmeno vent’anni quando, alla metà del Cinquecento, vergava queste riflessioni più che mai attuali. E giustamente Onfray gli rende omaggio a più riprese.
La questione è la coscienza, la formazione della coscienza. Ecco perché i padroni del pensiero puntano dritti sulle nostre menti, sui nostri cuori. Affinché assicuriamo loro il potere, occorre che veniamo svuotati interiormente.
Il tiranno conosce bene la questione posta da La Boétie. La liberazione può venire solo dalla volontà di chi la desidera. Spegnete il desiderio, piegate la volontà, e il gioco è fatto. Non è questione di attendere una palingenesi, una mitica rigenerazione. Non è nemmeno questione (e qui rispondo alla domanda di tanti amici che mi chiedono: che fare?) di organizzare avanguardie consapevoli. “La liberazione arriva quando ci si rifiuta di dare al potere ciò che di solito gli si dà per farlo esistere”, ovvero il nostro sì passivo, la nostra accettazione da servi, la nostra obbedienza da cani ammaestrati. E questo lo possiamo fare tutti, ogni giorno.
Il potere si regge sul credito che noi stessi gli diamo. Smettiamola di essere paurosi, di inseguire il mimetismo, di fare come tutti. Il potere, anche quello che appare più pervasivo, è un gigante dai piedi d’argilla. Si regge se noi vogliamo che si regga. La libertà è sempre a rischio, ma il rischio più grande nasce quando noi smettiamo di desiderarla e perfino di pensarla. Scrive Onfray: “Il nostro silenzio e la nostra passività ci fanno complici del potere; siamo nati liberi, e la libertà è il nostro bene più naturale (basta vedere come si dibatte un animale preso in trappola), ma dapprima la forza, poi l’inganno e infine l’abitudine producono lo stato di fatto contro il quale non reagiamo più; la sottomissione genera apatia, arrendevolezza, vanifica il coraggio, la capacità di pensare in grande, dal che discende l’interesse dei governanti a rincretinire i propri sudditi”. E poi (riflessione per me dolorosa ma impossibile da ignorare dopo quanto abbiamo visto durante la “pandemia”): “La servitù si mantiene anche grazie al sodalizio tra il potere e il sacro”. Se vogliamo, possiamo sostituire “sacro” con “molti uomini di chiesa”, ma il succo è quello.
Nel suo Teoria della dittatura. Perché non viviamo più in una società libera, Onfray si rifà ad Orwell, e non poteva essere altrimenti. Come distruggere la libertà? Semplice: con la sorveglianza continua, l’imbecillimento diffuso, l’uniformazione dell’opinione, la denuncia del pensiero autonomo come criminale, riducendo il pensiero critico a problema psichiatrico, impoverendo la lingua, usando un linguaggio doppio (il bipensiero), distruggendo le parole, parlando una lingua unica e impoverita, eliminando i classici (cancel culture), cancellando la storia e riscrivendola. E poi creando un nemico.
Chiede Onfray: “Chi oserà dire che non siamo arrivati a questo punto?”. Rispondo: osa dirlo chi non si rende conto che ci siamo arrivati e chi non vuole che ce ne rendiamo conto.
Ora Onfray, deposte le argomentazioni più spiccatamente antireligiose, di fronte al naufragio incombente recupera la tradizione giudaico-cristiana e se ne fa difensore. Il che non gli impedisce di dichiarare il suo totale pessimismo. E allora, da povero cattolico, mi permetto di dirgli: coraggio amico ateo, non praevalebunt!