Terra bruciata attorno alla Comunione in bocca. Un caso di coscienza
Caro Valli,
come noto, anche la diocesi di Milano – alla quale appartengo – ha riammesso la Comunione in bocca; lo ha fatto, però, in modo debolissimo, sotto traccia, con un decreto pilatesco: lo sdoganamento della Comunione in bocca, infatti, non viene dichiarato esplicitamente: si può desumere solo in via interpretativa, in base al criterio per cui ciò che non è più vietato torna ad essere consentito.
Inutile dire che questa situazione favorisce – con palese intenzionalità – i sacerdoti determinati a boicottare la Comunione in bocca; sacerdoti che, da quello che posso vedere, rappresentano la schiacciante maggioranza. In ogni caso, non mi risulta che, in alcuna parrocchia, sia stata data la minima informazione in merito.
Mi sono rivolto al parroco una prima volta: “Don R., hai visto che è stata riammessa la Comunione in bocca?”.
“Ma il decreto non è chiaro…”.
Al che io: “L’avvocatura della curia ha confermato…”.
“Si, ma, con tutto il Covid che c’è in giro… se ti do la Comunione in bocca tu con l’alito mi puoi infettare. In questo momento la Comunione sulla mano mi sembra la soluzione più sicura”. Aggiunge: “Tu che ne dici?”.
Rispondo: “Io non dico niente: faccio riferimento ai documenti della Chiesa”.
Ho cercato sostegno presso la locale coordinatrice dei ministri per l’Eucarestia, che mi ha ribadito: “Il decreto non è chiaro; comunque col Covid che c’è in giro la Comunione sulla mano resta la soluzione più sicura”, ed ha aggiunto, con tono di intesa e complicità: “E poi, diciamocelo sinceramente: la comunione in bocca, non ne sentiamo molto la mancanza…”.
Non sono questioni accademiche, perché mi trovo ora di fronte a un grave caso di coscienza. Una questione che, nel mio caso, si pone a due livelli.
Il primo livello è l’ovvia tentazione di lasciar perdere, evitare di tornare alla carica, e andare a cercare altrove la Comunione in bocca. Cosa peraltro non facile, considerato anche il periodo estivo, in cui già di per sé le Messe feriali diventano una rarità. E poi mi suona assurdo presentarmi a un sacerdote sconosciuto e chiedergli “Scusi, lei dà la Comunione in bocca”? Sarebbe come chiedere a un vinaio: “Scusi, lei vende anche vino rosso?”.
Laddove, teoricamente, sarebbe mio diritto presentarmi, ovunque, alla distribuzione della Comunione con la bocca aperta, senza chiedere preventivamente alcuna concessione.
Il secondo livello è dato dal fatto che, nella mia parrocchia, sono ministro straordinario dell’Eucarestia. Ho quindi, oggettivamente, una particolare responsabilità circa la questione. In aggiunta, sono anche sostituto sacrista: se abbandonassi le celebrazioni liturgiche, dovrei, per coerenza, lasciare anche il mio sevizio, che risulta particolarmente necessario, viste le crescenti difficoltà logistiche ed economiche delle parrocchie.
Adesso sono fuori Milano, ma lunedì dovrò riprendere servizio in parrocchia. E qui non si scappa: è mio dovere tornare a discutere (pardon: dialogare) col parroco. E siccome non c’è nessuna apertura a confrontarsi sul fronte teologico-canonico, dovrei far valere, tout-court, il mio puro e semplice diritto di ricevere la Comunione in bocca. Che, tra l’altro, è l’unico argomento inattaccabile, non avendo il sacerdote alcuna discrezionalità al riguardo.
Sarebbe mio dovere, peraltro, sollecitare il parroco a dare anche pubblica informativa riguardo a questa possibilità.
In caso di diniego, altamente probabile, mi troverei a un bivio ineludibile: trarne le dovute conseguenze, e autosospendermi dalla parrocchia, prendendo una posizione che risulterebbe immotivata e ricattatoria, un incomprensibile puntiglio su questioni marginali; oppure ritirarmi nuovamente, facendo finta che non sia successo nulla, contribuendo al disastro liturgico generale e soprattutto commettendo un grave peccato di omissione.
Mi fermo qui, avendo molto da pregare riguardo alla decisione da prendere.
Il Maccabeo