di Sergio Caldarella*
La modernità, nonostante i suoi grandi proclami, ha sostanzialmente riaperto la strada al delirio della volontà di potenza che si trasforma, poi, nella volontà di onnipotenza dei vari programmi con cui si vuol sostituire la soggettività umana al divino.
Ludwig Feuerbach, ne L’essenza del cristianesimo (1841), aveva già proclamato che «gli esseri umani dovrebbero credere a se stessi invece che in un riflesso del proprio essere», ossia l’uomo è l’essere supremo per l’uomo, un tema che, se vogliamo, potremmo far già risalire al presocratico Senofane ed alla sua critica dell’antropomorfismo religioso.
Nel 1996, in Francia, Luc Ferry utilizzerà proprio il titolo di L’homme-Dieu, ou Le sens de la vie, nel quale l’autore, coerentemente con le teorie ottocentesche di Feuerbach, «mostra come il lungo processo di ritiro del divino dal nostro universo sociale e politico si riveli, alla fine, un processo di sacralizzazione dell’uomo stesso che porta a nuove forme di spiritualità».
In questo contesto intellettuale viene pubblicato, nel 2015, Homo Deus di Yuval Noah Harari, l’ennesimo manifesto di ubbie varie dell’epoca contemporanea, con le solite ripetizioni di antichi luoghi comuni, il cui titolo scarsamente originale è indicativo dell’antica patologia della volontà di potenza a lungo combattuta dalla teologia e dal pensiero filosofico ma diventa, nell’epoca della conoscenza, uno dei copioni alla moda per i tanti pappagalli del transumanesimo.
In questo testo l’autore si trastulla con dichiarazioni quali: «Non siamo soddisfatti quando conduciamo un’esistenza pacifica e prospera. Piuttosto, diventiamo soddisfatti quando la realtà corrisponde alle nostre aspettative».
Ossia, come per ogni malato di mente che si rispetti, la nostra «soddisfazione» psicologica coincide con il soggiogamento della realtà alla volontà! Oppure: «La reazione più comune della mente umana ai risultati raggiunti non è la soddisfazione, ma il desiderio di ottenere di più» e qui torna in mente la nota canzone di Jovanotti del 1994 «voglio di più… non mi basta mai…».
È ovvio come tali dichiarazioni solletichino particolarmente gli appetiti di coloro affetti dalla patologia del tiranno che, per l’appunto, non si accontenta mai e vuole sempre proiettare la propria volontà di potenza sul mondo trasformandolo secondo capriccio. Non è allora casuale che le strampalate teorie di Harari abbiano destato l’attenzione e l’interesse di ristretti circoli oligarchici contemporanei, elevandolo come relatore di spicco al Fondo Monetario Internazionale con la signora Christine Lagarde seduta accanto come moderatrice, oppure al World Economic Forum di Davos ed altri consessi affini. Del resto, anche in questo caso, continua a valere il vecchio motto secondo cui: i simili si accompagnano con i loro simili (similes cum similibus facillime congregantur).
Se, da una parte, ci sono gli sragionamenti vari del transumanesimo che, poi, altro non è se un’ideologia del trapasso della tecnica dall’oggetto tecnologico (cosa), all’umano, dall’altra vi stanno i ragionamenti che, da tempo, ammoniscono contro la presa di comando della meccanizzazione (Siegfried Giedion) o il mito della macchina (Lewis Mumford). Tra questi è Jacques Ellul, con il libro La società tecnologica, ad aver offerto l’analisi critica più pungente ai deliri tecnocratici dell’epoca contemporanea.
Uno degli argomenti contrari proposti da Ellul è quello sulla rimozione della scelta individuale dai processi di automazione in cui la sola direzione imposta diviene quella «a favore delle tecniche che offrono la massima efficienza», una sorta di principio evolutivo tecnologico che strizza l’occhio ad altri assiomi politici come quello del neoliberismo in cui si dichiara che non vi è alternativa (there is no alternative) all’ideologia che questo propaga e rende dominante. Una ben curiosa sincronicità.
Nel contesto dell’ideologia del potenziamento dell’efficienza, l’essere umano rapportato alla macchina viene considerato inefficiente e, in casi estremi, anche obsoleto. Se, però, ci fermiamo ad analizzare meglio questo concetto di «efficienza» ci rendiamo conto che è proprio l’umanità stessa, sotto la luce di quest’ideologia della modernità, ad apparire quantomeno problematica o esplicitamente «superflua». Pensiamo al caso di un vecchio dibattito sui «minutemen», quegli operatori dentro i silos militari con testate nucleari che, ricevuto l’ordine, hanno il compito di scatenare un olocausto nucleare lanciando manualmente i missili intercontinentali balistici.
Il Pentagono si chiese quanti di questi militari ben addestrati avrebbero davvero eseguito l’ordine di lancio e, con il semplice giro di una chiavetta, sterminato milioni di altri esseri umani dall’altra parte del globo. Vennero allora condotte delle simulazioni e si scoprì che l’efficienza della morte era alta, ma non completa, perché alcuni di quei soldati, durante l’esercitazione che per loro rispondeva invece al vero, non se la sentirono, nonostante gli ordini, di avere qualche milione di morti sulla coscienza. L’umano è, dunque, «inefficiente» rispetto alla macchina che non ha, invece, alcun problema ad eseguire un comando il cui risultato è quello della distruzione del pianeta.
La macchina ha cicli di operatività che conducono all’obsolescenza ed è da qui che prende spunto il transumanesimo, dalla mentalità tecnologica applicata alla specie umana da cui si pretende l’ipotetica necessità di un superamento dell’umano nel transumano. Le speculazioni ed i vaneggiamenti dei transumanisti si inseriscono, evidentemente, su questa scia concettuale e, considerando l’essere umano tanto inefficiente quanto antiquato, proprio per questo sognano di caricarlo dentro un marchingegno tecnologico. Per persone ragionevoli questo «caricamento» dentro una macchina, quantunque possibile, apparirebbe già come una forma d’imprigionamento più raffinata e crudele.
Un altro quesito che sorge, a questo punto, è chiedersi se sia soltanto la coscienza a rappresentare un problema all’efficienza che costoro hanno in mente o se non sia anche la stessa razionalità umana? Non è forse anche questo il motivo per cui la società tecnologica genera una razionalità strumentale contraria ad una ragione che ingloba la pietas e l’humanitas? Una razionalità che, nel libro L’Ultima dea d’Occidente, lo scrivente ha definito come prisca ratio.
Il soggetto efficiente, se vuol far bene il proprio lavoro deve ripetere, senza titubare, dei protocolli prestabiliti, senza porsi alcuna domanda o frapporre la propria umanità tra sé e l’obiettivo prestabilito: sia questo l’imbarco di passeggeri in un aereo o il lancio di un missile termonucleare! Non era, del resto, proprio questa la difesa di molti gerarchi nazisti i quali, rendendosi colpevoli di genocidio, dichiararono di aver invece semplicemente «eseguito degli ordini»? Quello che qui emerge è un livello di estraneazione psicologica che stravolge la psicologia individuale fino a condurre, in molti casi, alla ricerca di sostegni farmacologici, psicotropi o altre fughe da una realtà che non riconosce più l’individuo come tale.
Vi è, infatti, un altro aspetto del transumanesimo che è, poi, quello etico ed è, forse, il più preoccupante. L’essere umano visto come cosa può anche venire disposto come tale. Qualunque visione del mondo che tratti l’essere umano come «disponibile», a «disposizione» di una tecnologia, di una teoresi qualsiasi o di un’ideologia politica, è sostanzialmente nemica dell’individuo in quanto tale e la storia sta proprio lì ad insegnarlo. Che dire, allora, di una teoresi la quale si pone quale presupposto il superamento effettivo dell’essere umano? Un superamento verso dove?
David Pearce, uno dei fondatori del movimento transumanista ha scritto: «Se vogliamo vivere in paradiso, dovremo progettarlo da soli. Se vogliamo la vita eterna, allora dovremo riscrivere il nostro codice genetico pieno di bug e diventare come un dio».
Paul Claudel aveva però già ammonito che «Quando l’uomo cerca di realizzare il paradiso in terra, sta in effetti preparando un inferno molto rispettabile». Un ammonimento, però, chiaramente inascoltato dai transumanisti e da quelli che ne ascoltano le chimere.
* saggista ed epistemologo italo-americano autore di testi di filosofia,
sociologia ed epistemologia pubblicati in Italia e all’estero
Fonte: informazionecattolica.it