Percy Shelley, il volto dietro la maschera di Frankenstein
di Paolo Gulisano
8 luglio 1822: un naufragio durante una burrasca al largo di Lerici metteva fine alla vita di uno dei grandi protagonisti della prima stagione del Romanticismo: Percy Bysshe Shelley. Il trentenne intellettuale e nobile inglese aveva scelto come sua patria d’adozione l’Italia, e in particolare la Toscana. Si era poi stabilito in Liguria, a Lerici, insieme alla moglie Mary, nata Godwin, figlia di uno dei più importanti esponenti dell’Illuminismo inglese, e autrice del capolavoro Frankenstein, scritto a soli ventuno anni.
Anche Shelley era stato un talento precocissimo, un poeta già celebrato a vent’anni, mentre era studente universitario a Oxford, ateneo dal quale venne espulso per aver scritto un pamphlet dal titolo “Sulla necessità dell’ateismo”; era una provocazione inaccettabile per il tempio massimo della cultura anglicana. Shelley fu nel suo tempo – e anche a venire – descritto come il prototipo del ribelle romantico, anticonformista. Persino il suocero William Godwin, esponente di punta del “progressismo” dell’epoca, si era scandalizzato della disinvoltura con cui Shelley si era separato e aveva poi preso a frequentare sua figlia Mary, poco più che adolescente. In seguito Percy era rimasto vedovo (per il suicidio della prima moglie) e aveva reso Mary una donna rispettabile col matrimonio.
La vita dei due Shelley non fu facile, anzi la tragicità degli avvenimenti che seguiranno concederanno periodi brevi di felicità, che serviranno solo a rendere ancora più tragica lo loro stessa esistenza, quasi una maledizione per le scelte fatte: per aver disobbedito al padre, per essersi ribellata alle convenzioni sociali, seppur influenzate da un clima di idee liberali, nelle quali era stata cresciuta. Così il senso di colpa provato da Mary aumenterà insieme al disagio della sua nuova, misera condizione. Mary avrà quattro figli, dei quali tre morti ancora bambini. Eppure all’origine di quel libro straordinario che è il Frankenstein c’era proprio il suo amato Percy, insieme al quale – all’inizio della loro storia d’amore – compiva affascinanti viaggi. Proprio in uno di questi viaggi, in cui essi – completamente senza soldi – venivano ospitati dagli amici, vennero scritte le prime pagine del Frankenstein.
La composizione del romanzo avvenne per un avvenimento casuale. In un pomeriggio d’estate piovoso e freddo, nella Villa Diodati, situata nei pressi del lago di Ginevra a Chapuis, in Svizzera, presa in affitto da Byron per le vacanze estive, nel giugno del 1816 un gruppo di giovani intellettuali formato da George Gordon Byron, John Polidori, l’autore de Il Vampiro, Percy Shelley e Mary, si sfidarono a creare delle storie gotiche. Ogni giorno a Mary veniva chiesto se avesse pensato a qualcosa e ogni giorno la sua risposta negativa aveva un tono mortificato. E Mary rimaneva ore ed ore in silenzio ad ascoltare le conversazioni di Lord Byron e P.B. Shelley sulla filosofia e sul principio della vita umana.
Proprio lei, cresciuta ed educata dal padre come una vera filosofa, una “cinica”, che sapesse dissertare sui campi del sapere, della storia e della politica; lei che aveva viaggiato tanto, lei che aveva sentito declamare dallo stesso Coleridge i versi de The Rime of the Ancient Mariner, lei che aveva passato la sua giovinezza nel confortevole mondo della scrittura, consapevole che l’invenzione non nascesse dal vuoto, ma fosse il continuo formarsi e trasformarsi della materia, adesso sembrava ammutolita. O forse non era proprio così. Forse Mary era all’inizio di una comprensione, in attesa di quell’input, di quell’ispirazione, di quel gesto iniziale che le permettesse di cominciare a plasmare la sua materia. Così Byron e Shelley parlavano dello scienziato italiano Luigi Galvani, del suo De viribus electricitatis in motu musculari commentarius a proposito dei suoi esperimenti sull’applicazione di scariche elettriche sulle rane e delle sue scoperte sul potere dell’elettricità sui corpi inanimati; sulla possibilità, come conseguenza, di mettere insieme organi di cadaveri e conferire loro una nuova energia vitale.
Il dibattito etico che era derivato da questa straordinaria scoperta aveva suscitato molte domande: con non poca ansia e preoccupazione gli intellettuali e gli scienziati del tempo avevano cominciato a chiedersi quale futuro ci sarebbe potuto essere se I morti avessero avuto davvero la possibilità di ritornare in vita, come avrebbero vissuto e quali sarebbero state le conseguenze morali e psicologiche, nel momento in cui si fosse stato messo in pericolo il confine tra la vita e la morte. Inoltre il potere che lo scienziato avrebbe ottenuto da questi esperimenti sembrava farlo diventare sempre più sicuro di sé fino al punto di pensare di poter davvero avere un potere sulla vita e sulla morte. Siamo di fronte a un passo importante nelle relazioni tra medicina, anatomia e scienze. Le dissertazioni che ne seguirono, che si basavano sulla possibilità reale di poter dare nuova vita ai cadaveri, suscitarono grande impressione su Mary Shelley e influenzarono notevolmente la narrazione del momento della creazione del mostro. Quella notte non riuscì a dormire, la sua immaginazione le riempì la mente di incubi: si svegliò terrorizzata, talmente vicino alla realtà gli era apparso quell’incubo. Ma finalmente aveva trovato il protagonista della sua storia.
Nella costruzione del personaggio dello scienziato Victor Frankenstein, la Shelley potrebbe essersi ispirata proprio al marito. La caratterizzazione prometeica di Frankenstein è quella più evidente, già dal sottotitolo del romanzo (Il nuovo Prometeo) , ma ci sono altri elementi che conferiscono a questo personaggio le caratteristiche di un eroe degno di essere contemplato tra i personaggi romantici di quel periodo: il suo isolamento, la sua sofferenza, una sorta di autopunizione per poter giustificare le proprie azioni ed elevare la propria anima al di sopra di una natura umana, che comunque non potrebbe capire la grandezza della sua ambizioni. Mary, infatti, condanna Frankenstein come Eschilo condannò Prometeo. Egli è condannato per un atto di ‘ύβρις, termine che deriva dalla lingua greca, il cui significato richiama ad azioni eccessive, di prevaricazione.
La ‘ύβρις di Frankenstein è quella dello scienziato, il quale, trascinato dal suo “delirio di onnipotenza” non sa più fermarsi e si lascia consumare fisicamente e psicologicamente dall’ansia del compimento della sua stessa opera. Il delirio della sua gioia e del suo orgoglio, oggi diremmo esaltazione, forse anche euforia, indebolirono la resistenza di fronte alla tentazione di concepire l’idea di “creare” un essere animato e spazzarono via ogni dubbio di fronte a questa scelta, lasciando spazio solo all’incoscienza e all’ardore. Victor stesso affermava, come il più concreto scienziato illuminista, che superstizioni e credenze non lo toccavano minimante, che il buio non aveva effetto su di lui e che considerava I cimiteri, che a quel tempo non occupavano più necessariamente il suolo delle chiese, semplicemente come luoghi dove I corpi erano diventati solo pasto per I vermi.
Egli dunque si era concentrato sull’azione corruttrice della morte sui cadaveri e si diede totalmente allo studio e alla ricerca di una strada che conducesse alla scoperta del principio della vita. Forse è questa l’origine e al tempo stesso la causa del playing God, il giocare a fare Dio. Victor come ogni scienziato voleva colmare le presunte lacune di Dio. La più grande di essa è la morte e tutto il mistero di lutto e di dolore che la circonda. Lo scienziato può svelare questo mistero e sconfiggere la morte completando, così, la grandezza della creazione. In fondo la sua intenzione è il cosiddetto bene dell’umanità. Qui risiede, come abbiamo già detto, il significato profondo della figura di un Prometeo moderno, la cui ambizione e, allo stesso tempo presunzione è quella di voler acquisire la suprema conoscenza e impiegarla per il bene e il progresso dell’umanità. Questa era la sua unica ambizione, ma al tempo stesso questa era l’origine della sua tracotanza, dell’overreaching, del suo andare oltre i limiti, recando a se stesso e a tutti coloro che amava dolore e disperazione invece di prosperità e progresso.
Mary Shelley voleva forse mettere in guardia Percy, e ogni lettore, dai rischi di questa sfida al limite presentato dalla natura. Quando Frankenstein fu pubblicato, anonimo, tutti i lettori inglesi erano convinti che fosse opera di Shelley, e grande fu lo stupore quando ci si rese conto che era opera della giovane moglie. Evidentemente si sentiva molto dell’animo e del carattere di Percy.
Poco dopo la pubblicazione del libro iniziò l’esilio italiano degli Shelley, che doveva culminare nella tragedia accaduta duecento anni fa. Il corpo dell’annegato fu bruciato su una pira sulla spiaggia di Viareggio, secondo la volontà degli amici. Era una sorta di rito pagano, per un uomo che si era allontanato da quel Cristianesimo formale e parruccone della Chiesa anglicana, e che sfortunatamente non aveva mai incontrato il Cristo autentico. Aveva dunque vissuto come un pagano, ossia un uomo alla ricerca. Quel rogo su una pira dal sapore antico aveva determinato un fenomeno curioso: tra le sue ceneri, venne ritrovato il suo cuore, intatto. Un fenomeno inspiegabile. Mary volle tenerlo per sé, conservandolo in uno scrigno che riportò in Inghilterra. Era ciò che restava dell’uomo che aveva ispirato Frankenstein, il moderno Prometeo, e il più grande dei Romantici.
Fonte: ricognizioni.it