Cari amici di Duc in altum, qualcuno mi ha chiesto perché non ho dedicato un commento alla morte di Eugenio Scalfari. C’è un motivo contingente e uno di fondo. Il motivo contingente è che per una settimana ho fatto il nonno a tempo pieno, il che non mi ha permesso di scrivere. Il motivo di fondo è che, se anche avessi potuto scrivere, credo proprio che non avrei detto nulla, se non tre parole: riposi in pace.
Al fondatore dell’Espresso e di Repubblica, e in particolare al suo rapporto con Bergoglio, ha invece dedicato un articolo Aurelio Porfiri, e gli lascio volentieri la parola.
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di Aurelio Porfiri
La figura di Eugenio Scalfari ha certo segnato la storia del giornalismo italiano, non fosse altro che per la fondazione del giornale la Repubblica, il quotidiano che viene letto da coloro che sono dalla parte giusta della storia (ma di questa storia, non della storia in assoluto). Intellettuale di riferimento per molti, a un certo punto della sua lunga vita Scalfari è stato folgorato da papa Francesco. Certamente non si può evitare di identificare alcuni punti di contatto fra le due figure, visto che il papa è idolo di tutto quel mondo del quale Scalfari è stato intellettuale di punta.
C’è la questione delle interviste a Bergoglio. Con tanti problemi aperti.
In occasione della prima, una volta fatta l’intervista (che Scalfari preferiva chiamare conversazione o dialogo), il giornalista la inviò al papa scrivendo tra l’altro in allegato: “Le debbo comunicare che ho ricostruito in modo che il racconto del dialogo sia compreso da tutti. Tenga conto che alcune cose che Lei mi ha detto non le ho riferite. E che alcune cose che Le faccio riferire, non le ha dette. Ma le ho messe perché il lettore capisca chi è Lei”. Passano un paio di giorni, poi telefona monsignor Xuereb, all’epoca segretario di Francesco: “Il papa mi ha dato l’ok per la pubblicazione”.
Molti si sono chiesti: ma perché il papa ha permesso che gli fossero fatte dire cose che lui non aveva detto e che sicuramente avrebbero confuso i semplici fedeli? Non vale forse per un papa amicus Plato sed magis amica veritas? Quella di Scalfari era, a dirla tutta, una manipolazione del pensiero del papa a uso e consumo dell’intellighenzia progressista. Ma perché il papa, che certo non è uno sprovveduto, si è lasciato manipolare? Va bene una volta, ma le altre?
In una lettera a Scalfari del 2013, tra altre cose, il Bergoglio diceva: “Vengo così alle tre domande che mi pone nell’articolo del 7 agosto. Mi pare che, nelle prime due, ciò che Le sta a cuore è capire l’atteggiamento della Chiesa verso chi non condivide la fede in Gesù. Innanzi tutto, mi chiede se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede. Premesso che — ed è la cosa fondamentale — la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire”.
Questa risposta mi ha sempre incuriosito, perché un papa dovrebbe dire che si segue la coscienza “rettamente formata”, non la coscienza senza accezioni. Un criminale certamente percepisce il bene e il male, in coscienza, in modo diverso da chi criminale non è. Strano che un papa riduca la verità alla coscienza che abbiamo di essa e non la richiami nella sua valenza oggettiva.
Insomma, il rapporto del pontefice con l’anziano giornalista ha mostrato molti punti di criticità, generando una confusione che ha reso ancora più torbide le acque della vita ecclesiale.