A colloquio con il professor Luca Codignola, massimo esperto di storia religiosa del Canada: “Se purtroppo sono stati provati comportamenti illeciti soprattutto di natura sessuale di religiosi cattolici e protestanti (a questi ultimi venne affidato il 40 per cento delle scuole residenziali), non vi è alcuna prova che abbiano avuto luogo uccisioni volontarie di bambini e adolescenti indigeni da parte di religiosi”. Insomma, “che i bambini indigeni siano stati uccisi nelle scuole residenziali cattoliche è assolutamente falso”.
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di Rita Bettaglio
Canada, scuole residenziali per bambini indiani, Chiesa cattolica: ecco gli irresistibili ingredienti per una ricetta in salsa scandalistica. Piatto ricco, ça va sans dire…
Persino il Papa, massima autorità della Chiesa, vicario di Cristo in terra e successore dell’apostolo Pietro, è entrato in questa vicenda (per il vero di dubbia interpretazione) con un viaggio apostolico e pubbliche scuse.
Tutto parte, nel maggio 2021, da un’antropologa, la giovane Sarah Beaulieu, che esamina con un georadar il terreno circostante la ex-scuola residenziale di Kamloops, nella provincia della British Columbia, in Canada, e ipotizza l’esistenza di fosse comuni in cui giacerebbero centinaia di corpi. Subito la notizia acquista risalto su tutti i media e si parla di centinaia di bambini indiani uccisi nelle scuole cattoliche.
Uso il condizionale perché, nonostante l’istituzione, già nel 2008 di una Commission de vérité et réconciliation (CVR), per le scuole residenziali indigene nessuno scavo fu compiuto nei terreni incriminati, né furono consultati gli archivi degli Oblati di Maria Immacolata, ordine religioso cattolico cui il governo canadese affidò molte di queste Indian residential Schools a fine Ottocento.
Ne parliamo con il professor Luca Codignola, già docente universitario in Italia e ora in Canada e negli Stati Uniti, il maggior esperto della storia religiosa del Canada.
Il professore ci spiega anzitutto che “se purtroppo sono stati provati comportamenti illeciti soprattutto di natura sessuale di religiosi cattolici e protestanti (a questi ultimi venne affidato il 40 per cento delle scuole residenziali), non vi è alcuna prova che abbiano avuto luogo uccisioni volontarie di bambini e adolescenti indigeni da parte di religiosi”. Insomma, “che i bambini indigeni siano stati uccisi nelle scuole residenziali cattoliche è assolutamente falso”, afferma Codignola, e ci invita, come ogni buon storico, a contestualizzare e ad attenerci ai fatti noti.
Egli ci rimanda ai numerosi suoi interventi sull’argomento, apparsi già dallo scorso anno sui media, come l’articolo pubblicato da Panorama il 6 luglio 2021, e al suo volume Storia del Canada, scritto insieme a Luigi Bruti Liberati, pubblicato nel 1999 e ristampato nel 2018.
“Le cose vanno viste nel loro contesto”, prosegue. “Bisogna tenere presente che il territorio canadese è immenso e immense erano le distanze, specie coi mezzi di trasporto dell’Ottocento. Il governo canadese riteneva necessario utilizzare i collegi come centri di raccolta per centralizzare i servizi sia di ordine spirituale (battesimi, catechismo, prime comunioni, cresime, estreme unzioni), sia di ordine materiale (nutrimento regolare, medicine, istruzione)”.
Ricordiamo che allora il Canada era una provincia dell’impero britannico, una colonia, e che tuttora fa parte del Commonwealth e riconosce la regina Elisabetta II come sovrana. Se fino ad allora le famiglie indigene erano state invitate a mandare i loro figli nelle scuole residenziali, e molte di loro accettavano tale invito di buon grado, nella speranza di un miglioramento della loro condizione sociale ed economica, “a partire dal 1876 e fino a metà del Novecento (ma Marieval nella provincia del Saskatchewan venne chiusa soltanto nel 1997) il governo federale rese obbligatorio per le famiglie indigene l’invio dei propri figli nelle cosiddette scuole residenziali, finanziate dal ministero federale per gli Affari indiani e gestite dalle chiese cristiane”.
Il professore ritiene che tutto questo sia stato soprattutto “un esperimento di ingegneria sociale andato male”. Infatti fin dal 1839 la legge per la protezione degli Indiani del Canada Superiore (Act for the Protection of the Indians in Upper Canada) imponeva l’affrancamento di ogni indiano maschio di età superiore ai ventuno anni, che parlasse inglese o francese e fosse ritenuto “di abitudini sobrie e industriose, libero da debiti e sufficientemente intelligente da essere capace di gestire i propri affari” (sic).
Abbiamo sentito parlare di «genocidio». Come giudica quest’affermazione?
“L’uso di questo termine è assolutamente fuorviante. Non vi fu alcun tentativo di uccisione volontaria e di massa delle popolazioni indigene giustificato della loro appartenenza a una razza o a una etnia. Anzi, il tentativo del governo canadese fu quello di inserire le popolazioni indigene all’interno della società bianca (anglofona e francofona) fornendo loro una istruzione religiosa e l’avviamento a un lavoro. L’esperimento, come già detto, non portò purtroppo ai risultati previsti dai legislatori”.
A fronte di tutto questo, perché tanto clamore e soprattutto accuse così sproporzionate e non suffragate da fatti e documenti?
“Le motivazioni sono in buona parte politiche ed economiche. Gli indigeni e i loro discendenti potrebbero richiedere e già hanno richiesto enormi risarcimenti, e comunque intendono sfruttare questo clamore per rafforzare la loro identità etnica”, conclude il professore.
Non aggiunge altro, ma a me sorge una domanda.
Se ad attuare questo esperimento d’ingegneria sociale fu il governo canadese, non dovrebbe essere il governo stesso a pagare per i propri errori?
Ma forse è più facile scaricare tutto sulla Chiesa cattolica, magari anche l’onere dei risarcimenti.
Nihil novi sub soli.