Caro Valli,
di Paolo Zolli
Il dramma dei cattolici “tradizionalisti” è scandito da due date: il 7 marzo 1965, quando in Italia fu brutalmente imposta la celebrazione della messa in italiano, e la prima domenica d’Avvento del 1969, quando entrò in vigore il messale riformato di Paolo VI. Il secondo avvenimento fu intrinsecamente più grave, in quanto al testo perfettamente ortodosso del messale tridentino ne veniva affiancato – con un affiancamento che intendeva essere, e di fatto fu, una sostituzione – uno che rappresentava “sia nel suo insieme come nei particolari un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della santa messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino” (card. A. Ottaviani e A. Bacci).
Nella realtà dei fatti la sostituzione non fu però percepita immediatamente e nella sua drammaticità dalla maggior parte dei fedeli, che da quattro anni assistevano a continui cambiamenti e stravolgimenti di un rito che doveva essere per sua natura immutabile. Il piano era stato architettato bene: il primo scossone, quello della traduzione del messale nel 1965, intrinsecamente meno grave, doveva fare in modo che i fedeli non si accorgessero del secondo, cioè della sostituzione del rito.
In quegli anni io non conoscevo se non di vista, avendolo notato alla Fondazione Cini o nelle sale riservate della Biblioteca Marciana di Venezia, don Siro Cisilino, e quindi non saprei dire in che modo egli abbia reagito ai due distinti momenti della sovversione liturgica. So solo, per averlo appreso più tardi che, con spirito che oggi si direbbe “profetico”, la sovversione egli l’aveva intuita da molto tempo. La quasi totalità dei tradizionalisti ha infatti preso coscienza della crisi della liturgia quando essa è scoppiata, cioè in Italia il 7 marzo 1965 e altrove pressappoco nello stesso periodo – ed è allora che incominciano a costituirsi i primi nuclei di resistenza e i movimenti in difesa della liturgia tradizionale -, ma don Siro il vento infido lo aveva fiutato da tempo, cioè dagli anni delle riforme di Pio XII, riforme limitate a pochi aspetti e a pochi, ma significativi, momenti, quali ad esempio il rito della Settimana Santa; riforme che potevano far presagire – e don Siro lo comprese subito – che si sarebbe aperto un varco all’ondata che nel giro di una quindicina d’anni avrebbe sommerso secoli di pietà, di devozione, di fede. Recentemente tutto ciò è stato messo in rilievo dalla pubblicistica tradizionalista e la cosa può avere stupito molti, ma non avrebbe certamente stupito don Cisilino. Don Siro infatti comprese immediatamente a cosa avrebbero portato le progressive novità: dalla sostituzione dell’antichissima festività dei santi Filippo e Giacomo con la sconcertante celebrazione di san Giuseppe artigiano il 1° maggio, alla riforma della settimana santa. Queste cose vanno ricordate non a titolo di aneddoto e curiosità, ma per far comprendere quanto profonda fosse la coerenza di questa splendida figura di sacerdote cattolico, scomparso il 4 marzo 1987.
La battaglia doveva però diventare drammatica quando le disposizioni della Santa Sede e della Conferenza episcopale italiana, in violazione patente di quanto previsto dalla bolla Quo primum di san Pio V e in contrasto persino con la costituzione Sacrosanctum Concilium del Vaticano II, prima imponevano la traduzione in volgare di tutta la messa (il Concilio su questo punto proponeva concessioni ben più limitate), poi tentavano di rendere obbligatoria la nuova messa. Non posso in questa sede diffondermi sull’argomento, ma credo che sia necessario iniziare sin d’ora a raccogliere i materiali per un futuro martirologio di quel clero cattolico che intendeva rimanere fedele all’antica liturgia ed è per questo divenuto oggetto di indebite pressioni e di persecuzioni che rimarranno a perpetua vergogna di chi le ha perpetrate. Don Siro resistette a ogni lusinga e a ogni minaccia. Non una sola volta, dico non una sola volta, egli celebrò la messa riformata (né prima la messa in italiano).
A partire dal 1965 la vita di don Siro non fu tranquilla: dovette lasciare la chiesa dove aveva celebrato sino allora e celebrare “fuori orario”. L'”affare” Lefebvre, scoppiato nel 1976, e col quale don Siro non aveva nulla a che vedere, spinse a maggior cautela (quante cautele nei confronti dei tradizionalisti in un mondo cattolico che assiste imperturbabile a messe scismatiche, buffonesche, vergognose e ingiuriose verso Dio!) i frati che fino ad allora gli avevano dato ospitalità (ospitalità per celebrare, intendo) e don Siro trovò accoglienza presso i benedettini dell’Isola di San Giorgio, dove poteva officiare nella cappella dei Morti, un’accoglienza discreta e cortese, di cui è doveroso dare atto agli ospitanti. L'”affare” Lefebvre aveva però servito a muovere le acque, i tradizionalisti, anche quelli che intendevano mantenere la loro autonomia nei confronti del vescovo francese, incominciarono a contarsi, incominciarono a rendersi conto che non erano isolati. Amici con i quali due anni prima avevo combattuto la santa battaglia contro la legge sul divorzio mi fecero sapere che ogni domenica (e naturalmente anche gli altri giorni) a San Giorgio si celebrava una messa “buona”. Il 10 ottobre 1976, io che già solevo andare ad assistere lì alla messa dei benedettini, che aveva il torto di essere celebrata col rito paolino, ma aveva almeno il pregio di essere cantata in latino e gregoriano, andai alla messa di don Siro; nel mio sempre stringatissimo “diario” a quella data trovo: “Stamani sono andato alle nove e mezza a San Giorgio alla messa di don Siro Cisilino, celebrata secondo il rito di san Pio V”.
Si andò avanti così per circa un anno. Il 24 luglio 1977 festeggiammo il cinquantenario di sacerdozio di don Siro, festa molto modesta, da frequentatori di catacombe, ma il maestro Carlo Durighello – col quale mi aveva messo in contatto l’associazione Una Voce -, da me informato dell’avvenimento, per l’occasione volle venire a suonare l’armonium. Per una di quelle circostanze nelle quali sarebbe difficile non vedere la mano della Provvidenza, Carlo Durighello aveva avuto in concessione dalla Curia per esecuzioni musicali proprio quella chiesa di San Simeon Piccolo, ormai chiusa al culto, nella quale don Siro aveva celebrato per anni, prima della riforma. Nei mesi successivi Carlo Durighello convinse don Siro a riprendere a celebrare a San Simeon Piccolo. So che negli ambienti della Curia veneziana è viva la convinzione – in sé non assurda – che Durighello avesse chiesto la chiesa di San Simeon col pretesto di concerti per poi riaprirla al culto tradizionale, ma in realtà posso assicurare che ciò che avvenne in seguito fu casuale, o meglio fu provvidenziale, ma non era stato premeditato, e che tutto avvenne perché pochi giorni prima del cinquantenario di sacerdozio di don Siro io incontrai casualmente per strada il Durighello e lo informai del fatto. Poi da cosa nacque cosa: le vie della Provvidenza sono infinite. Non saprei dire se già nell’agosto del 1977 avvenne una celebrazione in S. Simon, posso dire solo che si era discusso a lungo se lasciare il nido scomodo ma sicuro di San Giorgio per la nuova e incerta sede, ma posso aggiungere che nel mio diario in data 13 novembre 1977 trovo ancora la messa a S. Giorgio, mentre in data 20 novembre trovo la messa a San Simeon, in concomitanza con la riunione annuale del Consiglio nazionale dell’associazione Una Voce (cfr. Una Voce Notiziario n° 40-41, 1977, pp. 22-23). Poco dopo si riprendeva l’uso dei vespri.
Qualche mese più tardi scoppiava la bufera. Una lettera del cardinale Albino Luciani del 20 febbraio 1978 proibiva “a qualsiasi titolo la celebrazione della messa more antiquo nella chiesa di San Simeone Piccolo, come in tutto il territorio della diocesi” e (grande concessione!) si lasciava a don Siro “la facoltà di celebrare la santa messa more antiquo solo in casa propria”. Che la celebrazione di messe in genere potesse essere esclusa a San Simeon era anche comprensibile, trattandosi di chiesa chiusa al culto e adibita ad altri scopi, assurda era la pretesa di escludere la messa more antiquo e soprattutto di escluderla “in tutto il territorio della diocesi”, in quanto ciò contrastava con i diritti protetti dalla bolla Quo primum. Lo stesso cardinale Luciani si accorse di aver passato il segno, tant’è vero che nella Rivista diocesana del Patriarcato di Venezia, aprile-maggio 1978, p. 167, una nota della Curia, ritornando sull’argomento, ricordava: “Il Patriarca ha di recente proibito che si celebri a San Simeon Piccolo – divenuta, con proteste del parroco, del vicario, di altri fedeli rendez-vous reclamizzato del Movimento Una Voce – la cosiddetta messa di san Pio X”. A parte la finezza del rendez-vous, va notato che il riferimento a “tutto il territorio della diocesi” era qui caduto. Chi volesse ricostruire tutti i particolari della penosa vicenda può andare a rileggere la cronaca L’inutile persecuzione, pubblicata in Una Voce Notiziario (n. 42-43, 1978, pp. 14-19) e ripubblicata da Carlo Belli, Altare deserto (Roma, G. Volpe, 1983, pp. 75-88). Qui basterà ricordare che don Siro, tra alterne vicende, riprese a celebrare a San Giorgio.
La scomparsa di Paolo VI, nel luglio successivo, il breve pontificato di Albino Luciani, la sede doppiamente vacante a Roma e a Venezia, permisero di fatto che si riprendesse la celebrazione a San Simeon. Il fatto di maggior rilievo negli anni successivi fu la celebrazione in quella chiesa di monsignor Lefebvre, il 7 aprile 1980, e la cronaca ne è affidata alla stampa di quei giorni.
Gli anni successivi videro la scomparsa di Carlo Durighello, con conseguenti problemi per la conservazione della chiesa, ma le celebrazioni continuarono regolarmente. Il 2 settembre 1984, al ritorno dalle vacanze, trovai don Siro rapidamente invecchiato: l’età ormai avanzante, le dure battaglie combattute per venti difficilissimi anni, avevano minato la sua forte fibra. Poco dopo egli ritornava nel suo Friuli, dove si spegneva, come abbiamo detto il 4 marzo 1987. E qui si dovette assistere all’ultimo oltraggio, all’ultima vergogna. Il vescovo di Udine, famoso per lasciar celebrare messe in friulano, che stanno a significare una precisa volontà di rottura con Roma, non volle rispettare la volontà e il desiderio del vecchio sacerdote che con la sua fede e la sua cultura aveva costituito uno dei vanti del Friuli cattolico. Avvertito da me telefonicamente e dall’amico Paolo Naccari con telegramma sulla volontà di don Siro di veder celebrati i propri funerali col rito tradizionale o altrimenti con la semplice benedizione e senza messa, monsignor Alfredo Battisti non ha esitato a procedere a una celebrazione “paolina”, confusa, un po’ in italiano e un po’ in latino, col solito altare rovesciato, in cui la concelebrazione, da don Siro detestatissima, contribuiva a creare ulteriore sconcerto.
E così per ultima messa don Siro Cisilino ha avuto quella di Paolo VI, apprezzata dai fratelli ecumenici di Taizé ma a lui non gradita [1]. Ciò ha costituito una gratuita violazione delle ultime volontà di don Siro, un’umiliazione e un dolore per noi, suoi amici, suoi estimatori, suoi compagni nella santa battaglia; quanto al nostro amico, don Siro, tutto ciò non poteva più toccarlo, ormai assunto, lo confidiamo, nella gloria dei cieli, a contemplare la gloria di Dio tra le melodie degli angeli e degli arcangeli, dei cherubini e dei serafini, qui non cessant clamare quotidie una voce dicentes: Sanctus, sanctus, sanctus Dominus Deus sabaoth. Pleni sunt caeli et terra gloria tua. Hosanna in excelsis. Benedictus qui venit in nomine Domini. Hosanna in excelsis.
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[1] A cura delle sezioni di Una Voce di Udine e Venezia, sante messe “tridentine” sono poi state solennemente celebrate in suffragio dell’anima di don Siro Cisilino nel giorno del trigesimo, l’una a Pantianicco ove risiedeva, l’altra a Venezia in quella stessa chiesa di San Simeon nella quale per tanti anni aveva celebrato la santa messa.
da: Una Voce Notiziario, 79-80 (1987), pp. 8-11
Fonte: Una Voce Venetia
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Per chi volesse rendersi conto del clima in cui avvennero le vicende sopra ricordate, ecco lo scambio di lettere avvenuto all’epoca tra i fedeli affezionati alla messa more antiquo e la Curia di Venezia. Anche questa è storia della Chiesa.
L’inutile persecuzione
di Carlo Belli
Le cronache della nostra Associazione devono registrare un nuovo episodio di intolleranza miope e meschina. Dispiace adoperare questi aggettivi perché il poco edificante sopruso si è svolto a Venezia, essendo protagonista il Patriarca di quella Diocesi.
Dallo scorso novembre, nella bella chiesa di San Simeon Piccolo, già abbandonata dalla Curia, lasciata andare in stato miserando e bellamente ripristinata da un gruppo di cattolici veneziani guidati dal maestro Carlo Durighello; gli amici della Sezione veneziana di Una Voce celebravano alla domenica e nelle feste di precetto, la Messa detta di San Pio V, quella di sempre, alla quale partecipavano con commovente devozione e profondo raccoglimento i numerosi soci di Una Voce. Chi ha assistito a quelle funzioni può dire quale edificante spettacolo esse offrivano e quale consolante effusione di speranze veracemente cattoliche da essa derivava.
Evidentemente era proprio questo che doveva apparire intollerabile ai superiori preposti al governo religioso della città, severi custodi della cosiddetta riforma liturgica che tanto sfacelo ha prodotto nella Chiesa. Appena avuta notizia dell’entusiasmante adesione al Rito tridentino da parte di una folla di aderenti alla nostra Associazione, essi mobilitavano un apparato allarmistico fatto di pettegolezzi e di dispetti, finché il Patriarca in persona interveniva inviando in data 20 febbraio ai promotori la lettera che qui riproduciamo:
Il cardinale patriarca
Venezia, 20 febbraio 1978
Ci consta che malgrado i ripetuti avvertimenti continua nella chiesa di San Simeone Piccolo la celebrazione della Messa secondo il rito oggi non più ammesso, e con sempre più numerosa partecipazione di fedeli.
Consta parimenti che si fa propaganda per la presenza a questa Messa: è in nostra mano un foglio ciclostilato con una specie di calendario liturgico ed indicazioni degli orari di celebrazioni varie. È certamente fatto per essere diffuso e ciò conferma che la propaganda si fa a largo raggio.
Essendo tutto ciò in contrasto con quanto convenuto e con le attuali norme liturgiche e di diritto, si dispone quanto segue:
1° È proibita a qualsiasi titolo la celebrazione della Messa more antiquo nella chiesa di San Simeone Piccolo, come in tutto il territorio della Diocesi.
2° Nella stessa chiesa di San Simeone Piccolo è proibita qualsiasi celebrazione liturgica senza il previo accordo e permesso del Parroco e del Vicario della parrocchia di San Simeone Grande.
3° Si concede al rev. Don Siro Cisellino (sic) la facoltà di celebrare la S. Messa more antiquo solo in casa propria.
Le suddette disposizioni entrano in vigore dalla data del ricevimento della presente. Fiducioso che ci si voglia attenere a quanto sopra indicato benedico di cuore.
Albino Card. Luciani
Patriarca
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Nasce da questo illecito provvedimento uno scambio di lettere che renderà anche più palese da una parte il sopruso dell’autorità ecclesiastica, dall’altra la rispettosa ma fermissima protesta dei colpiti.
Il prof. Paolo Zolli, segretario della Sezione veneziana di Una Voce, così rispondeva al Patriarca:
«Una Voce»
Venezia, 26 febbraio 1978
Eminenza Reverendissima, l’Associazione veneziana Una Voce e i cattolici che si riuniscono ogni domenica per assistere alla Messa celebrata secondo il rito di san Pio V nella chiesa di San Simeon Piccolo, hanno appreso con vivo stupore e profonda amarezza la lettera da Lei inviata il 20 febbraio al rev. don Siro Cisilino, con la quale viene interdetta al medesimo – sia pure in forma officiosa e non con un decreto formale – la celebrazione pubblica della Messa more antiquo. Lo stupore e l’amarezza nascono dal fatto che la costituzione apostolica Missale Romanum del 3 aprile 1969, con la quale veniva promulgato il nuovo messale romano, non abroga esplicitamente la bolla Quo primum del 19 [sic, rectius 14 NdR] luglio 1570, con la quale veniva promulgata la Messa cosidetta tridentina o di “Pio V”, la quale può quindi continuare ad essere celebrata da qualunque sacerdote lo desideri.
Non è certo ignoto che alcuni canonisti sostengono parere diverso, ma resta comunque vero, 1) che altri canonisti ritengono tuttora in vigore la Messa cosidetta “tridentina”; 2) che la non abrogazione della Messa tridentina è riconosciuta dalle Notificationes della Sacra Congregazione per il Culto del 20 ottobre 1969 e del 14 giugno 1971 (Acta Apostolicae Sedis, LXI, 1969, pp. 749-753 e LXIII, 1971, pp. 712-715), le quali, nel momento in cui pongono limiti (con quali giustificazioni?) alla celebrazione della Messa suddetta, implicitamente ne riconoscono la non abrogazione.
Ancor maggior stupore e perplessità desta il divieto alla celebrazione della Messa tridentina (come abbiamo detto mai abrogata), da parte della Eminenza Vostra, se si considera che la Eminenza Vostra dimostra larghissima tolleranza di fronte alla celebrazione nella diocesi di riti irregolari (che in qualche caso possono sconfinare nel sacrilegio o almeno nella irreverenza), di fronte alle continuate violazioni delle norme del diritto canonico per quanto riguarda l’abito ecclesiastico da parte di moltissimi sacerdoti della diocesi, di fronte alla mancata ottemperanza da parte di quasi tutti i sacerdoti con cura d’anime, del secondo comma dell’art. 54 della costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium; irregolarità e violazioni di cui la E. V. è senz’altro a conoscenza e che ci riserviamo eventualmente di comunicare alla E. V., se richiesti, e di rendere di pubblico dominio, se necessario.
L’Associazione Una Voce e quanti intendono seguire il rito della Messa tridentina, mentre ribadiscono la propria adesione incondizionata, usque ad effusionem sanguinis, alla Chiesa Cattolica Apostolica Romana, fuori della quale non c’è salvezza, e la propria fedeltà al magistero del Romano Pontefice, affermano la propria volontà di continuare ad assistere alla Messa tradizionale e chiedono umilmente, ma fermamente alla E. V. di non creare ulteriori dolorose e pericolose lacerazioni tra i fedeli, proprio nel momento in cui si guarda con viva speranza ad una unione, sia pur lontana e difficile, fra tutti i cristiani, e di non porre impedimenti – che, come si è detto non hanno fondamenti canonici e che porterebbero soltanto danno alla vita spirituale della diocesi – a quanti intendono rimanere fedeli al rito millenario della Messa di San Pio V, il rito nel quale Santi e Martiri e infiniti vescovi e sacerdoti – ed Ella in primis, Eminenza Reverendissima – hanno celebrato lungo il corso dei secoli con fede sicura e commozione profonda.
Fiduciosi che la E. V. voglia accogliere la nostra richiesta e riconoscere – almeno per ora, in modo anche informale – i nostri diritti, ci dichiariamo disposti a chiarire qualsiasi dubbio sulla nostra volontà e le nostre intenzioni e a riaffermare la nostra fedeltà alla Chiesa cattolica apostolica romana.
prof. Paolo Zolli
segretario di “Una Voce”, Venezia
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Curia patriarcale di Venezia
5 marzo 1978
Egr. Prof., il Patriarca mi ha passato la Sua lettera in data 26 febbraio u.s, e mi prega di darLe una cortese risposta, data la sua assenza da Venezia per motivi di ministero.
L’ordinanza del Patriarca nei riguardi della Messa celebrata more antiquo nella chiesa di San Simeone Piccolo non è contro la celebrazione della Messa che, in forma del tutto privata, può essere concessa ai sacerdoti ultrasettantenni, ma è motivata dal fatto che essa era motivo per riunioni con presenza di una folla di fedeli e per costituire gruppi di azione che non possono essere tollerati in quanto causa di divisione tra i fedeli e di opposizione a norme precise emanate dalla Santa Sede. Ci era stato assicurato da don Siro e dal M° Durighello che la Messa era celebrata a porte chiuse e senza assistenza di fedeli: le cose andavano invece ben diversamente. Dal N° 40-41 di Una Voce e da alcuni ciclostilati, veri e propri calendari liturgici, risulta appunto il contrario di quanto affermato. La disposizione del Patriarca pertanto è pienamente giustificata e non ammette deroghe per alcun motivo.
Per quanto riguarda l’accenno da Lei fatto circa una presunta tolleranza del Patriarca verso forme irregolari di celebrazione, mi permetto dirLe che non risponde a verità: il Patriarca è sempre intervenuto con fermezza a reprimere abusi e deviazioni, sia in forma privata che pubblica e mediante lettere ed articoli sulla Rivista diocesana, e sempre chiamando e rimproverando i trasgressori. Prendo volentieri atto, perché so che è sincera, della sua dichiarazione di fedeltà alla Chiesa e al Magistero ed è proprio in nome di questa fedeltà e della sua rettitudine di coscienza, che oso sperare che Ella voglia uniformarsi a quanto il Patriarca ha disposto per mantenere quella unione di animi che anche Lei certamente desidera sia conservata. Lieto se avrò occasione di poterLa salutare a voce, Le porgo distinti ossequi e anticipo auguri per la Santa Pasqua.
sac. Giuseppe Bosa
Vicario Generale
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«Una Voce»
Venezia, 7 marzo 1978
Rev. Mons. Bosa,
La ringrazio della Sua cortese lettera del 5.3. u.s. e mi permetto di osservare alcune cose:
1) L’ordinanza del Patriarca contro la celebrazione pubblica della Messa more antiquo è priva di fondamenti giuridici per le ragioni che ho brevemente esposto nella mia lettera a S.E. del 26.2.1978; mi riservo comunque di ritornare sull’argomento. L’ordinanza è inoltre contraria alla prassi adottata dai vescovi italiani in situazioni analoghe. Infatti, la S. Messa di san Pio V si è celebrata con pubblico fino a poco tempo fa (cioè fino a quando il celebrante non si ammalò) a Padova, senza trovare opposizione da parte di S.E. mons. G. Bortignon; la celebrazione della Messa suddetta fu sempre per messa, esplicitamente o implicitamente, dal card. Michele Pellegrino che spero nessuno vorrà accusare di lefebvrismo o di reazionarismo; la stessa Messa si celebra in Roma e pare ne sia addirittura prevista esplicitamente la celebrazione nella Basilica di San Pietro.
2) Respingo nel modo più assoluto l’accusa che la Messa in San Simeon Piccolo fosse motivo “per costituire gruppi di azione che non possono essere tollerati in quanto causa di divisione tra i fedeli e di opposizione a norme precise emanate dalla Santa Sede”. I fedeli che assistevano alla Messa desideravano unicamente seguire un rito “canonizzato” da un Papa santo e mai abrogato, che essi ritenevano e ritengono più consono alla propria spiritualità delle Messe orgiastiche accompagnate da suoni di chitarra e berciamenti vari, in cui femmine montano sull’altare e annunziano (si fa per dire) la parola di Dio. Le divisioni tra fedeli vengono eventualmente attuate da gruppi iniziatici (“neocatecumeni”), al cui comportamento e al cui rispetto per il calendario liturgico sarebbe bene che S.E. il cardinale Patriarca prestasse un po’ di attenzione.
3) Contrariamente a quanto Ella afferma, posso assicurare in coscienza che la Messa, dopo i primi colloqui che Ella ebbe con don Siro, veniva celebrata a porte chiuse (all’operazione di chiusura e apertura prima e dopo la Messa provvedeva il sottoscritto).
4) Poiché la Curia ignora le gravi irregolarità liturgiche e canoniche che si verificano nella diocesi, mi vedo costretto a segnalare un breve elenco – che mi riservo di integrare al più presto – di tali irregolarità: a) sabato 25 febbraio 1978 sono entrato nella Chiesa di San Giacomo dall’Orlo, mentre si celebrava la Messa vespertina delle 19, e ho constato con viva sorpresa che il celebrante distribuiva ai fedeli la Comunione in mano. Ho espresso la mia meraviglia a una signora che era presente e dalla risposta ho capito che la cosa era abituale in quella chiesa. Ciò è in contrasto con le disposizioni vigenti (cfr. Rivista Diocesana del Patriarcato di Venezia, 1973, pp. 313-314).
La lettera prosegue facendo i nomi di alcuni sacerdoti che vestono abiti civili anche durante l’insegnamento nelle scuole, in contrasto con le disposizioni della Cei del 20 aprile 1966 (cfr. Rivista Diocesana, citata, 1966, p. 236) e con il C.J.C., e prosegue:
La pregherei quindi di segnalare quanto sopra a S.E. Rev.ma il Cardinale Patriarca, il quale spero vorrà provvedere a far cessare lo scandalo. Nel caso che lo scandalo continuasse mi riservo di far presente la cosa alle competenti Congregazioni romane.
5) Rimane sempre insoddisfatta la mia curiosità di conoscere i nomi di quei sacerdoti con cura d’anime che adempiono alle disposizioni previste dal 2° comma dell’art. 54 della Costituzione Sacrosanctum Concilium, disposizioni che vengono sistematicamente ignorate senza che ciò provochi interventi da parte di S.E. il Cardinale Patriarca. Ricambio, creda, di cuore gli auguri per la S. Pasqua e Le porgo i miei più rispettosi ossequi.
Paolo Zolli
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Curia patriarcale di Venezia
14 marzo 1978
Egr. Prof.
rispondo alla Sua in data 7-3 u. s. e lo faccio ben volentieri perché sento che Lei è una persona retta e si trova nella sofferenza a motivo della fede vissuta intensamente e che le pare di non poter conciliare con i riti della attuale liturgia.
La Messa precedente è stata modificata nella sua formulazione rituale dal Concilio per tutto il mondo cattolico, per renderla più comprensibile, specialmente nella parte delle letture, e per ottenere una partecipazione più attiva e consapevole da parte dei fedeli. Lasciando da parte alcune deviazioni dovute all’imprudenza di alcuni e che sono sempre state rimproverate, non si può negare che il rito attuale sia tale da impegnare maggiormente il popolo che si sente compartecipe dell’azione sacra. La Messa precedente non è stata abrogata, ma è tollerata solo per i sacerdoti ultrasettantenni che celebrino in forma del tutto privata. Quello che avveniva a San Simeone non era certamente forma privata a quanto risulta dal numero 40-41 di «Una Voce» che lei certamente conosce, dove si parla di una folla di fedeli e di incontri regolari e preparati con canti e melodie e propagandati da fogli ciclostilati.
È questo che il Patriarca non permette e che giustifica il provvedimento preso, (sic!). Era inoltre del tutto inopportuno che in una chiesa si tenessero delle celebrazioni liturgiche contemporaneamente a celebrazioni parrocchiali e che di esse non fosse informato il parroco. Lei accusa alcuni sacerdoti di non seguire nel modo di vestire le norme disciplinari della Chiesa: è una dolorosa verità che fa molto dispiacere anche a noi. Non sono mancati severi richiami, ma Lei sa che viviamo in tempi difficili e che anche per la Chiesa non è facile ottenere obbedienza come una volta: fanno male e danno il cattivo esempio, siamo d’accordo! Però Lei sa che non è cosa buona cercare giustificazione delle proprie mancanze nelle mancanze altrui! Lo sbaglio degli altri non mi dà diritto di sbagliare! Ciascuno deve assumere le sue responsabilità senza guardare agli altri il cui malo esempio non può essere preso a scusante.
Per quanto riguarda l’articolo 54, credo che Lei si riferisca all’uso della lingua latina in alcune parti dell’ordinario della Messa: mi consta che in alcune parrocchie questo si fa e la posso assicurare che noi raccomandiamo moltissimo che s’impari a cantare almeno il “Credo” e il “Pater” in latino.
Le ripeto il desiderio sincero di poterLa qualche volta incontrare; in attesa Le rinnovo di cuore i più cordiali auguri per una Pasqua Santa che le invoco ricca di quelle consolazioni spirituali di cui Cristo Risorto è unico principio. Mi creda dev.mo nel Signore.
sac. Giuseppe Bosa
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Questo scambio di lettere meriterebbe un qualche commento se lo spazio ce lo concedesse. Speriamo che si commentino da sé. Balzerà evidente in ogni modo la cocciuta volontà, da parte della Curia, di scivolare sugli argomenti principali, di non rispondere agli interrogativi fondamentali del problema, eludendo dati precisi affidati a citazioni esatte circa le prescrizioni del Concilio; la solita tattica di attribuire al Concilio ciò che il Concilio non ha mai detto, la blanda ammissione che esistono alcune deviazioni (alcune!) dovute alla imprudenza di alcuni (alcuni!), quando il mondo cattolico è ormai una gazzarra di riti uno più bizzarro e irreverente dell’altro: un quadro pauroso di decadimento liturgico e devozionale. Esistono pubblicazioni, specie in Francia, che documentano a centinaia queste “deviazioni”, e sono tutte addirittura raccapriccianti. Altro che alcune deviazioni di alcuni! Non risponde poi il Patriarcato alla documentata accusa del Segretario di Una Voce di Venezia circa la introduzione del perfido uso dell’Ostia consacrata data nelle mani, nella chiesa di San Giacomo, mentre errore gravissimo diventa quello compiuto da chi in San Simeon Piccolo ha assistito con devozione totale alla Santa Messa di sempre! Questa colpa li avrebbe dovuti mettere nella condizione di non poter accusare quelli che sfasciano la Santa Tradizione, pilastro, insieme alla Rivelazione, della religione cattolica… Sta il fatto che la Curia veneziana è rimasta scandalizzata da una circostanza lucente come i raggi del sole, e cioè che la Chiesa di San Simeon Piccolo era affollata di fedeli, piena di una gente stanca di riti bla bla nei quali non trova spazio la meditazione ed è impossibile la comunicazione verticale con Dio. Questo è parso intollerabile alla curia veneziana, perché il rito di oggi deve adeguarsi alla platealità corrente, con parole, anche sante parole, ma imposte per riempire meccanicamente un vuoto che sarebbe assai più santamente riempito dalla meditazione, come era nel Rito di sempre. Parole e canzoni non genuinamente popolari, ma canzonette di piccola borghesia detentrice di quella sottocultura che reca un immenso servizio alla Gerarchia religiosa e politica, perché è proprio di questa sottocultura, travasata ventiquattro ore su ventiquattro dalla Rai TV, che essa si vale per imporre il proprio dominio. Vi è un parallelismo angoscioso, oggi, tra gerarchia religiosa e gerarchia politica, e proprio a esso dobbiamo la frana che vorrebbe travolgerci.
Esaminiamo le lettere della curia veneziana. Non si esce da un dilemma: o sono frutto di una ignoranza sconcertante, ignoranza di reali possibilità salvifiche e più umanamente ignoratio animi; o (e questo crediamo) sono lo specchio di una politica astuta e ottusa insieme, fatto di deprimente conformismo e soprattutto di profondo ossequio ad ea quae sunt in mundo. A un tale livello vogliono far rimanere la Chiesa: al punto massimo di discesa in cui l’hanno portata. Insorgere, è come battere contro un muro.
Inutile porre davanti ai loro occhi le storture, le vere deviazioni, i danni pressoché irreparabili recati dal lassismo tollerato (quando non addirittura incoraggiato), nella nuova liturgia; l’evidente offesa alla sacralità con le teatrali, ridicole concelebrazioni; con la introduzione dei dialetti e più particolarmente con la soppressione di formule, gesti, contegni carichi di simbologia divina durante la celebrazione. Inutile mettere sotto i loro occhi il deserto evidentissimo che tutto ciò ha portato nei conventi, nei Seminari, negli Istituti Religiosi, le vocazioni ridotte quasi a zero… Non fu il Papa regnante a stigmatizzare questa catastrofe, profetando che la Chiesa andava verso l’autodistruzione? Non fu lui a prevedere la morte di Dio nell’animo degli uomini?
Ma è ora di ritornare alla nostra corrispondenza. Contemporaneamente alle lettere scambiate tra la Curia e la Segreteria veneziana di Una Voce, altri nostri Soci intervenivano presso il Patriarca, e primo tra essi il Maestro Durighello con una lunga circostanziatissima lettera in data 28 febbraio, dove rivelava: a) le inesattezze contenute nella lettera del Patriarca che ordina la soppressione della Messa tridentina in San Simeon Piccolo; b) la miserabile orchestrazione scandalistica suscitata contro UNA VOCE da piccoli sagrestanelli della parrocchia, latranti cagnolini a difesa del “nuovo corso”; c) le incredibili misure adottate contro un illustre, anziano sacerdote, reo di aver celebrato la Messa di sempre; d) il gravoso lavoro fatto a spese dello scrivente per sgomberare la chiesa dalla immondizia che si era accumulata durante il lungo abbandono.
Il maestro Durighello così concludeva il suo rapporto:
Supplico l’E.V. di non negare ai fedeli che lo desiderano la gioia di poter assistere alla Messa di sempre: essi, figli devoti di Santa Madre Chiesa, Le saranno infinitamente grati; qualora invece si volesse infierire contro di essi, si potrebbero provocare pericolose lacerazioni al tessuto della Chiesa che oggi sta attraversando tempi calamitosi. Non penso di chiedere molto: almeno di essere tollerati alla stregua di quelle comunità cosidette “spontanee”, alle quali nessuna Autorità inibisce di celebrare i riti più strani coi calendari più diversi nelle Chiese della nostra Diocesi, o alla stregua di quei preti che celebrano nelle case private le cosidette “Cene eucaristiche” sacrilegamente, nel nostro Patriarcato e nessuno pubblicamente li condanna. Noi siamo angosciati nel vedere tutte queste profanazioni impunite. Sono certo che V. Eminenza vorrà dare urgentemente benevolo accoglimento alle suddette istanze: non penso infatti con questo di onerare V. Eminenza di decisioni eventualmente spettanti alla Suprema Autorità Apostolica, poiché sono fiducioso che la Vostra sensibilità saprà trovare la migliore soluzione in materia di opportunità e di convenienza. Mi chino al bacio della S. Porpora
Carlo Durighello
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Nessuna risposta perveniva a questa lettera da parte del Patriarca. Silenzio della gerarchia sui fatti gravissimi denunciati nella stessa Diocesi. La gerarchia non ha anatemi che per coloro che vogliono salvare la Chiesa a tutti i costi, e largisce disprezzo e pene per chi non vuole contribuire a demolirla.
Vivamente preoccupato di una situazione tanto anormale, interveniva da Roma anche il Presidente di Una Voce – Italia inviando al Patriarca di Venezia la seguente lettera:
«Una Voce» ITALIA
Roma, 8 marzo 1978
Eminenza Reverendissima,
siamo al corrente – e questo ci addolora – di un atto di forza promosso contro gli amici veneziani di Una Voce, i quali, raccolti in San Simeon Piccolo, assistono con somma devozione alla Santa Messa, quella che fino a pochi anni fa tutti i Pontefici hanno celebrato per secoli; quella che il Concilio dogmatico di Trento ebbe a stabilire perpetuo valitura comminando pene e anatemi severissimi contro chi avesse osato mutarla.
Fedeli a questi comandamenti, che sono i comandamenti della Chiesa, gli appartenenti a Una Voce mentre assistono terrorizzati allo sfasciamento del Cattolicesimo ad opera di una quotidiana usurpazione di valori attraverso inaudite dissacrazioni, non possono spiegarsi come queste restino impunite e la persecuzione si abbatta invece sull’unica parte della Cattolicità rimasta a guardia della Santa Tradizione. Ciò non può essere opera che di un fanatismo turbolento, sul quale sospendiamo peraltro ogni ulteriore giudizio.
Noi domandiamo – e siamo in numero crescente – che le cosidette riforme, quanto mai concessive riguardo ai riti più stravaganti, riconoscano anche il carattere profondamente devozionale e profondamente rispettoso dell’autorità papale – in quanto Capo della Chiesa cattolica apostolica romana, – con il quale gli aderenti di tutto il mondo alla nostra Associazione si pongono di fronte alla Messa di sempre, senza polemiche, senza risentimenti, giacché illustri teologi, liturgisti e canonisti, tra i quali non pochi eminentissimi Cardinali, hanno riconosciuto che il Rito codificato da S. Pio V non potrebbe in nessun modo essere abolito senza produrre grave scandalo negli stessi ordinamenti della Chiesa.
Ci rivolgiamo quindi alla Eminenza Vostra Reverendissima perché, guardando al di là di generiche, non dogmatiche, anzi transeunti disposizioni, voglia concedere anche agli amici veneziani il diritto di pregare al modo dei nostri padri. Le domandiamo di fermare l’azione inconsulta di qualche povero parroco esaltato da uno zelo assolutamente mal posto. Sa il Cielo quale indimenticabile sensazione di giubilo ritrarrebbe la Eminenza Vostra se si degnasse di assistere alla Santa Messa celebrata in San Simeon Piccolo; quale edificante speranza di cose migliori potrebbe letificare l’Eminenza Vostra, osservando, come noi abbiamo potuto osservare, la profonda devozione, il contegno irreprensibile e la totale dedizione alla Luce divina con la quale i fedeli di sempre assistono alla Messa di sempre.
La persecuzione di costoro non fa che inasprire ulteriormente gli animi dei colpiti in modo così ingiusto e spietato, aprendo la strada verso pericolosissime dissidenze che, come può bene immaginare, noi vogliamo assolutamente evitare.
Per questo confidiamo che la carità cristiana che non può non illuminare la Eminenza Vostra dia un valido segno della propria forza concedendo agli Amici veneziani di compiere le loro devozioni secondo il rito perpetuo valituro della Santa Chiesa Cattolica apostolica romana.
Con questi sentimenti di buona speranza chiedo alla Eminenza Vostra Reverendissima di accogliere il mio profondo ossequio.
Il Presidente
Carlo Belli
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Curia patriarcale di Venezia
Venezia, 31 marzo 1978
Egr. Signore,
il Patriarca mi ha passato la sua lettera in data 8 marzo 1978 u.s. pregandomi darle risposta.
Il provvedimento preso dal Patriarca non è contro il sac. don Cisilino, al quale è sempre concesso di celebrare la Messa more antiquo, ma è motivato dal fatto perché ciò dava occasione alla partecipazione di “una folla di fedeli” (vedi Una Voce numero 40-41 dicembre 1977), e alla celebrazione di altre funzioni con apposito calendario.
Questo non può essere consentito e tanto più è sconveniente in quanto avveniva nell’ambito di una parrocchia e contemporaneamente alle funzioni parrocchiali. Quanto avveniva a San Simeone era contrario alla riforma liturgica voluta dal Concilio ed il Patriarca non poteva permetterla senza mancare al suo dovere di vigilanza sulla attuazione del Concilio: ci sono, è vero anche altre mancanze in senso opposto da parte di preti di avanguardia… ma anche contro questi non sono mai mancati i giusti provvedimenti.
Procuri, egr. Signore, di voler benevolmente comprendere i motivi che hanno mosso il nostro Patriarca a prendere questi provvedimenti che non ammettono deroghe, e di accettarli con quello spirito di fede che balza evidente dalla sua lettera e per il quale vivamente mi compiaccio. Voglia gradire i miei ossequi.
sac. Giuseppe Bosa
Vic. Gen.
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Un muro. Un muro di ostinate inesattezze e menzogne – la nuova liturgia voluta dal Concilio! una barriera di cocciuti luoghi comuni, una volontà decisa di seppellire la Tradizione in nome di una più stretta adesione ai tempi calamitosi in cui il mondo si trova! Non siamo mai stati per la polemica. Le polemiche lasciano il tempo che trovano perché quasi sempre sono fatte di parole. Stiamo ai fatti. La Curia veneziana, con tutto il rispetto che si può sentire per essa in quanto gerarchia ecclesiastica, compiva il grave errore di adeguarsi alle cose del mondo, come purtroppo si fa in altre diocesi. Trema al pensiero che “una folla di fedeli” possa assistere alla Messa di sempre, vale a dire eserciti la propria devozione a ciò che è stato ritenuto santo e sacro per venti secoli, e oggi non dovrebbe esserlo più. Tremava di fronte alla evidenza dei fatti, ma si ostinava in una inutile persecuzione.
È un segno di debolezza. Premono ondate di giovani contro il fortilizio che è stato sconsideratamente eretto. Giovani bene istruiti, bene organizzati, irritati contro rivoluzioni di parole fatte passare per ordinamenti conciliari. Ma chi pone più fede a questo qui-pro-quo? Riconfermiamo il nostro rispetto alla gerarchia patriarcale veneziana, ma nulla c’impedisce di porre un grave dubbio sulla efficienza pastorale del Patriarca.
Fonte: Carlo Belli, Altare deserto. Breve storia di un grande sfacelo, Roma, Volpe, 1983, pp. 75-88; la nota era uscita, a firma Apollodoro, in «Una Voce Notiziario», 42-43 (1978), pp. 14-19.
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Nella foto sopra il titolo, la Santa Messa solenne di requiem celebrata in memoria di don Siro a Blessano di Basiliano (Udine) il 3 marzo 2003
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