Quando monsignor Lefebvre disse: “E allora non capisco più”. E nemmeno noi capiamo
di Rita Bettaglio
29 agosto 1976. A Lille, sua città natale, monsignor Marcel Lefebvre celebra la Santa Messa alla presenza di diecimila persone e pronuncia un’appassionata omelia. Scopo dichiarato dal presule è “dissipare dei malintesi”.
L’ex superiore generale degli Spiritani, vescovo, delegato apostolico in Africa, membro della Commissione centrale preconciliare, assistente al Soglio pontificio, in quell’estate del 1976 è stato da poco sospeso a divinis a causa dell’ordinazione di alcuni sacerdoti nel seminario di Ecône. Egli fa un’analisi dolorosa di ciò che lo ha portato a ignorare il divieto di Roma di ordinare quei sacerdoti. Non manca di far notare che l’opera realizzata, la Fraternità San Pio X e il seminario di Ecône, è “un’opera del tutto simile a quella che ho realizzato per trent’anni”. E il curriculum di monsignor Lefebvre testimonia chiaramente che “Roma considerava il mio lavoro come profittevole per la Chiesa e per il bene delle anime”.
“Penso invece che se in quei tempi io avessi formato dei seminaristi come li si forma oggi nei nuovi seminarii, allora sì che sarei stato scomunicato; se in quei tempi avessi insegnato il catechismo come lo si insegna oggi, allora mi avrebbero chiamato eretico. E se avessi celebrato la Santa Messa come la si celebra oggi, mi avrebbero sospettato di eresia e mi avrebbero posto fuori dalla Chiesa. E allora non capisco più. Qualcosa è proprio cambiata nella Chiesa ed è a questo che voglio arrivare”.
“E allora non capisco più”. Neanche noi, semplici battezzati capiamo più come la Chiesa abbia fatto a diventare quella che noi oggi vediamo, quella che ha portato una divinità pagana come la pachamama in San Pietro.
Monsignor Lefebvre conclude con una proposta di soluzione, proposta che ripeterà al Santo Padre, Paolo VI, l’11 settembre dello stesso anno. Possiamo leggere il resoconto ufficiale dell’udienza concessa a Castelgandolfo nel libro, pubblicato nel maggio 2018 da monsignor Leonardo Sapienza, La barca di Paolo (Duc in altum ne ha tempestivamente parlato qui con un articolo di Aldo Maria Valli): “Sarebbe così semplice che ogni vescovo, nella sua diocesi, mettesse a nostra disposizione, a disposizione dei cattolici fedeli, una chiesa, dicendo loro: ecco questa chiesa è vostra. Quando si pensa che il vescovo di Lille ha donato una chiesa ai musulmani, io non vedo perché non vi sarebbe una chiesa per i cattolici della Tradizione. E in definitiva, la questione sarebbe risolta. Ed è questo che chiederò al Santo Padre se vorrà ricevermi: lasciateci fare, Santissimo Padre, l’esperienza della Tradizione. In mezzo a tutte le esperienze che si fanno attualmente, che vi sia almeno l’esperienza di ciò che è stato fatto per venti secoli!”.
Lo chiese, monsignor Lefebvre in quell’udienza, aggiungendo anche la sua disponibilità a farsi da parte e a rinchiudersi nel seminario di Ecône.
Questa proposta è stata in qualche modo accolta da Benedetto XVI nel 2007 con il motu proprio Summorum Pontificum, e sappiamo che l’atto di giustizia di Benedetto nei confronti della Messa cosiddetta di san Pio V, la dichiarazione che essa non era mai stata abolita, in quanto non abolibile, la facoltà data a ogni sacerdote di celebrare in entrambe le forma del Rito Romano, quella ordinaria (di Paolo VI) e quella straordinaria (san Pio V) hanno portato frutti.
Sebbene l’applicazione delle disposizioni papali sia stata solo parziale (non si procedette, come era logico e doveroso, a insegnare nei seminari entrambe le forme della Messa, vennero erette poche parrocchie personali, parrocchie dove si celebrava esclusivamente in rito antico, ci furono vescovi che rifiutarono di applicare il motu proprio) grazie agli istituti Ecclesia Dei (ora soppressa), i frutti apostolici sono arrivati, copiosi: conversioni, vocazioni, famiglie cattoliche con bambini, scuole.
“Dai frutti li riconoscerete” (Mt 7,16): Nostro Signore nel Santo Vangelo ci affida questo criterio di giudizio.
Ebbene, i frutti sono evidenti, numerosi e in continua crescita. La vicenda del Covid, che ha dato il colpo di grazia alla frequenza ai sacramenti nelle parrocchie, ha portato nuovi fedeli ai centri di Messa antica, fedeli che cercano sacralità, dottrina salda, un chiaro annuncio della salvezza operata da Gesù Cristo e possibile solo nella Sua Chiesa.
Ora, direte voi, il Sommo Pastore e la gerarchia saranno contenti…
Tanto contenti che il 16 luglio 2021, festa della Madonna del Carmine, è stato promulgato un altro motu proprio, Traditionis custodes, che decreta, nelle intenzioni dell’autore, la fine definitiva della cosiddetta forma straordinaria del Rito romano.
Diceva la mia professoressa del ginnasio: ex hoc, ergo propter hoc.
È troppo forte ed evidente il fastidio, il prurito fisico incoercibile di taluni per tutto ciò che è cattolico e romano. Anzi latino, perché, come diceva Guareschi:
“Il latino è una lingua precisa, essenziale. Verrà abbandonata non perché inadeguata alle nuove esigenze del progresso, ma perché gli uomini nuovi non saranno più adeguati a essa. Quando inizierà l’era dei demagoghi, dei ciarlatani, una lingua come quella latina non potrà più servire e qualsiasi cafone potrà impunemente tenere un discorso pubblico e parlare in modo tale da non essere cacciato a calci giù dalla tribuna. E il segreto consisterà nel fatto che egli, sfruttando un frasario approssimativo, elusivo e di gradevole effetto ‘sonoro’, potrà parlare per un’ora senza dire niente. Cosa impossibile col latino”.
Non è solo, però, questione di lingua: è questione di fede, della fede millenaria della Chiesa.
“Fratres, sobrii estote et vigilate” preghiamo ogni sera a compieta. Prima lettera di san Pietro, cap. 5: “Resistite fortes in fide”.
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