Noi e la polis parallela. Strategie di resistenza
Cari amici di Duc in altum, mi fa piacere pubblicare il testo della relazione che ho tenuto ieri al Festival di Fede & Cultura. Approfitto dell’occasione per ringraziare tutte le persone che durante il Festival mi hanno manifestato la loro amicizia. Bello incontrarvi, bello stringervi la mano!
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Riflessioni sulla polis parallela
Festival di Fede & Cultura, 11 settembre 2022
di Aldo Maria Valli
Vorrei condividere con voi alcune brevi riflessioni a proposito di un concetto che venne elaborato parecchi anni fa ma trovo di strettissima attualità. Per parlarne occorre andare alla metà degli anni Settanta del secolo scorso e trasferirci nell’allora Cecoslovacchia.
Il primo personaggio di cui vi voglio parlare si chiama Václav Havel.
Per quelli della mia generazione il nome di Havel non ha bisogno di spiegazioni, ma a beneficio dei più giovani è necessario un breve ripasso. Havel (1936 – 2011) fu uno dei leader del movimento Charta 77, la più importante iniziativa del dissenso in Cecoslovacchia, iniziativa che fu duramente repressa dal governo comunista legato a Mosca ma gettò le basi della liberazione del Paese, tanto è vero che nel 1989, dopo la caduta del Muro di Berlino, furono proprio i promotori di Charta 77 a gestire la transizione verso la libertà, dal partito comunista a istituzioni democratiche, e nel dicembre di quell’anno Václav Havel fu eletto presidente della Cecoslovacchia dall’assemblea federale.
Dunque Havel (che fu prestato alla politica ma era un uomo di lettere: drammaturgo, saggista e poeta), proprio in virtù della sua dolorosa esperienza di persecuzione e dissidenza all’interno di un regime totalitario, teorizzò l’idea di polis parallela, da costruire là dove c’è la negazione della libertà.
Ripetutamente imprigionato dai comunisti, i quali impedirono la diffusione delle sue opere, Havel riteneva riduttiva e forse anche fuorviante la definizione di “dissidente” che in Occidente veniva applicata a lui e a tutti quelli che come lui combattevano il Moloch comunista. In uno dei suoi saggi più famosi, La politica e la coscienza, del 1984, Havel asseriva che i dissidenti come lui, con i loro “sforzi imperfetti” di lottare per la libertà, erano impegnati in un’impresa che in realtà non riguardava solo l’Europa dell’Est, ma il mondo intero e tutti gli uomini. I problemi posti dalla tirannia sovietica, spiegava, erano più profondi dell’opposizione tra socialismo reale e capitalismo. Anche il sistema occidentale, sia pure più produttivo e quindi in grado di assicurare un maggior numero di beni materiali, può schiacciare la persona togliendole di fatto la libertà. Il problema è il degrado morale che si presenta ovunque, all’Est come all’Ovest, sotto il comunismo come nel capitalismo, e che determina la perdita di significato delle nozioni di bene e male. Dunque, sia nel mondo oppresso dalle dittature sia in quello cosiddetto libero il problema è il potere fondato sulla finzione ideologica, che è tale perché evita di mettersi a confronto con la verità
Tutte le ideologie, tutti i sistemi, tutti gli apparati e tutte le burocrazie possono accumulare potere a danno degli individui, e lo fanno deprivandoli della loro coscienza, del loro buonsenso e, quindi, della loro umanità.
Questo è il punto: la perdita devastante della dimensione umana, che può avvenire, e di fatto avviene, sia sotto un regime comunista sia in presenza di libertà di mercato, perché il problema si presenta sempre e comunque “finché la nostra umanità rimane priva di difese” e nessun “marchingegno tecnico o organizzativo” può salvarci.
Havel parlava di “demoralizzazione” della persona in senso letterale: la persona demoralizzata è privata della morale, col risultato di non aver più alcun senso critico e di responsabilità al di fuori della sua mera sopravvivenza, e questo avviene sia sotto il comunismo sia in un sistema di valori capitalistico.
Il sistema conta sempre su questa “demoralizzazione” e quindi lavora per approfondirla.
Havel, lungimirante, ammoniva i vincitori della Guerra Fredda: attenzione, potreste presto assomigliare a quelli che ora sono i vostri nemici sconfitti. E lanciava il suo monito perché ciò che lo preoccupava non era l’ideologia ma la mancanza di morale negli uni come negli altri, una mancanza a causa della quale la persona non viene riconosciuta in quanto soggetto autonomo, dotato di intrinseca e inalienabile dignità, ma sempre come mezzo e strumento.
Ma allora quale può essere la speranza? Quale può essere il “potere dei senza potere” (per citare il titolo di un libro di Havel)? La risposta, diceva Havel, sta nella loro capacità di organizzarsi e resistere “al peso irrazionale del potere anonimo, impersonale e inumano”.
Questa resistenza è tanto più necessaria quanto più forte è il rischio dell’indifferenza morale dei cittadini, così demoralizzati da cercare solo il benessere individuale e da accettare come normale il potere dispotico.
Secondo Havel, la vera via d’uscita dal dispotismo richiede di “vivere nella verità”, il che significa “non solo rifiutare ogni partecipazione nel regime della menzogna, ma anche rifiutare ogni falso rifugio nei piccoli piaceri della vita”. Combattere la menzogna e sapere che si pagherà un prezzo, a volte molto alto. Ecco il punto. Ma si può fare. Dipende dalle motivazioni. Solo l’individuo “legato a qualcosa di superiore, e capace di sacrificare qualcosa della sua vita prospera e banale, in casi estremi anche tutto”, è capace di resistenza.
Nasce qui il concetto di polis parallela, che trovo molto attuale e ci porta a un altro Václav, anche lui cecoslovacco e anche lui membro di Charta 77 assieme ad Havel e ad altri amici. Parlo di Václav Benda, filosofo ma anche matematico, fisico e cibernetico, fondatore nel 1968 del Club dei giovani cattolici, padre di sei figli, autore di un articolo, intitolato appunto La polis parallela, nel quale propose di creare strutture della società civile indipendenti dal potere costituito, “capaci, anche se in misura limitata, di svolgere una funzione utile per tutti”.
Motore della polis parallela dovevano essere le organizzazioni della cultura clandestina. I risultati? Scuole, circoli scientifici, centri di informazione libera, stampa alternativa. Oggi potremmo dire anche siti, blog, social che si distaccano dalla narrativa dominante.
Ovviamente, per aver firmato Charta ’77 Benda venne licenziato e iniziò a fare lavori di fortuna, come il fuochista, il che non gli impedì di diventare portavoce dell’organizzazione. In seguito, arrestato, trascorse quattro anni in prigione, scontati i quali riprese la sua attività clandestina e nel 1985 diede inizio alla pubblicazione di una rivista (anch’essa clandestina) di orientamento cristiano. Inoltre scrisse testi filosofici, favole per bambini e lavori di matematica e cibernetica.
Nel novembre 1989, dopo la liberazione, fondò il Partito cristiano democratico e ne diventò il primo presidente. Nel 1990 fu eletto al Parlamento. Dal 1994 al 1998 fu direttore dell’Ufficio di documentazione dei crimini del comunismo. Nel novembre 1996 diventò senatore. Morì a Praga il primo giugno 1999, a soli cinquantatré anni, dopo una lunga malattia.
Ma torniamo al concetto di polis parallela, che è, appunto, la città dei resistenti, di quelli che Prezzolini avrebbe chiamato gli apoti, ovvero quelli che non se la bevono, quelli che sentono puzza di bruciato soprattutto quando il sistema, con tono paternalistico, li accarezza e li rassicura dicendo che opera per il loro bene. La polis parallela è una comunità (non un semplice insieme su base burocratica) dotata di legami morali, ed è informata e responsabile, quindi in grado di riabilitare, scriveva Benda, valori come “la fiducia, l’apertura, la responsabilità, la solidarietà e l’amore” dando loro anche un’espressione politica. Benda credeva che “un cambiamento autentico, profondo e duraturo per il meglio… dovrà derivare dall’esistenza umana, dalla ricostituzione fondamentale della posizione delle persone nel mondo, della loro relazione con se stessi e tra loro”. Sembrano formule forse un po’ vaghe, ma, se ci pensiamo, egli parlava proprio di ciò che oggi ci stanno togliendo: il senso di comunità, la fiducia reciproca, il senso di responsabilità personale, diciamo pure l’amore, anche nella sua espressione politica, come tutela e promozione della dignità umana. E la polis parallela è proprio quella che, spontaneamente, spesso senza nemmeno conoscerci, senza nemmeno parlarci, abbiamo incominciato a costruire in questi anni.
Voi sapete bene come tutti noi che siamo apoti, noi che non accettiamo la narrativa dominante e rivendichiamo il diritto-dovere di elaborare le nostre idee al di fuori e al di là dei condizionamenti imposti dai persuasori più o meno occulti, veniamo tacciati di essere “contro”, di essere nemici del popolo.
In proposito (e qui torno a Václav Havel e in particolare al suo Il potere dei senza potere), meditiamo su questa riflessione: “È ovvio che uomini che hanno semplicemente deciso di vivere nella verità, di proclamare ad alta voce quello che pensano, di solidarizzare con i cittadini, di creare come vogliono e di comportarsi in sintonia con il proprio io migliore non accettino che questa loro posizione originale e positiva venga definita al negativo… e soprattutto che non accettino di essere definiti come coloro che sono contro questo e quello e non semplicemente come coloro che sono questo e quello”.
Ecco. Noi non siamo contro questo o quello, come vogliono dipingerci. Noi siamo questo o quello. Abbiamo la nostra identità e non vogliamo rinunciarci. Ed è proprio nella polis parallela, da noi costruita ogni giorno, che diamo spessore a tutto ciò in cui crediamo, nella verità, rifiutando sia l’adesione acritica al pensiero dominante sia il disfattismo di quelli che dicono che non c’è niente da fare. Il nemico è il relativismo morale predicato e applicato da tutti coloro che vogliono non servire la persona ma servirsene.
Per quanto riguarda l’informazione, penso di poter dire che il mio piccolo blog Duc in altum (mi scuso per il riferimento personale, ma è a scopo dimostrativo) sia diventato e stia diventando sempre di più espressione della polis parallela, perché è diventata vera comunità all’interno della quale non solo si sviluppano idee ma si allacciano relazioni. Ma è solo un esempio fra i mille che si potrebbero fare.
Václav Benda aveva ben presente l’accusa di ingenuità che poteva essere mossa all’idea di polis parallela. Ma rispondeva dimostrando che sono tanti i settori nei quali questa città può essere costruita.
In campo giuridico chiedeva di tornare dal sistema totalitario a quello liberale, cioè dal principio “è vietato tutto ciò che non è esplicitamente permesso” al principio “è permesso tutto ciò che non è esplicitamente vietato”, e noi possiamo ben dire che, avendo vissuto (con la vicenda Covid) il passaggio dall’idea liberale a quella totalitaria, dobbiamo lavorare perché la prima torni a prevalere.
Parlava poi, assegnando a questo aspetto un ruolo fondamentale, di scuola e cultura, e noi sappiamo bene come la scuola possa essere centro di condizionamento delle menti e come l’home schooling, la scuola fatta in casa, sia sempre più diffuso e come le famiglie si stiano organizzando in questo senso, spesso collaborando fra loro.
Al terzo posto metteva “un sistema di informazione parallelo funzionale e rapido” che coinvolga almeno qualche decina di migliaia di persone (parlava quando internet non esisteva), e voi sapete quanta importanza abbia oggi una tale rete.
Scriveva poi Benda: “Non riesco a immaginare l’ampiezza dei compiti che possono attenderci in futuro nel campo dell’economia parallela; le possibilità attuali non sono molte, eppure è estremamente urgente sfruttarle. Il potere politico ritiene che questo settore sia uno strumento determinante per il controllo arbitrario dei cittadini e quindi lo regolamenta”. E sotto questo aspetto occorre dire che davanti a noi c’è un territorio tutto da esplorare.
In un altro testo (Situazione, prospettive e significato della polis parallela) Benda scriveva: “Il futuro si apre davanti a noi con le minacce della distruzione totale sotto forma di una catastrofe nucleare, di un collasso economico o ecologico, del perfetto e compiuto trionfo del totalitarismo; tuttavia personalmente credo che un modo non meno efficace, straordinariamente doloroso e in breve tempo praticamente irreversibile per far cessare il genere umano o le singole nazioni sarebbe la caduta nella barbarie, l’abbandono della ragione e della cultura, la perdita della tradizione e della memoria”.
Parole su cui vi invito a riflettere perché, secondo me, fotografano proprio quanto sta succedendo sotto i nostri occhi.
A proposito del potere totalitario Benda aggiungeva: “Questo tipo di potere funziona consapevolmente come qualcosa che è continuamente al limite delle proprie possibilità; un solo sassolino che si stacca può provocare una frana”; “Siamo in guerra, dobbiamo combattere!” (rivista eSamizdat, 2007, n. 3)
Ognuno di noi, nel suo piccolo, può essere quel sassolino. Dovrà esserlo.
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