Difesa della proprietà privata e Dottrina sociale della Chiesa
Pubblichiamo la lectio magistalis con cui l’arcivescovo Giampaolo Crepaldi, vescovo di Trieste, ha aperto sabato scorso 1° ottobre la IV Giornata nazionale della Dottrina sociale della Chiesa sul tema “Libertà e proprietà, contro lo Sharing globalista d Davos”, tenutasi a Lonigo (Vicenza) con ampia partecipazione di pubblico proveniente da tutta Italia e organizzata dall’Osservatorio cardinale Van Thuân e da La Nuova Bussola Quotidiana.
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di monsignor Giampaolo Crepaldi
Un diritto perfetto e stabile
La Dottrina sociale della Chiesa ha sempre sostenuto e insegnato che quello alla proprietà privata è un diritto naturale, quindi indisponibile, originario, vero, perfetto e stabile. Possiamo definirlo come il diritto a possedere e utilizzare in modo esclusivo i frutti del lavoro e del risparmio a vantaggio proprio, della propria famiglia e ad utilità sociale.
L’uomo è un’anima incarnata e quindi ha bisogno di possedere di che vivere, senza di cui non potrebbero essere liberi né lui né la sua famiglia. Come tutti i diritti, quello alla proprietà nasce da un dovere, il dovere di mantenersi in vita e di provvedere alla famiglia. Inoltre, si dice essere un diritto naturale sia perché è inscritto nella natura umana sia perché lo riconosce anche la sola ragione.
La proprietà preserva l’uomo dall’anonimato
Questo diritto, quindi, rende libere le persone e le famiglie, le radica in rapporto al reale e permette loro di avere uno spazio vitale, le abitua a vivere in un contesto concreto e ad apprezzare la tradizione preservandole dalla dispersione dell’anonimato, permette la maturazione della responsabilità circa l’uso dei beni, fonda anche la carità mediante l’impegno morale verso il prossimo. Senza l’aggancio alla proprietà, la persona e le famiglie sarebbero solo dei terminali di un sistema politico statale o globale e sarebbero manipolabili, condizionabili e ricattabili.
La proprietà privata è legata al lavoro, al giusto salario, al risparmio, al fisco, al sistema bancario, all’inflazione, alle concentrazioni produttive e finanziarie, al ruolo dello Stato in economia. Tale diritto è quindi centrale nella vita sociale e per questo motivo va inteso correttamente.
Vecchie e nuove minacce
Oggi dobbiamo riscontrare la persistenza di vecchie minacce a questo principio e la nascita di nuove ed inedite. Le vecchie minacce provengono per esempio da un ritorno del comunismo in Occidente, specialmente in America Latina. Emergono però anche nuove minacce che, con sorpresa, si cerca di attuare negli stessi sistemi politici liberali. Le possibilità che la tecnologia, soprattutto digitale, ormai offre al controllo sociale motivato da reali, o più spesso costruite o almeno strumentalizzate, emergenze sociali, fornisce nuovi inquietanti scenari. Non va dimenticato che quando nella storia si è voluto abolire la proprietà privata, si è attuato in realtà niente altro che un suo trasferimento in altre mani. Ci sono oggi forme di limitazione, controllo ed eliminazione della proprietà privata che non ci saremmo mai aspettati. Anche nell’Occidente cosiddetto “libero” si inducono comportamenti tramite premi o punizioni nella gestione delle proprie cose. Tenendo conto di queste novità, mi propongo oggi di fare qualche considerazione su alcuni punti controversi e bisognosi di chiarimento sulla natura del principio del diritto naturale alla proprietà privata. Mi soffermerò sui tre aspetti che la situazione che stiamo vivendo fa emergere con particolare vivezza.
Non è un diritto secondario
Un primo aspetto da chiarire riguarda il rapporto tra il principio della proprietà privata e quello della destinazione universale dei beni. Le incertezze presenti anche nel dibattito attuale, e che possono alimentare politiche sbagliate, riguardano la questione se uno prevalga sull’altro. Il magistero della Chiesa ha sempre insegnato che la proprietà privata “dipende” dalla destinazione universale dei beni. Sarebbe però sbagliato intendere la parola “dipende” come se quest’ultimo fosse originario e la proprietà privata fosse un principio derivato. In questo caso si metterebbe in pericolo il suo carattere naturale, ossia legato alla natura umana, e quindi originario, dato che quanto è essenziale è anche dato da Dio nel momento stesso in cui quella natura è posta nella realtà tramite la creazione. Se la proprietà privata è un diritto originario, come pure insegna il magistero della Chiesa, allora esso non può “dipendere” da altro, c’è fin da subito e in proprio. La parola “dipendere” significa piuttosto che quel principio deve collegarsi necessariamente con l’altro principio della destinazione universale dei beni. La cosa, però, deve avvenire anche in senso inverso, ossia il principio della destinazione universale dei beni deve collegarsi – e quindi “dipendere” – dalla proprietà privata. La dipendenza dell’uno dall’altro non indica una priorità dell’uno sull’altro, ma un rapporto reciproco paritetico e complementare, non accidentale, ma sostanziale, in quanto richiesto dalla natura specifica di ognuno dei due principi. È da evitare la tesi secondo la quale uno sarebbe primario e l’altro sarebbe secondario. Si può dire che l’uno “dipende” dall’altro ma non si può dire che l’uno sia secondario rispetto all’altro.
Proprietà e destinazione universale dei beni
Va anche osservato che questa reciprocità non indica che si tratti di un unico principio. Anche questa impostazione potrebbe creare varie incomprensioni. I due principi vanno tenuti distinti come ugualmente originari, ma istituiti da Dio Creatore “insieme”: non prima uno e poi l’altro, ma insieme, ossia in modo che l’uno non possa stare senza l’altro. Dio non ha dato agli uomini la terra affinché essi ne ricevessero una parte – o quota, o fetta – in proprietà e poi sfruttassero quella porzione ricevuta. Dio ha dato agli uomini la terra perché con il loro lavoro anche la distribuissero tra di loro e la facessero fruttare, con impegno, sforzo e giustizia. Non l’ha data perché poi, in un secondo momento ed eventualmente, la lavorassero, ma l’ha data come oggetto di lavoro e il lavoro l’ha istituito come atto dell’uomo legittimante la sua proprietà. Nello stesso momento Egli ha fondato ambedue i principi per cui non ci può essere destinazione universale dei beni senza il lavoro che legittimi la proprietà.
Non alimentiamo le minacce in atto
Questo mette in guardia da un altro possibile pericolo, ossia di intendere i due principi come strumentali l’uno all’altro. È giusto dire che la destinazione universale dei beni si realizza tramite l’accesso alla proprietà privata. Ma questo non significa che la proprietà privata sia solo lo strumento per realizzare la destinazione universale dei beni. Si tratterebbe di un altro modo per considerarla un principio secondario. La proprietà privata c’è già nella destinazione universale dei beni e viceversa.
Queste precisazioni non riguardano solo definizioni astratte, dato che, invece, sono legate a concrete impostazioni politiche molto diverse tra loro. Nel periodo storico che stiamo vivendo, nel quale, come già osservato, si danno varie minacce alla proprietà privata, affermare il suo carattere secondario rispetto alla destinazione universale dei beni fa correre il rischio di alimentare i tentativi in atto. D’altro canto, una semplice rivendicazione della originarietà della proprietà privata, se non accompagnata dalla affermazione della sua sostanziale complementarità con la destinazione universale dei beni, ci metterebbe nelle mani di una libertà senza verità.
Possesso e uso dei beni
Mi soffermo ora su un secondo aspetto che può prestarsi a fraintendimenti. Mi riferisco alla natura sia personale che sociale del diritto alla proprietà privata e alla famosa distinzione fatta da Leone XIII e sempre confermata dai pontefici, tra possesso ed uso dei beni. Anche in questo caso possiamo trovare strumentalizzazioni inadeguate. Va considerato che questi due aspetti, personale e sociale, sono presenti fin da subito ed essenzialmente nel diritto di proprietà. La dimensione sociale non si aggiunge “dopo” la titolarità e l’’esercizio del diritto, come se questo fosse non-sociale e richiedesse qualche intervento successivo per assumere questa dimensione. Quando la persona, lavoratore dipendente o imprenditore, sviluppa la sua proprietà per il bene della sua persona e della famiglia, crea anche un valore sociale. Ovviamente, ciò non avviene in modo automatico, ma per il fatto che le qualità morali del lavoratore e dell’imprenditore devono già essere all’opera fin da subito nella sua attività di sviluppo della proprietà, e non aggiungersi dopo. Pensare il contrario comporterebbe di separare economia ed etica. Proprio per evitare di pensarla in termini automatici, per cui ogni modo di lavorare e ogni modo di fare impresa sarebbe valido di per sé, la Chiesa invita a distinguere – ma mai a separare – il diritto e l’uso.
Non è lo Stato a dover garantire il buon uso della proprietà
Bisogna però fare attenzione. L’uso non può avere effetti retroattivi sul diritto. Un cattivo uso della proprietà non giustifica la negazione di quel diritto. L’uso sociale, inoltre, come dimensione etica del diritto, riguarda fin da subito quel diritto, non lo giustifica sul piano giuridico, ma lo legittima sul piano morale. Non è ammissibile, per la Dottrina sociale della Chiesa, separare diritto ed uso, facendo intervenire l’uso dopo e indipendentemente dal diritto. Questa impostazione si presterebbe a molte deviazioni nelle politiche della proprietà privata. La principale è che vanga attribuita allo Stato o, in generale, al potere politico, l’attitudine a garantire dall’alto il buon uso della proprietà privata, che invece spetta prima di tutto al lavoratore o all’imprenditore. Essi, infatti, hanno il dovere di mantenere i propri figli e quindi hanno non solo il diritto alla proprietà ma anche alla prima parola sul suo uso. Le imposte patrimoniali, motivate per correggere politicamente il cattivo uso della proprietà privata o per garantirne la dimensione sociale, oppure le confische senza indennizzo, sono pratiche contrarie alla Dottrina sociale della Chiesa perché non rispettano il principio della proprietà privata e perché attribuiscono allo Stato un potere che non ha, ossia di imporre un uso sociale da esso stesso arbitrariamente stabilito.
La concentrazione in poche mani
Come ultimo momento di questo mio intervento desidero spendere qualche parola sulla diffusione partecipativa della proprietà privata e sul suo contrario, ossia la concentrazione della proprietà in poche mani. Il Magistero sociale ha trattato ambedue questi aspetti. Circa il primo, ha sempre affermato che la proprietà va diffusa perché essa è collegata con la famiglia, la libertà e le radici di senso. Questo è il modo migliore per realizzare la destinazione universale dei beni: favorire la partecipazione alla proprietà tramite il lavoro. Circa il secondo, ha sempre messo in guardia dalle tendenze insite nell’economia stessa verso i monopoli e gli oligopoli che mettono le sorti di molti nelle mani di pochi. Le encicliche sociali non fingono di non vedere che esistono alcune esigenze di mercato per ingrandire e fondere tra loro le imprese, onde conseguire una maggiore presenza nel mercato. Dicono, però, che questo fenomeno non va lasciato a se stesso, ma deve essere contemperato e governato dalla valorizzazione della piccola proprietà, della piccola impresa, soprattutto dell’impresa familiare, nella quale capitale e lavoro collaborano naturalmente tra loro. Non dimentichiamo che il principio primo enunciato da Leone XIII nella Rerum novarum era proprio questo, ossia che capitale e lavoro non si scontrassero nel conflitto sociale ma collaborassero tra loro.
Il Deep State globale
Nella nostra epoca la concentrazione del potere economico, finanziario e quindi tecnologico è molto aumentata, con fondate preoccupazioni di tutti. Il campo più evidente è quello del digitale, ove pochi centri di potere si contendono un mercato planetario. Un altro campo evidente è quello della distribuzione e della logistica legate al commercio on-line. Un altro settore su cui vorrei attirare la vostra attenzione è quello delle grandi Fondazioni a spettro globale che, con il paravento di fare filantropia, guidano le politiche mondiali data la loro stretta connessione con i governi degli Stati più potenti. Non posso trascurare la concentrazione di quel potere particolare che si chiama “conoscenza” e che oggi riguarda i centri mondiali impegnati nell’intelligenza artificiale, nella robotica e nel transumanesimo. Qualcuno parla di un Deep State globale, ossia di centri di potere transnazionali non istituzionali, e quindi invisibili, che però condizionano i livelli istituzionali determinandone le politiche. A queste concentrazioni contribuiscono le nuove tecnologie che ormai fanno a meno dello spazio, al quale invece è legata la piccola proprietà. Quando si pensa alla piccola proprietà si pensa al podere e alla casa, realtà in abbandono oggi data la spinta allo sharing globalista.
Simili concentrazioni di ricchezza e di potere contengono molti pericoli. Si va verso l’anonimato delle grandi concentrazioni multinazionali e la nuova corporazione dei manager internazionali, non legati a nessun contesto ma coesi tra loro nella nuova ideologia efficientista, che spesso grava sulle persone dei lavoratori e sulle loro famiglie.
La Dottrina sociale della Chiesa segnala i pericoli di queste tendenze e nello stesso tempo invitare a non perdere i legami “reali” dell’economia con la vita, evitando di cadere nella rete dell’artificio. Le attuali tendenze globaliste non annullano di senso la piccola proprietà, la piccola impresa e l’impresa familiare, come non annullano il significato di nuove forme di cooperazione imprenditoriale organiche e dal basso, anche riscoprendo alcune suggestioni proposte dal Magistero sociale fino a Pio XI e mai negate successivamente. Nella spersonalizzazione e nel conflitto endemico che caratterizza l’attuale vita economica, riprendere queste considerazioni diventa d’obbligo.