Rileggere Marcuse per capire il totalitarismo digitale

di Domenico Talia*

Herbert Marcuse ha pubblicato L’uomo a una dimensione nel lontano 1964. Dopo circa sessant’anni saranno in tanti ad aver dimenticato quel saggio scritto da un influente filosofo del Novecento. Un saggio “militante” che negli anni successivi alla sua pubblicazione in diverse lingue ha avuto un grande successo soprattutto nelle giovani generazioni di allora.

Quel libro è più un pamphlet che un trattato di teoria filosofica e anche per questa sua natura diventò uno dei testi di riferimento del movimento del Sessantotto. Non a caso in quel libro viene identificata una nuova classe rivoluzionaria nel «sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili. Essi permangono al di fuori del processo democratico, la loro presenza prova quanto sia immediato e reale il bisogno di porre fine a condizioni e istituzioni intollerabili.»

L’incipit del libro recita: «Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno del progresso tecnico.» Un inizio che, come il resto del libro, mostra ancora oggi una estrema attualità, nonostante i tanti anni trascorsi dal momento della sua concezione e le tante trasformazioni che le società hanno attraversato. Nell’idea di Marcuse il modello “razionale” del capitalismo industriale ha ridotto la vita dell’individuo essenzialmente al bisogno di produrre e consumare senza lasciare spazi a forme di dissenso, di pensiero libero e di resistenza al potere costituito. Lo spazio di libertà del cittadino consumatore rimane dunque limitato alla futile possibilità di scegliere di consumare prodotti diversi, appiattisce l’uomo alla sola dimensione/funzione di consumatore, più o meno soddisfatto e compulsivo.

Agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso Marcuse scriveva: «La società tecnologica avanzata tende a diventare totalitaria nella misura in cui determina non soltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali.»

E aggiungeva: «La tecnologia serve per istituire nuove forme di controllo sociale e di coesione sociale, più efficaci e più piacevoli.»

Questa ultima parte è oggi più che mai vera e compiuta grazie alla totale affermazione delle straordinarie tecnologie avanzate prodotte dagli umani, delle quali le tecnologie digitali e quelle dell’ingegneria genetica sono l’avanguardia più affermata. È sufficiente pensare alle tante e sofisticate forme di controllo personale e sociale che l’informatica oggi ha messo in campo insieme alle nuove forme di coesione sociale “piacevoli” che la Rete, i social media, gli strumenti di meeting online offrono a ogni latitudine.

Dopo quell’inizio profetico, Marcuse ne L’uomo a una dimensione proseguiva nella sua analisi del ruolo delle innovazioni tecnologiche, sottolineando come esse plasmino «l’intero universo del discorso e dell’azione, della cultura intellettuale e di quella materiale. Entro il medium costituito dalla tecnologia, la cultura, la politica e l’economia si fondono in un sistema onnipresente che assorbe o respinge tutte le alternative.»

Aggiungendo una verità sempre più attuale: «La razionalità tecnologica è divenuta razionalità politica» e «le tecniche dell’industrializzazione sono tecniche politiche; come tali, esse pregiudicano la possibilità della Ragione e della Libertà».

D’altronde oggi è sempre più vero che la scienza e le sue implementazioni tecnologiche assumono una loro indipendenza soprattutto rispetto alla politica e meno all’economia, spingendo le società in una determinata direzione senza la necessità o il vincolo di dover chiedere o dover attendere un avallo democratico. Il potere della scienza e della tecnica non viene dal consenso ma dalla capacità di spiegare, dalla validità pratica, dalla sua efficacia. L’unidimensionalità dell’umano che popola le società a industrializzazione avanzata è dunque per Marcuse uno stato determinato da scelte economiche e di profitto che trovano nelle tecnologie avanzate i loro meccanismi più efficienti.

Dopo oltre mezzo secolo da queste considerazioni, oggi possiamo certamente prendere atto della loro validità, soprattutto in relazione al larghissimo utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e al loro ruolo di regolatori di ogni momento della vita quotidiana delle persone. Il digitale ha consolidato e ampliato la diffusione di quella unidimensionalità umana che Marcuse descriveva nel 1964, in un contesto diverso dall’attuale ma non del tutto estraneo al nostro presente. Il filosofo tedesco aveva ben previsto come le tecnologie (digitali) fossero in grado di plasmare la realtà umana materiale e del pensiero. Costringendo così tutti a fare i conti con un medium governato da pochi e che in grandissima parte, attualmente risponde a logiche di profitto e non di liberazione. Le tecnologie digitali fanno ciò non per loro intrinseca natura, ma perché sono appunto diventate tecnologie politiche che servono il sistema che le ha generate. Un sistema che è vincente nella nostra civiltà, anche se non per questo deve essere considerato come ineluttabile.

Infatti, l’uso della “tecnica digitale” che le grandi imprese informatiche hanno imposto spinge verso la trasformazione della società in un universo totalmente amministrato e regolato automaticamente. Il rischio che in buona parte ha già trovato una sua concretizzazione è che gli umani siano quotidianamente spinti verso quella unidimensionalità marcusiana che prevede/obbliga di/a conoscere l’uso elementare dei meccanismi operativi automatici (e dei dispositivi che li attuano) che garantiscono, o addirittura costituiscono, le relazioni tra gli individui e quindi il funzionamento operativo della società. Questo prevede il modello che attua ogni giorno di più la società calcolante/calcolabile industriale/algoritmica/robotica ormai pienamente realizzata nel nuovo secolo.

L’effetto della larghissima diffusione dei dispositivi digitali, e quindi delle loro logiche procedurali, fa sì che l’individuo, specialmente quello meno consapevole, meno competente, venga facilmente incorporato nella comunità tecnologica di quella che Marcuse chiamava la “popolazione amministrata” che nel suo linguaggio fa riferimento al popolo dominato. A proposito dell’amministrazione sociale, Theodor Adorno, nel suo saggio La crisi dell’individuo un decennio prima scriveva: «Si ha la netta sensazione che per la stragrande maggioranza gli uomini siano stati derubricati da tempo a mere funzioni all’interno del mostruoso macchinario sociale di cui tutti siamo prigionieri. … un sistema di amministrazione, un certo tipo di gestione dall’alto». Quello indicato dai filosofi della Scuola di Francoforte è un nuovo modello razionale che oggi sta diventando sempre più egemone e totalitario. L’umano è incessantemente spinto in quella strettissima dimensione identificata da Marcuse che negli anni si è consolidata e oggi prevede una delega sempre più ampia alle macchine, sottraendo autonomia all’umano che si limita a consumare il digitale e non a governarlo.

I bracci operativi delle gigantesche piattaforme digitali, i loro algoritmi, le app, i portali che erogano merci e servizi senza tregua agiscono da gestori, amministratori della vita di gran parte del genere umano. Di quel genere umano del XXI secolo che rischia di diventare secondario rispetto alla grande macchina digitale in cui è immerso. Un’umanità operativamente potenziata dalle sue protesi digitali ma che, allo stesso tempo, diventa antiquata (come aveva scritto bene Gunther Anders) proprio grazie alla potenza e alla perfezione dei dispositivi artificiali che ha creato. Un’umanità che ha la libertà di scegliere tra pochi modelli di smartphone, tra pochi sistemi operativi, tra pochissimi provider di servizi internet, tra forse “meno di due” giganti di e-commerce dai quale rifornirsi di ogni bene di consumo e che li usa non soltanto per fare meglio e di più, ma anche per evitare di fare tante usuali cose che senza i dispositivi digitale già faceva e che adesso demanda totalmente alle macchine.

Non soltanto la politica può generare totalitarismi, anche la tecnica lo fa quando viene sottomessa ai soli obiettivi di un sistema economico e/o sociale che diventa totalitario e quindi repressivo. Marcuse nel suo saggio in maniera netta chiarisce che ogni tipo di tecnologia è orientata da gruppi sociali al fine di promuovere i propri interessi. Questa condizione elimina ogni asserita neutralità, la quale d’altronde se fosse tale comunque renderebbe le tecnologie disponibili a servire in primo luogo chi occupa le posizioni di potere. La non neutralità della tecnica, dal punto di vista di Marcuse deve servire per ridefinire la tecnologia come strumento orientato all’affermazione della vita umana. Nel descrivere le società capitaliste come totalitarie, Marcuse pensava a una forma di totalitarismo basato «sulla mobilitazione totale di tutti i media per la difesa realtà stabilita.» Questo concetto si può certamente estendere ai media digitali nell’ambito dei quali hanno un ruolo sempre più predominante le grandi piattaforme social che sono governate e controllate dagli algoritmi progettati e resi accessibili (‘regalati’) a tutti dalle grandi società digitali.

In un’altra riflessione oggi molto attuale, Marcuse segnalava che «la democrazia totalitaria lavora con l’integrazione.» È questa la razionalità dei sistemi sociali occidentali che hanno trovato nell’uso intensivo della tecnica e in particolare della tecnologia digitale un nuovo mezzo per attuarla e perfezionarla. La stessa base razionale oggi si dimostra essere dietro una società come quella cinese che non è democratica ma che ha sposato totalmente le logiche del profitto e l’uso intensivo delle tecnologie digitali a servizio dell’economia e del controllo dei singoli individui, operando una integrazione sociale totalitaria che serve a garantire il rafforzamento del potere politico e del suo ruolo nel contesto geo-politico globale. Anche chi governa la Cina comunista ha compreso che i produttori del digitale sono più liberi dei consumatori del digitale, e dunque uno stato totalitario deve impossessarsi di questo grande strumento per consolidare il potere e la crescita economica della nazione. Anche in quella grande nazione, come in Occidente, i messaggi pubblicitari dei prodotti digitali servono a diffondere una libertà molto apparente, una forma di libertà funzionale a chi produce le merci digitali, a chi si prende la vera libertà di definire i loro algoritmi che stabiliscono i confini di scelta di chi consuma quelle merci molto sofisticate, la dimensione entro la quale loro possono agire.

Come la preveggente intuizione di Marcuse aveva indicato, la democrazia permeata di tecnologia digitale tende ad assumere una natura totalitaria che assorbe e integra ogni cosa. Tutto sta dentro un dispositivo informatico, tutto e tutti siamo avvolti in una razionalità automatica che aiuta, semplifica e genera dipendenza. La tecnica figlia dell’automazione algoritmica risolve e normalizza, sa unire efficienza e potere regolatore, integra libertà apparenti e dominio. Spinge l’essere umano a una vita semplificata, a una dimensione sempre più ristretta che prevede un massiccio consumo di algoritmi e sequenze di bit che non possediamo e che non conosciamo. L’analisi di Marcuse sul linguaggio unificato in cui il comportamento unidimensionale si esprime, trova un nuovo e totale riconoscimento nelle forme linguistiche imposte dalle tecnologie digitali. Marcuse parlava di un linguaggio anticritico e antidialettico, caratteristiche che oggi trovano una loro reale occorrenza nelle forme di (in)comunicabilità dense di scambio di dati e povere di senso dialettico supportate dai social media. La dialogicità della Rete e dei suoi strumenti di comunicazione non rappresenta oggi la forma più diffusa di relazione supportata dal digitale. Ad esempio, l’antidialetticità promossa e praticata delle reti sociali che sono realizzate dai social media ha fatto sì che nella pratica quotidiana la gran parte delle interazioni social hanno lo scopo di affermare, di negare, di diffondere notizie non vere, spesso di offendere e soltanto nella parte più avvertita dei suoi utenti di discutere.

Allo stesso modo di Marcuse, il quale non contestava la società tecnologica ma l’abuso economicistico e politico che la società che lui ha studiato faceva della tecnologia, oggi non è utile contestare la presenza delle soluzioni che il digitale offre ma le tante pratiche discriminanti, le spinte verso il razionalismo totalitario, gli abusi che vengono stimolati e attuati per scopi di profitto e/o per scopi di dominio. La scienza può e deve possedere una capacità critica verso l’uso della tecnologia (dei suoi prodotti tecnologici) per renderla più libera e a servizio di persone più libere. Ma questo esercizio critico non può essere trascurato o considerato retorico. Deve essere effettivo e continuo. Tanta parte degli usi delle tecnologie digitali, per come storicamente si stanno determinando, non migliorano/liberano la nostra società, anzi la peggiorano spingendo miliardi di individui a compiere le stesse scelte, gli stessi gesti, a pensare nello stesso modo. La rendono più debole e quindi più controllata, in una parola più totalitaria.

*professore di Sistemi di elaborazione delle informazioni all’Università della Calabria

Fonte: formiche.net

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