Dibattito / Nuovi interventi sulla Chiesa, la testimonianza di monsignor Viganò e il metodo Bergoglio
Caro dottor Valli,
nell’ambito del dibattito innescato dall’articolo di Fabio Battiston e dopo l’intervento di monsignor Viganò vorrei, da semplice fedele, portare il modesto contributo di alcune riflessioni sulla situazione che stiamo vivendo nella Chiesa.
Parto da due ricordi. Il primo è la risposta data da un papa Bergoglio fresco di nomina a un intervistatore che gli chiedeva come avrebbe reagito a fronte di un attentato alla sua persona da parte di un agente dell’Isis (i tempi erano quelli). La risposta fu grosso modo: “Spero che faccia presto, temo il dolore, sono un fifone”. Non male per il capo della Chiesa cattolica, il “dolce Cristo in terra”, guida di milioni di fedeli in tutto il mondo. Anche se lo disse ridendo, la cosa in qualche modo mi ferì profondamente.
Il secondo fu una frase che colpì me così come penso buona parte del mondo cattolico e che non si può facilmente dimenticare, cioè il modo in cui percepiva la dottrina, “dura come la pietra”, ovvero, per lui, inaccettabile.
A partire da questi due ricordi riflettevo sull’attuale pontificato e sulla condizione in cui versa la Chiesa, intesa come uomini di Chiesa, gerarchia ma anche e soprattutto laicato, i semplici fedeli dei quali faccio parte e che sempre più spesso sono, complice una notevole impreparazione dottrinale, proni a molte delle stranezze che in questi anni ci sono state imposte.
Mi sembra che l’azione di Bergoglio e della gerarchia sia legata radicalmente alla caratteristica fondamentale e paradossale del Vaticano II: l’essere stato un “concilio pastorale”, ossimoro che può reggersi e compiersi pienamente soltanto accantonando dogmi e dottrina per lasciar spazio a una prassi il cui campo d’azione è un orizzonte puramente storico, nel quale la retta dottrina è sostituita da quella “misericordia” che tutto accoglie in maniera acritica e indefinita, lasciando cadere infine gli stessi concetti di bene e male (“Chi sono io per giudicare?”).
Il fatto è che anche questa visione genera dogmi, regole e dottrine. Cerca addirittura di riscrivere la storia, “accompagnando” i fedeli ad accettare domani ciò che oggi ripugna. A ben vedere, la stessa azione che gli stati secolari impongono con la propaganda.
Il Vaticano, con il papato bergogliano, è diventato uno di questi centri di propaganda, oserei dire peggiore degli altri dato che usa la propria residua autorità morale per legittimare ciò che non potrebbe mai accettare (vedi aborto e omosessualismo), anche deviando a tal scopo i fini di organismi quali la Pontifica accademia per la vita e l’Istituto per gli studi sulla famiglia voluto da san Giovanni Paolo II.
Ora, come vive questa situazione il comune fedele? Mi sembra di notare che lo scollamento tra vita di fede e quotidiano sia ormai un dato di fatto. La vita di fede non incide che in maniera minima e, possibilmente, indolore sulla quotidianità. Il richiamo, del tutto sentimentale, è ai proclami di questo papato “misericordioso”.
Qualche tempo fa un collega mi faceva notare: “Che grazia avere il miglior papa che si possa desiderare! Non ti impone niente, ti lascia fare tutto quello che vuoi”. Non occorre commentare.
Se questa è la situazione, perché impuntarsi su questioni che ormai sono superate e fastidiose? Ad esempio, perché ostinarsi a obbedire ai dieci comandamenti? Il Nostro, lungimirante, ha già provveduto a derubricarli a norme secondarie. Ma non fu Egli stesso a dichiarare di essere venuto a perfezionare la legge, non ad abolirla? Dettagli di nessun conto per quei seguaci di Bergoglio che, arsi dal sacro fuoco dell’obbedienza, ne accolgono in maniera acritica il verbo.
Da notare che questa obbedienza, sbandierata da quelli che sono contro i “rigidi”, prende spesso la forma di autentico fondamentalismo antidottrinale nei confronti di quanti osano ricordare la dottrina tradizionale e, pur con i propri limiti, il dovere dell’adesione al Vangelo.
Stando così le cose, frequente è ormai l’indifferenza, un lassaiz faire che è il prodromo dell’adesione dal basso all’apostasia in atto al vertice. Oppure c’è l’abbandono della pratica religiosa.
Con tutto ciò la Chiesa, intesa come gerarchia, continua imperturbabile per la sua strada, come se niente fosse. Schiere di parroci, tanto presi dagli “altri”, meglio se migranti, non sembrano darsi troppa pena per il loro gregge confuso e sempre più sparuto, come se la Chiesa altro non fosse che un club culturale a cui aderire o meno, e non il Corpo Mistico di Nostro Signore del quale ogni singola anima è membro vitale, di cui è supremo dovere dei pastori prendersi cura.
Ormai questo dovere viene esercitato in un’altra direzione: la cura del creato, in una concezione quasi collettivistica, mentre la cura d’anime è cosa vecchia e terribilmente individualistica. Di qui anche l’ormai cronica mancanza di confessori. Ma raccolta differenziata e domeniche ecologiche difficilmente accendendono in noi l’amore per Dio.
Bene dice monsignor Viganò quando parla di questa chiesa divenuta istituto satanico. Posto che si riferisce all’istituzione terrena e non al Corpo Mistico, nel quale con ottima ragione intende rimanere, e posto che occorre sempre obbedire a Dio prima che agli uomini, l’arcivescovo continua a richiamare alla fedeltà a Cristo stesso, mettendo in guardia tutti i fedeli di buona volontà circa i pericoli a cui questa gerarchia li sta esponendo.
Credo che la gerarchia ritenga controproducente agire contro il monsignore: non si vuole creare il caso. E non si vuole che troppi riflettori si accendano sul proprio operato. Meglio lasciar pensare a lui come a un isolato che grida nel deserto, nell’indifferenza di tutti. Fortunatamente così non è. Monsignor Viganò costituisce un importante elemento di coesione di tutta quella galassia di fedeli, altrimenti dispersi, che vivono con apprensione e dolore i continui attacchi dell’apostasia dilagante contro la fede e la retta dottrina derivante direttamente dai Vangeli e da duemila anni di tradizione apostolica.
Gran parte della gerarchia cattolica, a partire dal suo vertice, sembra avere ormai una visione esclusivamente umana e orizzontale della vita. Per questo ha successo presso chi odia la fede o manca totalmente di visione trascendente. Ha successo anche presso quei sedicenti cattolici che accettano il mondo e il clima culturale per ciò che sono, in linea con una gerarchia che da circa sessant’anni è preoccupata soltanto di sembrare il meno possibile cattolica. E, dramma nel dramma, trova ad ogni stagione, dal vertice alla base, nugoli di talebani pronti a difendere questa continua rivoluzione, ansiosi di novità da difendere per partito preso, spesso senza valutarne nemmeno la convenienza (non pretendo si chiedano se sia volontà di Dio).
Pastori come monsignor Viganò e pochi, pochissimi altri sono rimasti a tenere il punto, ricordandoci che la via di Cristo è tutt’altra, ed è indicata da quella tradizione che Bergoglio e i suoi seguaci vorrebbero morta e sepolta.
La “pandemia” ha dato il colpo di grazia. Che dire delle chiese chiuse, delle sante Messe sospese? De gel disinfettante al posto dell’acqua benedetta? Del distanziamento, le mascherine, l’abominio della comunione sulle mani e tutta quella macchina che ci ha fatto capire (per chi lo voglia capire) che la chiesa “ospedale da campo”, tanto cara agli estimatori di questo papato, è in realtà una chiesa “campo di rieducazione”?
Noi cattolici dobbiamo far bene i nostri conti, ringraziare Dio per quei pastori che ancora cercano di santificarsi al Suo servizio e pregare, pregare molto per costoro e per noi stessi, affinché impariamo a distinguere i pastori dai ladri. E pregare per la Chiesa, quella santa, vera, fatta di uomini e donne che giorno dopo giorno con le proprie sofferenze, il proprio lavoro, i propri sacrifici, le proprie orazioni continuano a onorare Dio, sperando contro ogni speranza.
R.P.
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Caro Valli,
premesso che non chiudo certamente gli occhi davanti ai problemi dell’attuale pontificato (un solo esempio, la pachamama), così come alla coesistenza di due “persone vestite di bianco” di cui una il 28 febbraio 2013 ha dichiarato pubblicamente reverente obbedienza all’altra, mi permetto di provare a rispondere alla domanda finale posta da Fabio Battiston nel suo articolo Domande in margine alle dichiarazioni di monsignor Viganò.
Racconto quanto è capitato a me e mia moglie sabato 1° ottobre.
Dopo due anni di sospensione per i noti problemi dell’era Covid, quel sabato c’è la Santa Messa di inizio anno scolastico della scuola frequentata dai nostri figli (una scuola parentale – elementare e media – più liceo paritario, con circa 200-250 alunni, attiva da quasi quattro decadi in una media città del nord Italia).
Alla celebrazione, lo ammetto, arrivo molto guardingo, da frequentatore della Messa di san Pio V e strenuo difensore (con moglie e figli) della Santa Comunione solo in bocca. Proprio per questo mi premunisco mandando alla scuola una mail per chiedere la modalità di distribuzione. E con mio stupore in risposta arriva una mail in cui mi si dice che lì i sacerdoti non rifiutano la Santa Comunione a chi desidera riceverla direttamente in bocca.
La mattina del sabato, non fidandoci della cortese risposta, individuiamo uno dei giovani celebranti, ben riconoscibile dall’abito, e chiediamo se sarà possibile comunicarci in bocca. E il sacerdote, serafico, ci risponde che non c’è alcun problema.
Entriamo nella chiesa parrocchiale. Struttura primi anni Settanta molto grande, con “eleganti” (ironico) architravi e pilastri in cemento armato. Pavimento in marmo. Assenza di inginocchiatoi (salvo cinque o sei file davanti all’altare). Vedo la statua dell’Immacolata a fianco del tabernacolo, che a sua volta si trova a lato dell’altare in posizione quasi centrale (mi si accende un lume di ottimismo).
La celebrazione è la classica Messa novus ordo, ma devo ammettere che viene celebrata molto dignitosamente e con attenzione. L’omelia non è troppo “alta” ma per lo meno vi si parla del diavolo e del peccato.
Appena prima della consacrazione penso: “Ora io, mia moglie e i nostri figli ci inginocchieremo sul freddo pavimento in marmo e, come regolarmente capitava nell’altra scuola cattolica dei nostri figli, saremo gli unici e passeremo per i soliti estremisti”.
Invece, dopo il Santo, ecco che tutti, dico tutti i circa quattrocento fedeli si mettono in ginocchio (solo una decina, prevalentemente anziani, rimangono in piedi). Anche gli alunni (elementari, medie, superiori) e le giovani coppie con bambini piccoli: tutti in ginocchio.
Mi porterò nel cuore questa scena come uno dei più bei doni che ho avuto la grazia di ricevere dal Padre Eterno in questi ultimi due e passa anni travagliati.
Citando l’Apostolo (1Cor 10-17), io non sono di Apollo, non sono di Cefa né di Paolo. Io appartengo a Cristo. E io Cristo l’ho visto vivo e presente con la Sua Sposa quel sabato mattina.
È vero che, se amiamo anche noi la Sposa perché amiamo lo Sposo, possiamo essere addolorati per la situazione attuale (situazione non iniziata nel 2013, ma proveniente da un “cammino” pluridecennale), ma è sempre l’uomo che divide o tenta di dividere.
Allora, per non farmi risucchiare nel vortice della divisione, ho adottato da qualche anno a questa parte due accortezze: tengo pronto all’uso il Catechismo della Chiesa cattolica (edizione 1992, “strumento certo e sicuro” come dice san Giovanni Paolo II in Veritatis splendor) e ho imparato a memoria il punto 907, che riprende il 212 comma 3 del Codice di diritto canonico: “In rapporto alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, essi hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa e di renderlo noto agli altri fedeli, salva restando l’integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo inoltre presente l’utilità comune e la dignità della persona”.
Ecco come un laico deve porsi nei confronti di quella gerarchia della Sposa che è stata divinamente voluta: confidando in modo granitico nello Sposo, Nostro Signore Gesù Cristo.
Emanuele Ghirardi
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Caro Valli,
una riflessione circa quanto emerge dal dibattito innescato dall’articolo di Fabio Battiston e dalla risposta del “ministro ordinato”.
In effetti è clamoroso (e notato da tempo) il totale silenzio con cui la gerarchia regnante non risponde alle affermazioni di monsignor Viganò. Un silenzio in realtà perfettamente coerente con la pratica costante dell’attuale gerarchia. Essa infatti procede per affermazioni libere, spesso fra loro contraddittorie, mai ultimative e mai veramente magisteriali.
Bergoglio alterna cenni velati ad asserzioni tanto ferme nel tono quanto inconsistenti nei contenuti, che ammettono tutto e il contrario di tutto, lasciando campo libero alle tendenze più spregiudicate, a volte perfino appoggiate ma sempre in modo tale da poter smentire, di fronte ad eventuali rimostranze, l’appoggio dato.
Questa pratica di parlare riempiendo il vuoto di nulla lascia campo libero a chi è scevro da scrupoli dottrinali e ottiene quindi il risultato voluto: superare la dottrina ricevuta, senza sporcarsi le mani e addirittura senza nemmeno esprimere il desiderio di raggiungere tale risultato.
Ignorare monsignor Viganò significa applicare questa tattica a un fiero oppositore, in quanto il silenzio affievolisce enormemente la sua risonanza e permette di persistere indisturbati nell’ambiguità.
Oltretutto la polverizzazione della dissidenza tradizionalista (che io definire semplicemente cattolica) facilita moltissimo questa tattica, rendendo praticamente inefficaci le denunce delle poche voci che si fanno sentire alte, aperte, autorevoli e coerenti.
Un caro saluto in Cristo
Giovanni
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Caro Aldo Maria Valli,
sono un docente di religione e docente alla Scuola teologica di base della diocesi di Palermo. Vorrei fare alcune osservazioni e porre alcune domande circa il dibattito aperto da Fabio Battiston. È chiaro che la confusione dilaga e che l’autore principale è il padre della confusione, Satana. L’analogia che descrive meglio la situazione attuale mi sembra quella della corda elastica che una volta tesa allontana gli estremi, col rischio di spezzarsi prima di tornare al suo normale equilibrio. La distanza tra passato e futuro aumenta e il presente è a rischio. Il grande carisma della cattolicità, tenere unita in sé le verità di ogni tempo, sembra pian piano perdersi. Io non credo che la condanna del Vaticano II sia compito nostro e nemmeno di un singolo vescovo, ma della Chiesa che convoca un altro Concilio per correggere parzialmente o totalmente quello precedente. Dovere nostro è rimanere fedeli alla dottrina che contempla anche la fede nel sovrannaturale e nella sua opera attraverso il Magistero, quando questo si pronuncia in maniera straordinaria e ordinaria. Detto questo, faccio notare come la mancata risposta a monsignor Viganò da parte dell’autorità sia a dir poco ambigua. Io che vivo e opero a Palermo ho assistito alla scomunica di Alessandro Minutella, che conosco da quando ero bambino (servivamo Messa insieme presso la parrocchia Annunciazione del Signore), a causa dei suoi attacchi al pontefice e al vescovo locale, fino al punto di non celebrare più in comunione con essi e di sostenere che il vero papa è Ratzinger. Ora non mi sembra che le dichiarazioni di monsignor Viganò siano meno gravi e mi chiedo come mai a lui non sia stato riservato lo stesso trattamento di Minutella. La domanda sorge spontanea: non è che per caso il silenzio del papa sia l’arma per far venire fuori i veri nemici della Chiesa? Almeno secondo la sua visione di Chiesa, intendo. Non è un segreto, infatti, che da tempo, ossia da quando Rahner ha affermato che chi non la pensa come i padri conciliari non è cattolico, si sia innestata nella Chiesa la lotta tra i pro-Concilio e i contro-Concilio e in mezzo ai pro l’ulteriore divisione tra pro-rahneriani e anti-rahneriani. In tutto questo non è un mistero che siano sorte illustri figure di santità che hanno accolto il Concilio e celebrato in rito antico ma anche nuovo, vedi Madre Teresa di Calcutta.
Credo che si stiano esasperando le questioni, che si stia tirando troppo la corda da un lato e dall’altro, mettendo a rischio la cattolicità. Personalmente ritengo che alla fine tre punti cardine siano il discrimine tra i cattolici e i non cattolici: la venerazione della Santa Vergine, la fedeltà al primato petrino e per ultimo, ma non meno importante, come diceva Chesterton, per differenziare i cattolici dagli unitaristi da un lato e dagli universalisti dall’altro (due volti di una stessa medaglia), andare a Messa la domenica. In un rito o nell’altro, con Fede ferma nella dottrina e nella morale definitiva.
Essere veramente cattolici non può essere frutto di un’opera solo umana e troppo umana. Sono infatti certo che nonostante le contraddizioni che hanno sempre fatto parte di tutti i Vicari di Cristo, Pietro compreso, ci sia la divina assistenza dello Spirito Santo che tiene viva la Chiesa nel suo lungo processo storico, chestertoniamente parlando, di morti e risurrezioni. Continuiamo ad affermare che extra Ecclesiam nulla salus, consapevoli che Dio può anche salvare per vie a Lui solo conosciute e che superano ogni limite umano storico. Vie che non possono mai escludere la Chiesa Corpo mistico di Cristo.
Non spezziamo la corda.
Fabio Mirino