Pio XI, Pio XII e quel concilio che non ci fu
Oggi, 11 ottobre, ricorre il sessantesimo anniversario dell’apertura del Concilio ecumenico Vaticano II. Ma non fu Giovanni XXIII il primo a ipotizzare l’indizione di un concilio dopo il Vaticano I.
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È importante sapere che un nuovo concilio era previsto molto prima che Giovanni XXIII facesse il grande passo e lanciasse la Chiesa in un’era totalmente nuova, rompendo sotto molti profili con l’eredità tridentina. L’idea all’epoca era talmente nell’aria che Pio XI e poi Pio XII, papi riformatori se mai ce ne fu uno, la presero in considerazione.
Non v’era nulla di sorprendente in questi progetti poiché il precedente concilio, organizzato da Pio IX, dovette essere interrotto a causa dell’invasione degli Stati pontifici e della presa di Roma. Solamente due costituzioni dogmatiche poterono essere votate e ratificate. Non due qualsiasi, però, poiché si trattava della costituzione Dei Filius sui rapporti tra la fede e la ragione e della costituzione Pastor Æternus, che avrebbe dovuto formare un trattato completo sulla Chiesa ma che si contentò, a causa degli eventi, di formulare l’infallibilità pontificia solenne. Restava dunque molto da fare. Tutti erano consapevoli del fatto che fosse necessario portare a termine il primo concilio vaticano e anche di più.
Perché allora si dovette attendere fino al 1962 per convocare un nuovo concilio? Occorre considerare che finché la situazione romana non fu definita – non lo sarà che con i Patti lateranensi del 1929 – i papi si considerarono come «prigionieri» all’interno del Vaticano. Difficile in queste condizioni invitare l’intero episcopato a raggiungere Roma per un concilio. Allo stesso modo la Prima guerra mondiale e poi la Seconda impedirono di concretizzare il progetto.
Il progetto di Pio XI: un concilio sulla regalità di Cristo
Eppure non è sorprendente che Pio XI, il papa dei Patti lateranensi, abbia avuto una tale idea. A dire il vero, non attese l’anno 1929 per parlarne. Lo storico Yves Chiron, nella sua Storia dei concili [1], osserva che, fin dalla sua prima enciclica Ubi arcano (1922), papa Ratti formulò l’idea, pur senza adoperarne la parola. Accennando all’esempio del congresso eucaristico, svoltosi a Roma, scrisse: «Questa assemblea di pastori, alla quale la loro fama e la loro autorità ha dato tanto lustro, Ci ha suggerito l’idea di convocare a tempo debito qui a Roma, capitale dell’universo cattolico, un’assemblea solenne analoga, incaricata di applicare i rimedi più appropriati dopo un simile sconvolgimento della società umana; ed il prossimo rinnovarsi dell’Anno Santo rappresenta un felice auspicio, che conferma ulteriormente le grandi speranze, che Noi riponiamo in questo progetto». Ciò nonostante, ammise chiaramente di non «osare» riprendere i lavori lasciati in sospeso dal Vaticano I: «Tuttavia, Noi non osiamo affatto risolverci nel procedere immediatamente alla ripresa del Concilio ecumenico aperto dal Santo Padre Pio IX – questo ricordo risale alla Nostra giovinezza -, il quale non condusse a termine che una parte, molto importante d’altronde, del suo programma. Il motivo della Nostra esitazione è che Noi vogliamo, come la celebre guida degli Israeliti, attendere, nell’atteggiamento supplichevole della preghiera, che il Dio buono e misericordioso Ci manifesti più chiaramente la propria volontà (Giudici VI, 17)».
Vale forse la pena soffermarsi un istante su questa enciclica chiarissimamente programmatica di Pio XI. Essa indica a modo suo la direzione che avrebbero preso i lavori dei padri conciliari, riuniti a Roma sotto l’autorità del Pontefice romano.
Eletto papa al termine della Prima guerra mondiale, Achille Ratti ricorda le ragioni profonde che hanno condotto a essa: «Ben prima che la guerra incendiasse l’Europa, la causa principale di così grandi disgrazie agiva già con forza crescente a causa degli individui come delle nazioni, causa che l’orrore stesso della guerra non avrebbe mancato di eliminare e di sopprimere, se tutti avessero colto la portata di questi formidabili eventi. Chi dunque ignora la predizione della Scrittura: Coloro che abbandonano il Signore saranno ridotti a nulla (Is I, 28)? E ci è ben noto anche l’avvertimento così grave di Gesù, Redentore e Maestro degli uomini: Senza di me, non potete fare nulla (Gv XV, 5); e quest’altro: Colui che non raccoglie con me, disperde (Lc XI, 23)». L’unico mezzo per ritrovare la pace autentica, che solo Cristo può dare alla sua Chiesa, implicava secondo Pio XI il riconoscimento della regalità di Gesù Cristo, non solamente da parte degli individui, ma anche delle nazioni: «Il giorno in cui gli Stati ed i governi riterranno proprio sacro dovere quello di regolarsi, nella loro vita politica, tanto all’interno quanto all’esterno, secondo gli insegnamenti ed i precetti di Gesù Cristo, allora e soltanto allora essi godranno internamente di una pace vantaggiosa, manterranno relazioni di mutua fiducia e risolveranno pacificamente le controversie che potranno sorgere». Se si fosse riunito, certamente, sarebbe stato il concilio di Cristo Re.
Malgrado la sua prudenza, espressa in Ubi arcano, Pio XI creò nel 1923 una commissione per il concilio vaticano. Essa predispose un primo programma, che comprendeva un monito contro gli errori dottrinali, una definizione dei principi generali sul diritto delle genti (jus gentium) e la relazione tra Chiesa e Stato, la definizione dell’azione cattolica e la sorte delle Chiese d’Oriente unite a Roma (Chiron, pag. 233). Cardinali e vescovi vennero consultati circa l’opportunità di riprendere i lavori del Vaticano I. Emerse una maggioranza a favore. Nonostante tutto, e in particolare nonostante l’elaborazione di 39 questioni da trattare, la commissione fu sospesa sine die nel maggio 1924 e il concilio rimase allo stadio di progetto.
Il progetto di Pio XII: un concilio contro gli errori del tempo
Avendo Pio XI reso l’anima a Dio nel 1939, l’idea riemerse nel periodo d’interregno, presso la grande stampa così come tra alcuni membri della Curia. Soprattutto monsignor Costantini, segretario generale della Congregazione Propaganda Fide, scrisse un pro-memoria in merito. L’orientamento era chiaramente riformatore e mirava in particolare, secondo Yves Chiron, a «estendere l’uso della lingua volgare nella liturgia dei Paesi di missione, agevolare il ritorno dei protestanti nella Chiesa “facendo concessioni di carattere liturgico e disciplinare”, internazionalizzare la curia romana, modificare il regolamento del conclave, rivedere il Breviario, il Martirologio romano ed il Cerimoniale» (pag. 236).
Da parte sua, monsignor Ernesto Ruffini, allora segretario della Congregazione per le università e i seminari, accennò all’idea di un concilio direttamente a Pio XII. Tuttavia si dovrà attendere quasi dieci anni prima che papa Pacelli riparli della convocazione di un concilio e affidi a monsignor Ottaviani della Congregazione del Sant’Uffizio l’incarico di lavorare in questa direzione. Nella mente di Pio XII e dei suoi collaboratori non si trattava di riprendere i lavori del Vaticano I dal punto in cui s’erano arrestati. Per molti erano superati e si doveva rispondere a nuove sfide. Il 15 marzo 1948 fu creata una commissione in questo senso, commissione che creò a sua volta altre cinque commissioni specializzate e che selezionò cinquanta argomenti da trattare. Anche se nuovi temi erano emersi rispetto a progetti o memorie precedenti, la logica complessiva associava la trattazione di temi qualificabili come positivi (relazione Scrittura e Tradizione; Assunzione della Vergine Maria, giurisdizione dei vescovi, ecc.) con la necessità di nuove condanne («le false filosofie», gli errori sul Corpo mistico, il comunismo o i problemi legati alla morale sessuale).
Ma Pio XII rinunciò alla convocazione di un concilio e preferì trattare alcuni temi scelti per mezzo di encicliche come nel caso «di alcuni falsi errori, che minacciano di rovinare i fondamenti della dottrina» con Humani generis o ancora impegnando l’infallibilità pontificia con la proclamazione del dogma dell’Assunzione.
Un gesuita italiano, padre Giovanni Caprile, nel numero dell’agosto 1966 de La Civiltà Cattolica, fornì dettagli importanti sulle ragioni che spinsero papa Pacelli a rinunciare. La durata del concilio – di qualche settimana o senza limiti temporali – divideva i membri della commissione preparatoria, che si rimise al papa. Secondo padre Caprile, queste divergenze andarono ben oltre l’aspetto materiale dell’organizzazione di un concilio e posero più direttamente la questione relativa all’opportunità della sua convocazione. Pio XII tagliò corto abbandonando il progetto e, nel gennaio 1951, decise di metter fine ai lavori preparatori.
Ma una parte di questo lavoro poteva esser svolta tramite le risorse abituali proprie del romano pontefice (encicliche, decreti, ecc.). Non senza aver prima consultato l’insieme dell’episcopato, Pio XII non esitò a ricorrere all’infallibilità pontificia solenne nel caso della definizione del dogma dell’Assunzione della Vergine Maria. Ancor più importante, il papa non esitò a condannare gli errori come il comunismo attraverso il decreto del Sant’Uffizio del primo luglio 1949 o gli errori contemporanei in filosofia o in teologia con l’enciclica Humani generis. Si potrebbero evidentemente moltiplicare gli esempi e valutare gli equilibri tra la definizione della verità, la condanna degli errori e l’incoraggiamento al bene. Un secondo concilio vaticano non avrebbe potuto appoggiarsi al magistero di Pio XII, come fece il primo concilio vaticano, riprendendo ed elevando l’insegnamento di Pio IX.
Ma il buon papa Giovanni…
Alla fine, spettò a Giovanni XXIII convocare il concilio. O piuttosto un altro concilio. Il tipo di «rottura», che avrebbe costituito, venne annunciato non nella bolla Humanæ salutis (25 dicembre 1961), che convocava il concilio, né nel discorso Gaudet Mater Ecclesia per l’apertura dello stesso l’11 ottobre 1962, bensì già all’alba del nuovo pontificato, quindi nel 1958. Nel discorso che pronunciò in occasione della sua incoronazione, Giovanni XXIII, con grande abilità, tracciò l’identikit di ciò che dovesse essere un papa. «Da un pontefice ci si attende soprattutto – dichiarò il nuovo eletto – che sia uomo di Stato esperto, diplomatico accorto, uomo di scienza universale, sapiente nell’organizzare la vita di tutti in comune, insomma un Pontefice di mente aperta verso qualsiasi forma di progresso della vita moderna, senza alcuna eccezione. Eppure, venerabili fratelli e cari figli, tutti coloro che la pensano così si allontanano dal buon cammino che si deve seguire, dall’ideale autentico che dev’essere suo. Di fatto, il nuovo papa, nel corso delle vicissitudini della propria esistenza, può paragonarsi al figlio di Giacobbe, che, alla presenza dei suoi fratelli afflitti dalle più gravi prove, lascia prorompere il suo affetto e si mette a singhiozzare, dicendo loro: “sono io… Giuseppe [2], vostro fratello” (Gen XLV, 4). Il nuovo Pontefice, diciamo, è ancora e soprattutto colui che realizza in sé stesso la splendida immagine evangelica del buon Pastore, che l’evangelista san Giovanni ci descrive [3]».
Dietro gli accenti d’umiltà e il disegno di un nuovo pontificato, che si annuncia già come essenzialmente «pastorale», proprio come vorrà essere il Concilio Vaticano II, appare chiaramente la volontà di non ripetere Pio XII. La personalità di papa Roncalli invitava certamente a questo. Ma non sfuggì a nessuno come il ritratto che aveva tratteggiato – o piuttosto l’anti-ritratto – corrispondesse punto per punto a Pio XII. Il nuovo papa sarebbe stato di altro genere. Così come il suo concilio.
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[1] Perrin, 2012.
[2] Giuseppe è il secondo nome di battesimo del cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, divenuto papa Giovanni XXIII e canonizzato il 27 aprile 2014. Il nuovo papa gioca qui sull’identità tra il suo secondo nome e il personaggio di Giuseppe, figlio di Giacobbe, che, dopo esser stato venduto dai suoi fratelli, è divenuto intendente del re d’Egitto (cfr. Il Libro della Genesi, 37-50).
[3] La Documentation catholique, 23 novembre 1958, Tomo LV, pag. 1474.
Fonte: resnovae.fr
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