di Valentina Ferranti*
L’Occidente, così come è stato pensato, continua a peccare di etnocentrismo. Si siede al centro del mondo, su un trono elevato, e indica altre nazioni come fonte d’ogni disordine.
Il mondo unipolare ha giustappunto un centro e da quel centro cerca di trarre a sé ogni lembo di terra che, per logiche geopolitiche e/o religioso-culturali, basi la sua esistenza su fondamenta differenti.
La questione è complessa e non di facile lettura, per questo motivo l’affrontarla con la dialettica della superficie interpretativa e l’immediatezza d’analisi non giova affatto. Manca totalmente, nella recente vicenda che vede coinvolta l’antica Persia – gigante della storia – la volontà di non interpretare i fatti arbitrariamente o quantomeno di non ridurli a stereotipi a facile uso dei soliti padroni del vociare massmediatico.
Parole e immagini entrano nelle case attraverso strumenti tecnologici e divengono una eco che affina e modella la realtà. Eco, appunto; nella mitologia greca ninfa delle montagne con il vizio del pettegolezzo! Zeus le chiese di intrattenere sua moglie Era affinché lui potesse sfuggire al suo controllo e tradirla. La divina consorte si rese conto dell’inganno e punì la pettegola Eco condannandola a poter ripetere solo le ultime parole di un discorso che udiva o che le veniva rivolto.
Questo è ciò che ci offre l’informazione: una eco distorta, poiché mai obiettiva, che ha il sapore di un discorso spezzato. La vicenda è dolorosa, poiché si parla della morte di una giovane donna, una ragazza iraniana divenuta dopo il 13 settembre scorso emblema di una rivolta al femminile che per sua forma e motivazioni non onora né la vita di Mahsa Amini né quella di tutte le donne vilipese e brutalmente uccise.
Dall’Occidente si è alzato un coro unanime. Voci di donne che in nome di una solidarietà univoca si sono dette indignate e in lotta contro la repubblica islamica e il suo sistema di valori che vede il femminile deprivato d’ogni principale libertà. Non è qui in discussione tale aspetto, bensì lo è il mondo occidentale che rivolge lo sguardo altrove invece di indagare sul suo declino che comprende, proprio sul corpo delle donne che si considerano libere, prigionie d’altro senso. Donne che non sentono il peso della loro precarietà emotiva nel gestire la maternità, lusso per poche e per le più fortunate economicamente. Donne costrette a canoni estetici estenuanti. Donne imbottite di plastica che scelgono la giovinezza a tutti i costi perdendo così la sapienza del tempo. Donne che inneggiano alle quote rosa e non ne leggono l’aspetto offensivo poiché non è il merito che le ingaggia bensì l’appartenenza di genere. Donne che rifuggono un complimento – non un’offesa volgare – poiché lede la loro libertà. Donne che hanno anestetizzato il nucleo della loro essenza sapiente!
A dimostralo un gesto, entrato persino negli edifici scolastici: il taglio dei capelli. Misura della protesta rivolta all’Iran. Ovunque si assiste a tale pratica coronata dalle parole “Donna. vita e libertà”. Parole vuote poiché slogan ben documentato e postato sui vari social. Fenomeno, questo, che vede coinvolte prioritariamente attrici o altre pasionarie del pensiero unico dominante, unitesi al coro di protesta di alcune donne iraniane.
Ebbene, la cassa di risonanza massmediatica unica e indiscutibile, colorata e inclusiva – se la si contesta si è quasi messi al bando – propone questi volti di donne che lottano per le libertà al femminile. Una di queste, che avrebbe voce in capitolo poiché iraniana di nascita, è Masih Alinejad. Giornalista e attivista per i diritti umani, conta ben sette milioni di follower, è ora in esilio negli Stati Uniti e secondo The New Yorker scrive e lavora da un ufficio dell’FBI a New York. È lei che, dalla comoda postazione, dal 2014 si fa portavoce del dissenso femminile in Iran. Il fulcro è una pedissequa campagna contro l’uso del velo, ma non solo. In un’intervista del marzo scorso, nel noto contenitore di divulgazione massificata, ovvero Propaganda Live, ha ovviamente inneggiato alla libertà per le donne ucraine. Ben inteso, non è questo il punto bensì quello che sembra un messaggio pilotato. Da questa parte di mondo, l’Occidente, la giornalista agita le piazze iraniane e si fa portavoce di un mondo unipolare che annulla ogni differenza culturale. Ecco il peccato di etnocentrismo che sulle vicende mediorientali è sempre sinonimo di americanocentrismo. E forse peccano d’ignoranza le numerose donne che come in un sabba nonsense si riuniscono, così come avvenuto al Maxxi di Roma, per tagliarsi ciocche di capelli e così manifestare una solidarietà ad altre donne. Solidarietà selettiva e ben organizzata dal mainstream in vista di una nuova disastrosa rivoluzione colorata in Medio Oriente.
Una vera e radicale rivoluzione – ammesso che il popolo iraniano desideri cambiare i propri costumi socio-religiosi – non nasce per conto di una costruzione mediatica e non è pensabile se pilotata da fuori. È il popolo sovrano che deve decidere il proprio ordinamento. È qui in gioco il diritto all’autodeterminazione delle nazioni. Quella che si sta creando a regola d’arte è la costruzione di un caso, una miccia che scatena una emotività non elaborata e mai ragionata. Solidarietà, dicevamo, che tra l’altro sceglie bene dove direzionarsi ed è di gran corta memoria. Dov’erano queste pasionarie quando una libera pensatrice come Darya Dugina veniva brutalmente assassinata in un attentato terroristico? Il 20 agosto scorso l’auto su cui viaggiava è esplosa. Queste donne, così attente alle altre donne, come hanno potuto tacere su di un simile atto?
Il peso della solidarietà viene gestito dai poteri forti. Le immagini divulgate assurgono a verità assolute. Poco importa se Mahsa Amini sia morta per cause naturali o no. Ormai la miccia è stata accesa. Poco importa se un movimento che non ha nulla di rivoluzionario, poiché conforme al benpensante mondo unipolare, diviene, su basi manipolate, emblema di ogni liberazione del femminile. Femminile ahimè ingabbiato nei suoi specchi riflettenti che moltiplicano superfici.
C’è quindi da condividere ciò che René Guénon scrisse ne La crisi del mondo moderno: «Invece di cercare di innalzarsi fino alla verità, l’uomo moderno pretende di farla scendere fino al proprio livello».
*antropologa, saggista, insegnante