Lettera / La verità, l’obbedienza e le due Chiese

di Aurelio Porfiri

Reverendo don Nicola Bux,

ho letto con vivo interesse il Suo articolo originariamente pubblicato su Il pensiero cattolico e poi ripubblicato su Duc in altum con il titolo La Chiesa è come una madre. Non potremmo ripudiarne l’appartenenza anche se cadesse in una condizione miseranda. Non posso dire che nel Suo articolo ci sia qualcosa con cui mi sentirei di essere in disaccordo, ma da semplice cattolico mi piacerebbe fare qualche glossa per estrinsecare alcune impressioni che ne ho ricevuto.

Lei giustamente richiama la distinzione fra ciò a cui è dovuta assoluta obbedienza e ciò che si può mettere in discussione. Purtroppo, e voglio pensare non per colpa del Pontefice, si è creato un clima per cui si viene ostracizzati pure commentando sul Papa che fa le previsioni del tempo. Ed è pur vero che dall’altra parte c’è chi è pronto a criticare le azioni del Papa a prescindere. In tutti e due i casi si tratta di persone che, per interesse personale o per un triste meccanismo psicologico, vivono di tali comportamenti e desiderano perpetuarli per preservare o la propria posizione personale nella corte o il proprio equilibrio psicologico che si nutre di questo. Cosa c’è di cattolico in tutto ciò? Nulla. Ma purtroppo è questo il tempo in cui viviamo, come diceva monsignor Agostino Marchetto nell’intervista giustamente da Lei ricordata: il problema è nel dialogo intraecclesiale. Come ha dimostrato il nostro comune amico Aldo Maria Valli nel libro Le due Chiese, a cui Lei, don Bux, ha partecipato, oggi ci sono due mondi, due Chiese che sembrano del tutto irreconciliabili. Molti dicono che c’è uno scisma di fatto e probabilmente è vero.

Lei osserva giustamente che la Chiesa non si dovrebbe rinnegare anche se cadesse in una condizione miseranda. Ma vorrei proporre un testo che Lei sicuramente conosce bene, del grande Romano Amerio: “E qui conviene formulare la legge stessa della conservazione storica della Chiesa, legge che è insieme il criterio supremo della sua apologetica. La Chiesa è fondata sul Verbo incarnato, cioè su una verità divina rivelata. Certo le sono date anche le energie sufficienti a pareggiare la propria vita a quella verità: che la virtù sia possibile in ogni momento è un dogma di fede. La Chiesa però non va perduta nel caso che non pareggiasse la verità, ma nel caso che perdesse la verità. La Chiesa peregrinante è da sé stessa, per così dire, condannata alla defezione pratica e alla penitenza: oggi la si dice in atto di continua conversione. Ma essa si perde non quando le umane infermità la mettono in contraddizione (questa contraddizione è inerente allo stato peregrinale), ma solo quando la corruzione pratica si alza tanto da intaccare il dogma e da formulare in proposizioni teoretiche le depravazioni che si trovano nella vita”.

La “condizione miseranda”, che Lei menziona, come si relaziona al tema della verità? Perché penso saremo d’accordo sul fatto che chiunque annunci la menzogna non vada seguito. Allora ci si pone un dilemma a cui è difficile dare una risposta.

Per concludere voglio fare un’osservazione su un tema caro a entrambi, quello della liturgia. La liturgia è stata devastata, la musica sacra non ne parliamo nemmeno. Io non sto mettendo in dubbio le “buone intenzioni” del Concilio, ma mi riferisco a una realtà che è sotto gli occhi di tutti e che Lei pure ha fatto notare. Oggi la stragrande maggioranza dei cattolici pensano che la liturgia siano i testi cambiati a capriccio dal celebrante che infila chiacchiere dove è possibile, canti melensi e schitarrati, un rito a cui è stata negata la bellezza. Io non discuto che la Messa che voleva il Concilio non fosse questa. Ma quella Messa, purtroppo, è come l’amore vero secondo François de la Rochefoucauld: esso è come i fantasmi, tutti ne parlano ma ben pochi li hanno visti.

 

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