De hoc mundo
La “secolarizzazione” dell’autorità come premessa alla libertà religiosa e al dialogo ecumenico teorizzato dal Vaticano II
Regnum meum non est de hoc mundo.
Jo 18, 36
Premessa
La ferita inferta dal Concilio Vaticano II al corpo ecclesiale e – di conseguenza – all’intero corpo sociale è tutt’altro che sanata dopo sessant’anni, e va anzi incancrenendosi con gravissimi danni sotto gli occhi di tutti. I toni entusiastici e autocelebrativi con cui il Sinedrio bergogliano inneggia al Concilio non possono cancellare la rovina che esso ha portato alla Chiesa e alle anime.
In un mio precedente commento sull’autoreferenzialità della “chiesa conciliare” (qui) ho evidenziato alcuni aspetti cruciali di questa crisi di identità, ai quali si è recentemente aggiunto un elemento che ritengo fondamentale nella comprensione dell’indole eversiva del Concilio: mi riferisco alla lettera che Benedetto XVI ha inviato al Rettore dell’Università Francescana di Steubenville (qui) il 7 Ottobre scorso. Ho voluto affrontare più approfonditamente questo tema: esaminare il testo di Ratzinger è indispensabile per identificare le premesse ideologiche e le modalità di compimento pratico della rivoluzione inaugurata dal Vaticano II sul fronte dottrinale, morale, liturgico e disciplinare della Chiesa Cattolica.
La rivoluzione permanente
Ho usato di proposito l’espressione “rivoluzione inaugurata dal Vaticano II” perché mi pare ormai evidente che gli intollerabili eccessi cui indulge Jorge Mario Bergoglio da quasi dieci anni non sono che la coerente applicazione in ambito ecclesiale del principio di rivoluzione permanente teorizzato in ambito sociale da Marx, Engels e Trockij. L’idea di “rivoluzione permanente” nasce dalla constatazione degli ideologi del Bolscevismo che il proletariato non era poi così entusiasta dei metodi comunisti e che, se si voleva diffondere la lotta di classe nel mondo, occorreva forzarla d’autorità e renderla irreversibile: perché solo nella Rivoluzione si compie il χάος che muove l’azione eversiva contro l’ordine sociale.
Analogo modo di procedere è stato fatto proprio dalla chiesa bergogliana: siccome la rivoluzione conciliare non viene accolta con entusiasmo dal “proletariato cattolico”, il Comitato Centrale di Santa Marta ricorre a quella che Lenin chiama «trascrescenza della rivoluzione», estendendo la mentalità del Vaticano II anche in quegli ambiti dottrinali a cui inizialmente nessuno dei suoi fautori avrebbe mai osato metter mano.
Di qui il Sinodo della Sinodalità, ossia l’instaurazione di una sorta di “Concilio permanente”, anzi di «aggiornamento permanente» (qui) che si faccia promotore di presunte istanze della base – il corrispondente ecclesiale del “proletariato” – quali il diaconato femminile e l’«inclusione radicale» di divorziati, concubinari, poligami, coppie omosessuali con figli adottati e aderenti al movimento LGBTQ (qui). Si noterà che queste richieste, tutte totalmente irricevibili sotto un profilo dottrinale e morale fedele al Magistero, non costituiscono un quadro spontaneo e veritiero di ciò che Clero e fedeli domandano dalla suprema Autorità della Chiesa, ma la finzione fraudolenta della propaganda bergogliana, giunta a ricorrere a vere e proprie falsificazioni imposte d’autorità da Bergoglio, sulla falsariga delle manovre già sperimentate al precedente Sinodo sulla Famiglia che partorì il monstrum ereticale chiamato Amoris lætitia.
E anche in questo caso la realtà viene mistificata per adeguarla a forza al proprio pensiero distopico, all’idea presuntuosa di avere una soluzione migliore di quella che la saggezza millenaria della Chiesa o la volontà del suo Fondatore hanno voluto disporre. Siamo alla manipolazione di massa applicata in campo ecclesiale, alle tecniche dei peggiori regimi totalitari oggi adottate tanto dall’élite globalista con la farsa pandemica e la transizione ecologica, quanto dalla setta bergogliana alleata e sostenitrice dell’Agenda 2030 della Fondazione Rockefeller.
La sintesi ratzingeriana di popolo di Dio e Corpo Mistico
La Lettera del 7 Ottobre espone quanto Benedetto XVI aveva già enunciato nel discorso al Parlamento federale tedesco il 22 Settembre 2011 (qui). La prima formulazione della critica all’agostinismo medievale[1] è costituita però dalla dissertazione Popolo e Casa di Dio nella dottrina agostiniana della Chiesa, tenuta a Parigi nel lontano 1954 in occasione del Congresso agostiniano (qui).
Richiamando un’idea sviluppata dalla scuola di Harnack[2], Ratzinger afferma:
«le due Civitates non indicavano alcun organismo societario, ma piuttosto la rappresentazione delle due forze fondamentali della credenza e dell’incredulità nella storia. […] La Civitas Dei non è semplicemente identica all’istituzione della Chiesa. In questo senso, l’Agostino medievale commise un errore fatale, che oggi, fortunatamente, è stato definitivamente superato».
Il tema trattato dalla dissertazione e accennato velocemente dalla lettera è quello della dottrina ecclesiologica del Corpo Mistico, esauritasi secondo l’autore con l’Enciclica Mystici Corporis di Pio XII. Negli ultimi anni Cinquanta e con la malattia del Pontefice si ripropone la rerum novarum cupiditas[3] dei teologi progressisti, per i quali la dimensione soprannaturale della Chiesa era troppo spirituale e andava quindi sostituita con la più seducente locuzione agostiniana di «popolo di Dio», facilmente interpretabile sia in chiave ecumenica per la sua inclusione del popolo ebraico dell’Antica Legge, sia in chiave democratica per i possibili sviluppi sociologici e politici. Ovviamente questa impostazione ideologica rivela il retroterra modernista, perfettamente coerente con il pensiero di Harnack e del suo allievo.
Non sfuggirà che questo tema del venticinquenne Ratzinger giungerà ad essere trattato anche al Concilio, e non stupisce quindi l’orgoglio con cui il Papa Emerito richiama appunto dei temi che sono stati determinanti nella sua formazione teologica e nella sua carriera ecclesiastica e che si trovano messi in pratica dal Successore.
L’impostazione filosofica di Joseph Ratzinger è essenzialmente hegeliana, quindi intrisa di «idealismo assoluto»[4], seguendo lo schema di “tesi-antitesi-sintesi”. In questo caso, tra la tesi cattolica del Corpo Mistico e l’antitesi progressista del popolo di Dio, il Vaticano II e il postconcilio avrebbero finito per accogliere la sintesi teorizzata appunto nella dissertazione del 1954: «la Chiesa è popolo di Dio esistente come corpo di Cristo», in cui Cristo si dà al fedele come Corpo e lo trasforma nel proprio Corpo.
Una tesi ardita, a ben vedere, che rischia di confondere la differenza sostanziale tra Corpo di Cristo veramente presente nella Sua interezza nelle Specie Eucaristiche e Corpo di Cristo realizzato misticamente dall’unione delle membra vive della Chiesa con il suo Capo divino. Questa confusione avrebbe poi consentito a non pochi teologi progressisti o del tutto eretici di ammiccare ai Protestanti grazie alla formulazione imprecisa di “Corpo di Cristo”. Avrebbe parimenti dato l’occasione a Francesco di appropriarsi delle ardite metafore pauperistico-eucaristiche di Raniero Cantalamessa, che definisce i poveri «vero Corpo di Cristo», la cui «presenza reale» si realizzerebbe tra coloro che accogliendo loro accolgono Lui.
Civitas Dei e civitas diaboli
Il problema che si pone è complesso e articolato: esso consta di due aspetti, uno ad intra, relativo a ciò che la “chiesa conciliare” è e vuole essere; l’altro ad extra, relativo al suo ruolo nel mondo e ai rapporti con le altre religioni. L’aspetto ad intra tocca la natura dell’istituzione, cercando di decostruirla in chiave democratica e sinodale col falso pretesto di una ritrovata «più ampia dimensione spirituale» a detrimento del dogma; l’aspetto ad extra implica un’impostazione “ecumenica” del mondo, il dialogo con le sette e le false religioni, la rinuncia all’evangelizzazione dei popoli e la sua sostituzione con un messaggio ecologico e filantropico senza dogmi e senza morale.
L’errore dell’«Agostino medievale», secondo l’Emerito, consisterebbe nell’aver voluto identificare la Civitas Dei con la Chiesa visibile, mentre è evidente che quella valga da modello per la Christianitas, ossia quella società transnazionale in cui le leggi e gli ordinamenti realizzano gli auspici del Salmista: Beatus populus, cujus Dominus Deus ejus (Ps 143, 15).
La dottrina ci insegna che proprio a causa della sua dimensione terrena la Chiesa militante è ad un tempo santa come la Gerusalemme celeste e peccatrice nelle sue membra, infallibile nel suo Magistero e fallibile nei suoi Ministri. E non è nemmeno vero che Sant’Agostino o i suoi commentatori medievali abbiano indicato nello Stato la civitas diaboli; al contrario gli hanno riconosciuto un ruolo provvidenziale nell’economia della salvezza e la necessità che l’autorità civile sia conforme non solo alla Legge naturale, ma anche al Magistero cattolico.
Se vi è una civitas diaboli riconoscibile per la sua ontologica malvagità, essa va identificata nel Nuovo Ordine Mondiale e in tutte quelle organizzazioni, altrettanto transnazionali, che operano per l’instaurazione della sinarchia globalista. Non fa eccezione la setta bergogliana, che non a caso è alleata e sostenitrice di questi criminali eversori.
La critica ratzingeriana all’agostinismo medievale
Un altro gravissimo errore teologico che adultera la vera natura della Chiesa risiede nelle basi essenzialmente laiciste dell’ecclesiologia conciliare, che cercano di adattare la realtà oggettiva al proprio schema ideologico in continua mutazione.
Uso il termine “laicista” perché mi pare evidente che questa visione sia totalmente priva di uno sguardo soprannaturale: quello sguardo totalizzante che sa vedere le realtà terrene sub specie æternitatis non per mera speculazione intellettuale, ma perché è animato dalle Virtù teologali. Nei vaniloqui di questi intellettuali emerge sconsolante una mancanza di passione, di viscere, di sangue: è tutto teorico, tutto costituito per vanificare asetticamente la Redenzione e cancellare l’ordo christianus, appropriandosi dei metodi orwelliani della cancel culture.
Questo errore, insinuato nei testi del Vaticano II e in particolare in Dignitatis humanæ per la libertà religiosa e in Nostra ætate per i rapporti con le religioni non cristiane e l’ebraismo, pone la “chiesa conciliare” in deliberata discontinuità con la Chiesa Cattolica, «per la prima volta», secondo le parole di Benedetto XVI. Il quale afferma:
«Si trattava della libertà di scegliere e di praticare la religione, come anche della libertà di cambiarla, in quanto diritti fondamentali di libertà dell’uomo. Proprio in forza delle sue più profonde ragioni, una tale concezione non poteva essere estranea alla fede cristiana, che era entrata nel mondo con la pretesa che lo Stato non potesse decidere della verità e non potesse esigere nessun tipo di culto. La fede cristiana rivendicava la libertà per la convinzione religiosa e per la sua pratica nel culto, senza con questo violare il diritto dello Stato nel suo proprio ordinamento: i cristiani pregavano per l’imperatore, ma non lo adoravano. Da questo punto di vista si può affermare che il cristianesimo, con la sua nascita, ha portato nel mondo il principio della libertà di religione»[5].
L’equivoco si basa sul duplice significato che viene attribuito alla locuzione “libertà di religione”: nel senso cattolico essa indica la libertà del battezzato di professare pubblicamente e senza ostacoli da parte dello Stato la vera Fede; in quello modernista si riferisce alla libertà astratta di qualsiasi credente di vedersi riconoscere lo stesso diritto e le stesse libertà da parte dello Stato.
Un altro equivoco si ha quando si considera indifferentemente lo Stato che riconosca particolari diritti e privilegi alla Chiesa, rispetto allo Stato che professi una falsa religione o si dichiari “laico” e vieti la professione della vera Religione o la equipari a qualsiasi culto. La Chiesa ha sempre cercato, nel corso dei secoli, di contemperare prudentemente i propri diritti con le diverse situazioni di Nazioni in cui il Cattolicesimo non era tollerato o veniva perseguitato: provocare dei governanti anticattolici alla persecuzione dei propri fedeli sarebbe un atto sconsiderato o imprudente. Nondimeno, il fatto che la Chiesa possa chiedere tolleranza per sé e per i propri fedeli in situazioni di minoranza numerica non implica che pari diritti valgano per altre realtà in cui la Chiesa veda riconosciuto il proprio ruolo istituzionale da uno Stato che si professa ufficialmente cattolico.
Eppure, in nome della “libertà di religione” teorizzata dal Vaticano II, è stata la Gerarchia stessa a chiedere che Nazioni come la Spagna o l’Italia rinunciassero a riconoscerla Religione di Stato, modificando i Concordati e abrogando i privilegi che secoli di Cattolicesimo le avevano riconosciuto a livello giuridico. In quest’ottica, è quindi improprio affermare che «il cristianesimo, con la sua nascita, ha portato nel mondo il principio della libertà di religione», anzi per questa sua diversità ha dovuto affrontare la persecuzione e il martirio dei propri fedeli. I primi Cristiani non chiedevano di ammettere la Santissima Trinità nel Pantheon, ma di esser lasciati liberi di professare il proprio monoteismo che tanto stupiva i Romani. E questa “libertà di religione” essi la rivendicavano per sé, non certo per i pagani, che viceversa cercavano (con successo) di convertire alla vera Fede.
Sembra che ci si dimentichi che la Chiesa è titolare di diritti che le derivano direttamente da Dio, e che spetta allo Stato riconoscerglieli e tutelarli non per una questione meramente quantitativa, ma perché la Religione cattolica è oggettivamente vera e socialmente indispensabile al perseguimento del bene comune. A tal proposito giova citare Leone XIII:
«Se ai mali del mondo v’è un rimedio, questi non può essere altro che il ritorno alla vita e ai costumi cristiani. È un solenne principio questo, che per riformare una società in decadenza, è necessario riportarla ai principi che le hanno dato l’essere, la perfezione di ogni società è riposta nello sforzo di arrivare al suo scopo: in modo che il principio generatore dei moti e delle azioni sociali sia il medesimo che ha generato l’associazione. Quindi deviare dallo scopo primitivo è corruzione; tornare ad esso è salvezza»[6].
Il fatto che lo Stato possa negare il riconoscimento di questi diritti è accidentale e la Chiesa può anche decidere di non imporsi; ma non spetta a lei rivendicare diritti per chi semina l’errore, col solo scopo di ingraziarselo o di dar prova di uno zelo ecumenico che è totalmente estraneo alla sua missione.
La falsificazione della realtà per rendere vera un’idea falsa
A ben vedere, il pensiero tradizionale è molto più attento al ruolo delle persone che rivestono incarichi istituzionali – Papi, Re, prelati e governanti, fedeli e sudditi – che non al concetto astratto dell’istituzione. Perché il Signore è morto per salvare le nostre anime, non degli enti giuridici; e perché la Chiesa ha il compito di convertire tutte le genti, ivi compresi i reggitori delle Nazioni, in modo che anche il ruolo che essi ricoprono sia vivificato dalla Grazia e possa contribuire al maggior bene del popolo che governano.
Questo fantomatico «Agostino medievale» non commise alcun errore, né nell’additare il paradigma soprannaturale cui le Autorità terrene – tanto spirituali quanto temporali – devono conformarsi, né nel teorizzare la subordinazione del potere civile a quello religioso, entrambi sottomessi a quello di Dio.
L’errore fatale è stato commesso piuttosto sul fronte fortemente ideologizzato del neomodernismo ecclesiastico e del progressismo politico, i cui seguaci cercano di attribuire senza alcun fondamento all’agostinismo politico una formulazione dottrinale secondo loro non corrispondente al messaggio dei primi secoli. Sant’Agostino non ha mai sostenuto che l’autorità dello Stato sia in qualche modo svincolata dalla vera Religione. Afferma invece il Vescovo di Ippona:
«Noi [consideriamo felici gli imperatori cristiani] se esercitano il potere con giustizia, se in mezzo agli encomi degli adulatori e agli inchini servili dei cortigiani non s’insuperbiscono e se si ricordano di essere uomini; se pongono il potere al servizio della maestà di Dio per estendere il suo culto; se temono amano e onorano Dio; se amano di più il suo regno in cui non temono di avere rivali; se sono ponderati nell’applicazione della pena e inclini all’indulgenza; se usano la pena soltanto per l’esigenza di amministrare e difendere lo stato e non per sfogare gli odi delle rivalità; se usano l’indulgenza non per lasciare impunita la violazione della legge ma nella speranza della correzione; se compensano una decisione severa che spesso sono costretti a prendere con la mitezza della compassione e con la munificenza; se in essi la lussuria è tanto più contenuta quante maggiori possibilità ha di essere incontrollata; se preferiscono dominare più le brutte passioni che molti popoli e se si comportano così non per la brama di una futile gloria ma per amore della felicità eterna; se non trascurano di offrire al vero Dio il sacrificio dell’umiltà, della clemenza e della preghiera per i propri peccati. Degli imperatori cristiani con tali doti noi affermiamo che sono felici frattanto nella speranza e che in seguito lo saranno di fatto, quando si avvererà l’oggetto della nostra attesa»[7].
Non è infatti possibile che una società costituita da persone che singolarmente hanno il dovere morale di riconoscere la Rivelazione divina e di obbedire ai Comandamenti di Dio e all’autorità della Chiesa, si sottragga al medesimo dovere. Come non è vero che la presenza di altre religioni, numericamente rilevanti a prescindere dall’aberrazione delle dottrine che insegnano, possa legittimare un atteggiamento di rassegnata presa d’atto dell’emarginazione dell’unica vera Religione, soprattutto quando tale perdita di consenso e di appoggio da parte dello Stato e della società è dovuta principalmente all’abdicazione della Gerarchia cattolica sulla base delle deviazioni conciliari.
La sacralità dell’autorità contro le derive totalitarie
La formulazione di Sant’Agostino – che non si esaurisce nel De Civitate Dei ma trova ampia precisazione ortodossa nell’intero corpus dei suoi scritti – va letta in coerenza con la Sacra Scrittura e con il Magistero cattolico, eredi peraltro della visione vicaria dell’autorità civile che fu propria dello stesso popolo di Israele, i cui Re erano rappresentanti dell’autorità di Dio, al pari dei Monarchi cristiani, ad iniziare da Bisanzio.
La sacralità dell’autorità civile, ereditata dalla civiltà greco-romana, era talmente radicata nel mondo cristiano da assumere anche connotazioni cerimoniali proprie dell’Ordine sacro: pensiamo all’unzione con il Crisma, o alle vesti liturgiche dell’Imperatore d’Oriente e degli Zar di Russia, al rituale dell’incoronazione dell’Imperatore del Sacro Romano Impero e alle funzioni prelatizie del Doge di Venezia. Ma anche nell’Italia dei Comuni, apparentemente presentati come più “laici” rispetto alle Monarchie, il concetto della bene ordinata respublica fu sviluppato nel Medioevo in coerenza con la Fede ed esemplificato da Ambrogio Lorenzetti negli affreschi dell’Allegoria del Buon Governo del Palazzo Pubblico di Siena.
Separare artificialmente l’armonia e la complementarietà gerarchica tra autorità spirituale e autorità temporale fu un’operazione sciagurata che creò la premessa, ogniqualvolta venne realizzata, della tirannide o dell’anarchia. Il motivo è sin troppo evidente: Cristo è Re tanto della Chiesa quanto delle Nazioni, perché ogni autorità viene da Dio (Rom 13, 1). Negare che i governanti abbiano il dovere di sottomettersi alla Signoria di Cristo è un errore gravissimo, perché senza la Legge morale lo Stato può imporre la propria volontà prescindendo dalla volontà di Dio, e quindi sovvertendo il κόσμος divino della Civitas Dei per sostituirvi l’arbitrio e il χάος infernale della civitas diaboli.
E qui capiamo come l’una e l’altra civitas costituiscano un modello cui tendere e non una realtà attuata, senza astruse “spiritualizzazioni” né rozzi “realismi”. Capiamo anche come dietro queste speculazioni meramente intellettuali si celi quell’impostazione idealista di matrice hegeliana, che nasce dalla volontà di creare una realtà fittizia da contrapporre a quella voluta da Dio, anzi di imporre un’alternativa prometeica alla Passione del Salvatore, la quale scandalizza proprio per la Croce redentrice e per il fatto che, nell’economia della Redenzione, la croce è trono regale: regnavit a ligno Deus. Credere che il mondo possa non essere cristiano e fare a meno di Dio sopravvivendo a se stesso è una chimera infernale e blasfema.
La secolarizzazione dell’autorità ecclesiastica
D’altra parte, chi voleva dare una patina teologica alla laicità dello Stato come necessaria conseguenza della “libertà di religione” teorizzata per i singoli, doveva necessariamente negare le premesse dottrinali della Scrittura, dei Padri e del Magistero, appellandosi ad una presunta corruzione del vero messaggio cristiano ad opera dei pensatori medievali. Come si vede, la deviazione dottrinale si basa sempre sulla menzogna, sulla falsificazione storica e sull’ignoranza degli interlocutori ai quali si vogliono imporre i propri errori.
Le conseguenze sono devastanti e sotto gli occhi di tutti: se una societas perfecta non è tenuta a riconoscere come proprio Sovrano il Signore, ciò deve valere necessariamente anche per la Chiesa terrena, la cui Gerarchia può quindi decidere di esercitare la propria autorità per mantenere semplicemente il potere e non nei ben definiti confini stabiliti dal suo divino Fondatore. Non è un caso che il postconcilio abbia fatto di tutto per cancellare la dottrina della Regalità di Cristo, manomettendo a tal scopo anche i testi liturgici della festa istituita da Pio XI nel 1925 con l’Enciclica Quas primas.
Ratzinger parla di «mia ecclesiologia», affermando che né la Chiesa può dirsi Civitas Dei, né può presumere di considerare ancora attuale la dottrina che Pio XII definì nell’Enciclica Mystici Corporis del 1943. Scrive l’Emerito: «Ma la completa spiritualizzazione del concetto di Chiesa, da parte sua, manca del realismo della fede e delle sue istituzioni nel mondo. Così, nel Vaticano II la questione della Chiesa nel mondo è diventata finalmente il vero problema centrale». Così centrale, da modificare la dottrina cattolica pur di apparire à la page, dialogante, inclusiva, filantropica. Ma fu proprio la perdita del proprio ruolo di Domina gentium a condurre la “chiesa conciliare” ad una posizione rinunciataria, marginale, di irrilevanza sociale: è il pretium sanguinis di cui essa si è macchiata tradendo il mandato di Cristo e lasciandosi inquinare dalle idee del mondo. E se la Chiesa fino a Pio XII aveva come modello la Civitas Dei e si considerava Corpo Mistico di Cristo, pur nella debolezza dei suoi membri, pare che in questi ultimi decenni il modello cui si ispirano i fautori del Vaticano II sia piuttosto quello della civitas diaboli, a giudicare dal supporto che la Santa Sede presta all’ideologia globalista, ai deliri neomalthusiani della green economy, del transumanesimo e di tutto il repertorio gender e LGBTQ.
30 ottobre 2022
Domini Nostri Jesu Christi Regis
[1] Con agostinismo medievale si intende lo sviluppo del pensiero agostiniano, in particolare quello relativo alle implicazioni politiche e sociali della dottrina sulla Civitas Dei e sulla civitas diaboli, che secondo i novatori avrebbe falsato il pensiero originario di Sant’Agostino, esasperandone ad esempio la visione teocratica del potere, tanto civile quanto ecclesiastico. Inutile dire che questa critica è pretestuosa e si basa su vere e proprie falsificazioni storiche: l’idea che ogni potestà origini da Dio era già ben chiara al Vescovo di Ippona e la sua esplicitazione nell’agostinismo politico medievale è perfettamente coerente con Tradizione.
[2] Adolf von Harnack (1851-1930), teologo protestante e storico delle religioni tedesco. Le caratteristiche fondamentali della teologia di Harnack erano la pretesa di un’assoluta libertà nello studio della storia della Chiesa e del Nuovo Testamento; la sua sfiducia nella teologia speculativa, sia ortodossa che liberale, nonché il suo interesse per un Cristianesimo pratico che impregnasse il modo di vita e non si riducesse a mero sistema teologico. Harnack rigettava la storicità del Vangelo di Giovanni (giudicato troppo enfatico sulla divinità di Nostro Signore), preferendo ad esso i Vangeli sinottici. Rifiutava parimenti la possibilità dei miracoli. La sua religiosità critica della tradizione è permeata da molti ideali sociali, come esposto in un suo saggio del 1907. Per Harnack, la missione di un cristiano nel secolo è innanzitutto il servizio alla Comunità. Non sfuggano le influenze dell’idealismo hegeliano: la costruzione di una teoria astratta sulla base di principi modernisti deve negare a priori la divinità di Cristo, i miracoli, le profezie e tutto ciò che non conferma la propria tesi. Questo inficia ogni seria ricerca scientifica, filosofica e teologica, riducendola a propaganda.
[3] Sallustio, Bellum Catilinæ, 48 Rerum novarum cupiditas Catilinæ animum incendebat. Catilina ardeva dal desiderio di una rivoluzione [letteralmente: dalla smania di novità].
[4] L’idealismo hegeliano segna l’abbandono della logica aristotelica (detta logica di non-contraddizione), in favore di una nuova logica cosiddetta sostanziale. L’essere non è più staticamente opposto al non-essere, ma viene fatto coincidere con quest’ultimo trapassando nel divenire. L’idealismo hegeliano, che risolve tutte le contraddizioni della realtà nella Ragione assoluta avrà un esito immanentistico, riconoscendo in se stesso, e non più in un principio trascendente, la meta e il traguardo ultimo della Filosofia.
[5] Joseph Ratzinger, Opera omnia, volume VII/1, Gli insegnamenti del Concilio Vaticano II, Libreria Editrice Vaticana, 2016, Prefazione (Castel Gandolfo, 2 agosto 2012).
[6] Rerum novarum, 22
[7] De Civitate Dei, V, 24