di padre Mario Begio
Ho letto la saga delle peripezie bresciane. Di solito quando ai telegiornali parlano di Brescia è sempre per segnalare casi turpi di omicidi, trivialità, malavita o per interviste buffe a campagnoli che dicono pota (non credo siano davvero così a Brescia, ma questo è quel che ci servono i media). Ora vedo che la stessa sorte mediaticamente infelice tocca alla parte della Brescia cristiana: prima il prete parruccato che dice Messa in bicicletta, poi però vanno in duomo e fanno l’atto di riparazione (per quella Messa o per i probabili trent’anni di Messe fatte così o per la bicicletta?), poi il prete che fa body building e io non avevo mai immaginato si potesse passare dal Crisma al Synthol con tanta spigliatezza e spogliatezza (ma la mia è invidia per i venticinque chili in eccesso), poi nel Duomo delle riparazioni organizzano un congresso: tolgono le panche (le rimetteranno?), mettono dei tavoloni rotondi (si saranno offesi gli alpini, che non hanno voluto i mitici tavoli rettangolari con gambe verdi ripiegabili da raduno delle penne nere?), poi tolgono il silenzio e infatti tutti parlano e si confrontano. Quello che non ho capito dagli articoli è se abbiano avuto almeno il decoro di togliere il Santissimo Sacramento dal tabernacolo, in modalità venerdì santo, o se la piazzata si sia svolta bellamente al cospetto delle Specie Eucaristiche con grave scorno della fede di tutti. Se pensi che per due anni hanno chiuso le chiese e tenuto la gente a distanza, uno quasi rimpiange Conte e gli altri tiranni, che provvidenzialmente impedivano il culto ma con ciò evitavano le blasfemie!
Nulla di nuovo, Aldo Maria. Dal mio osservatorio in centro Italia scopro ben di peggio, anche se nessuno lo dice. Tiriamo indietro le lancette di un mese e andiamo all’8 ottobre e spostiamoci quasi all’ombra del Cupolone (che ormai è una garanzia di oltraggi alla fede, vi pare?). Portiamoci a poche decine di metri dall’uscita di Roma Termini ed entriamo in un santuario, magari secondario e recente eppure importante per storia e culto (però il pudore mi fa tacere nomi e cognomi). Qui possiamo immedesimarci in due differenti comitive. La prima è una famiglia con amici al seguito, che prenota da mesi la chiesa, si ritrova per celebrare la Messa e insieme il Battesimo dell’ultimogenito – presumo il primogenito e temo l’unicogenito –, contatta per tempo l’amico prete venuto da lontano e insomma, per poco che siano pratici di sagrestie, quel giorno per loro è l’occasione di ricevere un bel messaggio di evangelizzazione e magari recuperare un po’ di fiducia e sprone nella Chiesa, la Chiesa in uscita con l’odore del gregge disperso nell’ospedale da campo che accoglie con misericordia tutti tranne i cattolici legati al catechismo (ma questi non c’è rischio: li rivedremo, forse, in chiesa solo ai prossimi tre sacramenti, esequie incluse). Il seguito mostra che avremo torto (sull’evangelizzazione, non sulle esequie). Il secondo convoglio è quello di un corposo drappello di consacrati convenuti nella capitale per assistere alla canonizzazione di uno dei loro, canonizzazione decisa un po’ all’ultimo – mi dicono le fonti – e quindi visita decisa un po’ all’ultimo e arrivo in massa nel prestigioso santuario secondario deciso un po’ all’ultimo eppure, non so perché, imprescindibile. Morale della favola: finisce il rito del battesimo con consueto concerto di applausi e strilli di poppante, il prete sale all’altare, inizia l’offertorio, a breve si intona il Sanctus, quando irrompono in chiesa i consacrati accorsi a venerare il nuovo santo e a questo punto entra in scena il rettore: questo matrimonio non s’ha da fare!
“Come, scusa?” bisbiglia il prete in paramenti bianchi, spaesato.
“Non s’ha da fare, devi fermarti, c’è un gruppo venuto da lontano, sono qui per andare dal Papa”.
“Ma sto celebrando”.
“No, guarda il Battesimo te l’ho fatto fare ma adesso non c’è tempo, devono visitare i quadri e le targhe del santuario secondario. La Messa la fermi qui, firmi le carte, tieni l’offerta e vai al rinfresco anticipato coi parenti dell’unicogenito”.
E niente, è successo proprio così: Messa stoppata a metà. Roba che dai tempi dei carabinieri in Chiesa durante i funerali del lockdown non si era più sentita. Prete svergognatissimo che esce strapazzando una rispettosa genuflessione a conclusione di un’ingiuriosa profanazione. Rettore tronfio che caccia di chiesa il novello Figlio di Dio amato dal Signore che neanche Alexander Tschugguel quando ha gettato la pachamama nel Tevere. Consacrati che, volenti o nolenti, ossequio meno vergognoso al novello santo non potevano. E Gesù Cristo muto: per ora, ché il giorno del giudizio si avvicina per tutti.
A questo punto possiamo solo sperare che anche in questo santuario secondario tolgano i banchi e mettano le tavole: peggio delle chiusure di Conte ma meglio delle Messe profanate del rettore. Però, che tolgano il Santissimo dal tabernacolo, per sempre! Che pure è meglio di doverlo togliere a metà Messa dall’altare, mezzo consacrato e mezzo boh. E se mai dovesse arrivare il secondogenito, forse è meglio che lascino a lui la scelta di battezzarsi da grande: coltivo la speranza che fra dieci o vent’anni un po’ di fede e un po’ di Chiesa torneranno. Ora no. Ora meglio stare alla larga, mettersi una camicia a quadri e se ti chiedono qualcosa dire pota.
E mi fermo qui, per oggi.
5.continua
Le precedenti Cronache dal clero di padre Mario Begio sono state pubblicate qui, qui, qui, qui