Una bella proposta editoriale / La “Storia sociale della Chiesa” di monsignor Benigni
Il Centro librario Sodalitium ha ristampato la Storia sociale della Chiesa di monsignor Umberto Benigni, in cinque volumi.
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Prefazione all’ultimo volume
Con la pubblicazione di questo quinto volume della Storia sociale della Chiesa il nostro piccolo Centro librario è giunto al termine di una grande impresa: mettere nuovamente a disposizione del pubblico cattolico la gigantesca opera di monsignor Benigni, che tanta parte ebbe nella vita di questo fedele collaboratore di san Pio X. Di questo fatto rende testimonianza la lapide che orna – nel cimitero della natìa Perugia – il sepolcro del prelato umbro, dove sta difatti scritto:
Nec spe nec metu
S.E. Mons. Umberto Benigni
Protonotario apostolico partecipante
Autore della Storia sociale della Chiesa
Sottosegretario durante il Pontificato di Pio X
della Congregazione per gli Affari EE. SS.
Perugia 30 marzo 1862 – Roma 27 febbraio 1934
“Autore della Storia sociale della Chiesa”: tanta importanza, dunque, ebbe quest’opera da essere ricordata sulla tomba del suo autore; opera di una vita, infatti, giacché l’iniziò nel 1906 e la concluse, senza concluderla, pochi mesi prima della morte, nella Pasqua del 1933 (che quell’anno cadeva il 16 aprile). Con il bollettino Veritas e la rivista Romana, che uscirono ancora, per l’ultima volta, nel dicembre 1933, questo quinto volume della Storia sociale rappresenta gli ultimi scritti di monsignor Benigni.
L’ultimo volume pubblicato era quello del 1929, dedicato anch’esso, come il volume che avete tra le mani, al Medio Evo. Per accompagnare questo quinto volume dobbiamo quindi tratteggiare gli ultimi quattro-cinque anni di vita del suo autore. Non sono anni facili (e non solo per l’età e la salute): i principali cardinali del pontificato di san Pio X sono morti (il cardinale De Lai nel 1928, il cardinale Merry del Val, in maniera sospetta, nel 1930; restava il cardinale Boggiani che non succederà però a Pio XI e morirà nel 1942) e l’influenza sul Papa del nemico acerrimo di monsignor Benigni, il direttore della Civiltà cattolica, padre Rosa, è preponderante. Le divergenze sulla “Conciliazione”, che proprio nel 1929 mette fine alla “Questione Romana”, interrompono la collaborazione tra monsignor Benigni e il gruppo francese dell’abbé Paul Boulin († 1933). L’uno e l’altro però, vecchi sodali del Sodalitium pianum, vivono lo stesso stato d’animo: siamo “fucilati, mitragliati, bombardati dagli uni – scrive monsignor Benigni su Romana nel dicembre 1928 – abbandonati o astutamente sabotati dagli altri”. “Il nemico – scrive a sua volta Boulin nel 1933 – ovverosia, in faccia a noi, il Giudaismo cosmopolita; sui fianchi le Sette che ci incalzano; alle nostre spalle il grosso delle truppe cattoliche, infestate anch’esse dai veleni umanitari, democratici, pacifisti e internazionalisti, e all’avanguardia delle quali non tiriamo più che come reparti sacrificabili (enfants perdus), fucilati alle spalle”.
Ma il migliore commento storico alla pubblicazione di quest’ultimo volume della Storia sociale, che ci disvela sia gli intenti dell’autore della Storia sociale sia il suo intimo stato d’animo, lo troviamo nel carteggio tra monsignor Benigni e monsignor Michele Faloci Pulignani (1856-1940), confratello, storico e amico umbro del nostro autore, carteggio conservato ancor oggi nella Biblioteca comunale di Foligno.
Il 7 luglio 1929 VII, terminato il precedente volume, scrive: “Ho domandato a Vallardi (l’editore) di mandarle in omaggio il mio VI tomo, d’imminente pubblicazione, perché Ella voglia farne una recensione. Col boicottaggio camorristico che mi circonda debbo domandare alle mosche bianche di far sapere al pubblico che noi non siamo infecondi nello studio della civiltà cristiana. Un caso recente ha mostrato come si riesca a far ignorare una pubblicazione che ha dedicato i primi tre volumi agl’intimi rapporti tra il cristianesimo e l’impero romano. Alla mia età e dopo un diluvio di rospi di tutte le dimensioni che ho ingoiato in mezzo secolo, me ne stropiccio altamente della réclame e della sua degna figlia la fama; ma la Causa vuole che non si sciupi il lavoro fatta per essa”. Il 12 luglio dello stesso anno: “Evviva il buonumore, vino della vita; evviva la buona amicizia, companatico della sullodata. (…) Scrivo subito al cav. Fioroni perché voglia mandarle i due tomi precedenti (della Storia sociale). (Ella saprà che io non dispongo di nulla nella pubblicazione). Mi stropiccio per conto mio personale della réclame, anche se fatta ad un onesto coscienzioso lavoro, perché ho il vomito della vita e della sua cara società. Se fossi per virtù quello che sono per filosofia, potrei guardare confidente il Crocifisso; ma conto sulla sua infinita misericordia che mi perdoni il mio filosofico vanitas vanitatum che involge uomini e cose. Ecco una confessione ad uno dei pochi che può capire, giacché, salva la sua virtù cristiana, credo che anche Lei abbia in pietoso disprezzo questa vita boiaccia. (…) Faccio una durissima vita di lavoro e di amarezze; oramai sono mitridatizzato; ma non è una vita gaia, il s’en faut!”.
Nella lettera del 30 marzo 1930 se la prende con lo storico tedesco Gregorovius (1821-1891): “La ricostruzione critica del – più che calunniato – fraintesissimo medioevo esigerebbe l’intera vita di un grande storico. Quindi io che non ho quella a disposizione, e non sono questo, ho dovuto contentarmi di tracciare qualche linea costruttiva. Veramente, in arduis voluisse sat est. Certo, per la Chiesa e per la Patria come per la scienza, quella ricostruzione è uno dei punti basilari. Generazioni d’italiani abbrutiti dal ghibellinismo massonico hanno giurato in verba Gregorovii, il grosso urangutano che non ha nulla capito del medioevo e di Roma. Il fenomeno Crivellucci (1850-1914, storico e anticlericale) riassumerà la situazione. Oggi finisco 68 anni: che Via Crucis!”.
“Sono arrivato a San Francesco, cioè a Faloci Pulignani Mons. Michele. (…) Naturalmente, io debbo trattare di San Francesco e del Francescanesimo dal punto di vista sociale, ma anche qui (elementi spirituali della crisi medioevale) voglio dare una speronata ai sabatierani ed altri modernisti. (…) che se don Basilio ci separa, san Francesco ci unisce. Grazie infinite fin d’ora. Come va? Io tiro il carretto dei miei cominciati settant’anni. Tir’à campà, lo spettacolo è interessante!” (senza data, circa aprile 1931).
L’ultima lettera, di un uomo sempre più stanco, è del 20 febbraio 1932, a due anni dalla morte: “Monsignore carissimo, rispondo prontamente alla cara sua del 9 giugno 1931… faccia tosta, eh; ma più che faccia tosta, è la durissima vita che mi trascina a queste distanze. Mi reggo e lavoro, per smaltire quello che altrimenti rovinerebbe l’insieme; ma non ne posso più. Creda: taedet animam meam vitae meae. Comprenda e compatisca. Ricevetti tutto in tempo da Lei e da Roma; e gliene sono immensamente grato. Ora sono proprio a San Francesco, e questo mi ha obbligato ad arraffare questo foglio di carta, ritrovare la sua lettera addormentata nella casella, e scriverle queste righe che vogliono dirle soprattutto come il vecchio amico perugino può non (potere) scrivere, ma non dimentica mai. (…) Intanto mi mandi sue buone nuove. Le mie, come le ho detto, son ben dure. Senza un soldo (e Tizio e Caio han fatto milioni), ridotto ad una povertà appena dissimulata, carico di lavoro e di preoccupazioni di tante e tante cose, di certo non mi lamento di una vita sbiadita e monotona”.
Umberto Benigni morì nella sua casa romana di via Arno, 33 il 27 febbraio 1934; le sue spoglie, deposte nell’oratorio privato, furono poi portate nella chiesa dei Padri Mercedari di piazza Buenos Aires che, su domanda di padre Saubat, gli avevano amministrato gli ultimi sacramenti. Funerali singolari, alla presenza di 7-8 senatori, dai 12 ai 15 deputati, con gli onori di 12 carabinieri in gran tenuta… e solo due sacerdoti: padre Jules Saubat, dei Fratelli del Sacro Cuore di Betharram, già della Dieta del Sodalitium Pianum, e padre Henri Jeoffroid, procuratore generale dei Fratelli di San Vincenzo de’ Paoli. Il 1° marzo fu sepolto nella sua Perugia.
Alla sua morte monsignor Benigni lasciava incompiuta la sua opera. Nel 1939 un memoriale del giornalista Guido Aureli, in difesa del vecchio amico, ricordava il paradosso della stima per l’opera storica del Benigni da parte del mondo “laico”(citando tra l’altro il giudizio del direttore generale della pubblica istruzione e poi capo gabinetto del ministro Orlando, Giuseppe Corradini: “È una delle più grandi opere storiche di questi ultimi anni: vi sono dei difetti come in tutte le opere creative; una storia sociale della Chiesa non esisteva ancora; da questa altre verranno, ma nessuno ha scritto originalmente sino ad oggi una così grande opera…”) e all’opposto i giornali cattolici italiani e l’Osservatore romano sabotarla “nel modo più indegno”. Il 27 gennaio 1938 l’editore Vallardi comunicava all’Aureli che la “prematura morte di monsignor Benigni” aveva fatto sì che l’opera si arenasse e non si trovava chi fosse capace di portarla a compimento”. Eppure, testimonia l’Aureli, “vi sarebbe da domandarsi dove è andata a finire la mole del lavoro storico oltre il IV volume (sic, per V volume). È noto a me e a quanti ancora frequentavano mons. Benigni che la Storia era giunta ben oltre l’epoca del volume in parola” (cit., da Valbousquet e Dieguez). Ma in fondo si può dire che i volumi successivi sono virtualmente contenuti in quest’ultimo, dedicato alla crisi medioevale, se è vero, com’è vero, che come scrisse monsignor Benigni nell’introduzione a quest’ultimo volume, “la crisi medioevale ha generato l’epoca moderna, quella delle ‘rivoluzioni a sinistra’: Riforma, Rivoluzione francese, Quarantotto socialista, il terremoto anarchico-bolscevico di oggi” e, potremmo aggiungere, la rivoluzione modernista nella Chiesa che monsignor Benigni, al fianco di san Pio X, combatté ai suoi tempi, ritardando, ma non impedendo, purtroppo, la sua catastrofica, seppur passeggera (lo crediamo per Fede), vittoria dei nostri giorni.
Fonte: centrostudifederici.org