Grazie alle missioni dei padri francescani, tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 vi furono numerose conversioni di eterodossi armeni alla fede cattolica, ma il ritorno alla Chiesa romana di una parte della popolazione armena fu bruscamente interrotto dal genocidio perpetrato dalle autorità turche.
Proponiamo un articolo del 1932 sul martirio di padre Salvatore Lilli e di alcuni suoi fedeli avvenuto nel 1895. Il racconto è impressionante, ma impressionante è anche il silenzio che la cultura ufficiale riserva a queste vicende: dei martiri cristiani non si può e non si deve parlare.
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Un episodio delle stragi armene nel 1895. Il martire padre Salvatore Lilli da Cappadocia, missionario di Terra Santa
Da: Almanacco di Terra Santa per il 1932, Tipografia dei PP. Francescani, Gerusalemme, pagg. 26-29.
Molti popoli sventurati per infausti governi furono sulla terra, come ce ne fa fede la storia, ma più sventurati degli Armeni nessuno.
Gli Armeni! Questo popolo attivo, industrioso, economico: questo popolo religioso, profondamente religioso, che ha il vanto d’essere stato tra i primi popoli ad abbracciare il Cristianesimo, annunziatogli dall’Apostolo S. Bartolomeo; questo popolo reo non di altro che di aspirare alla sua libertà ed indipendenza nazionale, sì, questo popolo è il più sventurato della terra a cagione del nefasto governo ottomano che impera su di esso!
Agli Armeni infatti non giova neppure essere buoni cittadini! In Armenia essere buoni o cattivi sudditi è assolutamente lo stesso. Poiché il turco odia l’Armeno anche se buono, anche se mite: l’odia perché lo sente superiore, l’odia perché lo vede avanzato nel progresso, l’odia perché, fedele alle sue tradizioni, professa fede incrollabile al Cristianesimo. E spesso sfoga il suo odio implacabile su di esso con delle orrende carneficine, come quella del 1895. Narriamola in rapida sintesi.
L’immane carneficina degli Armeni «oltre duecentomila vittime» e la distruzione delle loro proprietà nel 1895 furono pensate, meditate, e decretate dal Sovrano Abd-ul-Hamid. Sì, il Sultano volle i massacri, il Sultano li ordinò, il Sultano li diresse, e mostrò nella perpetrazione di essi la ferocia del sanguinario, la violenza e il furore spasmodico del maniaco.
Difatti, i carnefici scelti all’uopo erano della peggiore canaglia, era un’ibrida accozzaglia di musulmani, curdi, circassi e redif (reclute) che armati di fucili, pugnali, coltelli, accette, roncole e bastoni si precipitavano sulle case cristiane degli Armeni, ne abbattevano le porte a colpi di scure, e gridavano agli abitanti: «Arrendetevi, arrendetevi». Tutti quelli che si arrendevano, o venivano trovati in qualche angolo della casa furono barbaramente trucidati. A nulla valevano le preghiere di quegli infelici: dai dieci anni in su, anche vecchi di cento anni, furono ammazzati. Persino le donne che s’interponevano per salvare i figli, i mariti, i genitori, i fratelli furono uccise o ferite. Ogni casa cristiana fu convertita in una orrenda carneficina… il pavimento delle case, le strade, le piazze erano ricoperte di cadaveri che, orribile a dirsi, venivano trascinati con forche ed uncini di ferro, e gettati nelle cloache e nei letamai. E quei barbari gridavano: «Sono cadaveri di cani».
Ai Preti Armeni poi, invece di ucciderli tutto in un tratto, tagliavano prima le braccia; poi riempivano di materie fecali i loro berretti ecclesiastici, e così li rimettevano sulla testa di quegli sventurati.
Laonde abbracciati nuovamente i suoi parenti ed amici, dato un ultimo addio al bel cielo d’Italia, volava sulle ali della fede e della carità a quelle suggestive contrade dove lo attendevano i più grandi sacrifici che avrebbero fatto germogliare un giorno le belle palme dei martiri.
Come abbiamo accennato quando cominciarono i massacri il P. Salvatore trovavasi a Mugiukderesi, luogo sopra ogni altro pericoloso.
I religiosi Francescani di Maraasc, temendo che il loro confratello P. Salvatore poteva correre gravi pericoli nel luogo ove si trovava, gli fecero vive pressioni affinché andasse a stare con loro. E i religiosi di Jenigekalé mandarono per ben tre volte nello stesso giorno un messaggero a pregarlo di scappare con loro. E il P. Salvatore rispose: «Dove sono le pecore ivi deve restare il pastore». Anche i suoi parrocchiani quando si accorsero che le truppe erano per arrivare a Mugiakderesi supplicarono a mani giunte il Missionario affinché montasse il suo cavallo e abbandonasse il villaggio per mettersi in salvo.
Fu irremovibile. Gli pareva cosa indecorosa, indegna di un soldato di Cristo e di un figlio della grande Famiglia Francescana, l’allontanarsi in quei momenti di pericolo. Certo in quei giorni, mentre pressioni e minacce lo premevano da ogni parte, la schiera numerosa dei suoi confratelli Martiri, passò giubilante innanzi al suo sguardo incitandolo al compimento del dovere. Egli certo ripensò alle lotte, al sangue che costò sempre ai Francescani la conservazione di quella Terra fatta sacra dalla vita dell’Uomo-Dio. E perciò non si mosse: «uomo intrepido e battagliero», volle affrontare il pericolo onde dividere la sorte dei suoi parrocchiani e assisterli e soccorrerli fino all’ultimo.
L’arrivo dei soldati
Il 16 novembre dell’anno 1895 verso sera un distaccamento di soldati partiti da Maraasc arrivava a Mugiukderesi.
I soldati si diedero subito a trucidare gli abitanti e ad incendiare le loro case. Nella sera stessa con un colpo di baionetta alla gamba ferirono anche il P. Salvatore che all’avvicinarsi dei soldati era uscito dall’ospizio per dare il ben venuto alla truppa. Quei soldati rimasero accampati a Mugiukderesi cinque giorni, e cioè il 17, 18, 19, 20, 21 novembre.
La cattura
Nella mattina del venerdì 22 novembre fu ordinato al P. Salvatore ed ai dieci contadini cristiani (i soli rimasti a Mugiukderesi) di seguire i soldati a Maraasc. Il coraggioso Missionario comprese che la sua fine era decisa. Forte di se stesso, non aveva a temere che per i suoi parrocchiani: li chiamò in chiesa, gli esortò a morire per la Fede, e diè a tutti l’assoluzione in «articulo mortis».
soldati legarono il P. Salvatore e i dieci cristiani, e s’incamminarono verso Maraasc. Arrivati ad una certa distanza del paese, il P. Salvatore «sentendo nella gamba gli effetti sempre più dolorosi della ferita ricevuta» domandò che gli si permettesse di montare sopra un mulo. L’ufficiale gli rispose: «Fra poco vi faremo montare». Mentre i dieci cristiani, legati unitamente al P. Salvatore, camminavano lungo la via che corre tra Mugiukderesi e Maraasc il P. Salvatore non cessava di esortarli a star fermi nella fede e d’incoraggiarli e prepararli all’ultima sorte che li attendeva.
Le donne venivano violate a viva forza: a molte ragazze che opposero resistenza fu reciso il braccio destro.
Dodici donne furono inchiodate sopra tavole, e i soldati dicevano: «Un Cristo facendosi crocifiggere liberò tutti i popoli cristiani: lasciatevi voi pure crocifiggere per liberare il popolo armeno».
Dieci madri con i loro bimbi alle mammelle furono strangolate, e poste intorno ad un’immagine della Santissima Vergine, e i soldati dicevano: «Voi sarete le custodi della Madre del vostro Dio».
Trenta, fra uomini e donne, furono impalati e disposti attorno ai muri di un convento, e i soldati dicevano: «Siate i guardiani del vostro convento affinché il nemico non possa penetrarvi». Cinque Preti furono impiccati agli alberi ed i soldati gridavano: «Fate pascolare il vostro gregge».
Le case poi erano saccheggiate, spogliate di tutto e incendiate con i feriti e i cadaveri che vi si trovavano. Le donne e i fanciulli delle case saccheggiate giacevano sul lastrico delle vie senza pane e senza altra veste indosso che la camicia.
Le autorità assistevano a queste orrende barbarie, spettatori impassibili, anzi colla stessa curiosità e compiacenza con cui si assiste ad una geniale rappresentazione teatrale.
Martirio del P. Salvatore Lilli da Cappadocia
Il P. Salvatore erasi recato in Terra Santa subito dopo il noviziato nel 1871, e proseguì il corso degli studi a Betlemme e a Gerusalemme. Nel 1878 fu ordinato Sacerdote, e nel 1880 era già a Maraasc nell’Ospizio di Terra Santa ove rimase quattordici anni, e per cinque anni fu anche parroco e Superiore dell’Ospizio. Poscia fu eletto Parroco e Superiore dell’Ospizio di Mugiukderesi, piccola borgata ad ovest di Maraasc distante sette ore di cavallo, ove lo sorpresero i dolorosi avvenimenti del 1895.
Il P. Salvatore era tornato in Italia per rivedere i suoi cari soltanto una volta, dopo 16 anni, nel 1886: e a nulla valsero le preghiere dei parenti, dei confratelli e degli amici i quali tentarono tutti i mezzi per farlo rimanere in Italia: volle tornare in Oriente. L’Oriente per lui aveva un’attrattiva segreta, misteriosa! Pareva che a lui, come a giusto erede, il Serafico Padre avesse trasmesso quell’ardente brama del martirio ch’egli non aveva potuto appagare per aver trovato la gente troppo «acerba» alla conversione:
«E poi che per la sete del martirio,
Nella presenza del Soldan superba
Predicò Cristo e gli altri che il seguiro,
E per trovare a conversione acerba
Troppo la gente, e per non stare indarno
Reddissi al frutto dell’italica erba» (Paradiso, C. II).
Oh! se le parole non fossero fugaci, se qualche eco di esse potesse rimanere là dove non v’ha chi possa ascoltarle e riferirle, noi potremmo sapere quale forza e quale tenerezza di linguaggio dové certamente usare il P. Salvatore con i suoi parrocchiani. E senza dubbio grande ed irresistibile facondia in quei momenti dovette largirgli il Signore perché Egli riuscisse a serbare forti ed eroiche nel pericolo le anime affidate alla sua cura.
L’estrema prova. Il Martirio
Giunti a circa due ore di distanza da Mugiukderesi nel luogo detto « Gheudjek » vicino al torrente omonimo, l’ufficiale fece fermare la carovana, e, con lusinghe e promesse, cominciò ad invitare il P. Salvatore e i suoi compagni a lasciare il cristianesimo e ad abbracciare l’islamismo.
ll P. Salvatore e i suoi parrocchiani opposero reciso rifiuto. L’Ufficiale allora passò dalle lusinghe alle minacce: tutto fu vano, perché i Confessori resistettero con parole ed atti pieni di fermezza e di fede, ripetendo la loro incrollabile professione di fede e di amore a Cristo e di odio all’errore maomettano.
Pieno di rabbia l’ufficiale, perché non riusciva nel suo intento, diè ordine ai soldati di ucciderli tutti. I soldati si scagliarono sull’eroico P. Salvatore e su dei suoi invitti compagni e a colpi di baionetta crivellarono orrendamente i loro corpi. E perché non rimanesse traccia alcuna del misfatto appiccarono il fuoco a quei corpi ancora cadaveri!
La Terra Santa contava un Martire di più.
Bella, immarcescibile la corona del martirio che l’eroico P. Salvatore Lilli da Cappadocia guadagnò a sé e alle sue pecorelle!
Non altrimenti morirono nel nome di Cristo i Martiri dei primi secoli del cristianesimo!
E quando un pittore cristiano che ben comprenda qual è la grande missione dell’arte, e che desideri evocare nobili esempi, penserà al nostro P. Salvatore, penserà al suo eroismo e al suo valore, che grande soggetto avrà egli per animarne una tela!
Che sprazzo di luce e d’ideale sublime nel piccolo gruppo cristiano attendente la morte fra le barbare orde turche folleggianti e frenetiche!
Del Padre Salvatore e dei suoi Compagni si è già iniziata la «Causa di Beatificazione». E noi facciamo voti perché dall’Oracolo Infallibile della Santa Chiesa siano presto innalzati agli Onori dell’Altare.
Fonte: centrostudifederici.org