di Aurelio Porfiri
La morte dell’ex calciatore e allenatore Sinisa Mihajlovic mi ha colpito e addolorato. Una morte che non possiamo non definire prematura e ingiusta, come ha detto la famiglia.
A viste umane, infatti, non possiamo evitare di pensare che la morte di un uomo poco più che cinquantenne, con una bella famiglia e sei figli, sia qualcosa di difficile da accettare. Oramai alla mia età ho capito che la vita non è giusta e tutti viviamo con una spada di Damocle sopra la testa. Solo lo sguardo della fede può aiutarci a dare un senso a quello che sembra non averlo.
Ecco, la fede. Quella fede a cui anche Sinisa ha fatto ricorso, specialmente negli ultimi anni di sofferenza. Una fede, così come l’ha testimoniata Mihajlovic nei suoi ultimi giorni, che è d’insegnamento.
Lo chiamavano “il sergente”: aveva una disciplina e un temperamento fuori dal comune. L’Ansa ha scritto che ha avuto una “vita da guerriero” e penso che lui avrebbe gradito sentirla definire in quel modo.
Negli ultimi decenni un perverso sentimentalismo di radice immanentista e modernista si è impadronito della nostra religione, rendendola preda di un sentire dolciastro. Lontana è l’idea della nostra fede come forza che può spostare le montagne.
La vita su questa terra è un soffio: un momento c’è e poi svanisce. Il sergente Sinisa ci ha insegnato che bisogna morire combattendo. Grazie per questa lezione.
Foto: bolognafc.it