Natale 1942. La Madonna di Stalingrado e il messaggio di speranza del pastore Reuber

di Alessandro Staderini Busà

Licht. Leben. Liebe. Tre parole in tedesco, che traducono Luce, Vita, Amore. Una data, Natale 1942. Un luogo, la città di Stalin. Ed una madre che avvolge nel mantello il proprio neonato, piegandosi su di lui, a dar calore e riparo. Maria con il piccolo Gesù, ovvero la “Madonna di Stalingrado”. Disegno a carboncino che, nonostante il ruvido minimalismo, tocca il cuore dello spettatore, lo strugge, meglio che se fosse uscito dalla mano di un maestro dell’Arte.

Sorprende come, a dispetto di un’umanità in rovina, alcuni dimostrino la capacità di mantener lo sguardo limpido, la mente presente, l’anima salda, seguitando a guardare al mondo e a quelle ombre che oramai sono gli uomini, nella pienezza di cui questi erano dignitari prima del disastro. Figure così non appartengono al genere di protagonisti che chiamano su di sé la grande attenzione della Storia. La loro natura, silenziosamente riflessiva, li tiene occultati sotto una cappa di discrezione ed è a lume di lanterna che vanno cercati, come si cercherebbe un tesoro nel buio. Non sono forse loro che, dentro il quotidiano, tengono in piedi le speranze quando queste sono dai più disattese? Al punto che, se per sciagura venissero a mancare, nessuno troverebbe quelle energie, quell’ardimento, per scacciare le paure, spalancare gli occhi, rompere gli indugi, e tracciar la via di una riscossa?

Uno così fu Kurt Reuber. Pastore protestante, nel 1939, appena scoppiate le ostilità, lo avevano arruolato come medico da campo. Aveva una moglie e tre figli e, al momento dei fatti che fissarono nella memoria quel Natale di cui ancora si parla, ricopriva il grado di capitano, a trentasei anni compiuti. Di lui ci resta qualche foto, lettere inviate a casa dal fronte, e un mazzetto di disegni: volti di bambini, di ruvidi moujik, di contadine, di prigionieri. Uomini e donne passati sotto le sue cure di dottore e, fra privazioni e abbrutimenti, restituiti all’umanità dal tratto semplice di una matita. Era un romantico vecchia maniera Kurt Reuber, diremmo uno alla Paul Bäumer di Niente di nuovo sul fronte occidentale. Mani da artista e tondi occhialetti da intellettuale, sognatore disceso nel gelo del Cocito infernale, il quale riesce ancora a immaginare un mondo di bellezza, calore, delicatezze umane. Uno fra quei soldati che nel taschino vicino al cuore preferirono tenere, invece del Mein Kampf, una Bibbia o un taccuino da disegno. Oppure, come nel suo caso, entrambe le cose.

Quando iniziò il calendario dell’Avvento 1942 contavano sedici settimane da che la VI Armata stava inchiodata a Stalingrado. La folle galoppata della blitzkrieg nell’estate dell’anno prima si era prima allentata nel fango, poi paralizzata nel ghiaccio. La città di Stalin vedeva i tedeschi presi in una tenaglia che quell’abilità germanica a definir ogni cosa con un esatto nome chiamava “die kessel”, “il calderone”. Weihnachten im Kessel, ovvero Natale nel calderone, riporta verticalmente il disegno di Reuber. Si è decimati dalle malattie epidemiche non meno che dal martellamento d’artiglieria, dai one-shot-one-kill dei cecchini, dalle baionette nei corpo a corpo quotidiani. Le razioni di pane nero e wassensuppe, a fronte di un elevato dispendio calorico per le bassissime temperature, non sostentano. Per quelli che resistono, si tratta di trovar riparo nel reticolo di trincee e rifugi sotterranei, fra dissenteria e amputazioni per congelamento, fino all’attimo in cui la morte non risolverà, per ciascuno di loro, il conflitto finora più atroce nella vicenda umana. “Soltanto per i morti la guerra è finita davvero”, avrebbe osservato Cesare Pavese.

Attendere la Natività è aspettare il soccorso di truppe fresche che, in arrivo da sud-ovest, spazzeranno via l’accerchiamento. Così, dai vertici, è stato loro promesso. “Stiamo tutti insieme in un buco scavato vicino al pendio di una forra nella steppa”, scrive Reuber. “Circondati da un tetro paesaggio, monotono e malinconico”.

È in queste ore che il medico della 16a Divisione Panzer mette mano a una mappa strappata al nemico, unico pezzo di carta disponibile, e sul retro realizza la sua opera più grande. Se a muoverlo sia il vagheggiamento di un miracolo o se, al contrario, la certezza d’aver tutti quanti le ore e i minuti contati, noi sudditi della società dei consumi difficilmente potremo intenderlo. “A lungo ho pensato a cosa dovessi disegnare, e alla fine mi sono deciso per una Madonna, o madre con bambino”, scrive alla moglie. “Vorrei poterti raccontare quanto sono stato assorbito dal disegno della mia Madonna e quanto significhi per me. L’immagine è questa: la testa della madre e quella del bambino si piegano l’una verso l’altra e un ampio mantello li avvolge entrambi. Simboleggia la sicurezza e l’amore materno. Mi sono venute in mente le parole di san Giovanni: luce, vita, amore. Che altro c’è da aggiungere?”.

C’è da aggiungere – dottor Reuber – che lì sotto il mantello, come tu l’hai disegnato, stava sì una Madonna o madre con bambino, ma non solo. C’erano soldati traditi e dimenticati. C’erano popolani i cui volti avevi ritratto dopo averne curato le affezioni. Stava raccolto tutto un universo di sofferenze e sofferenti che, tagliando la Storia, finiva ad abbracciare noi di questo tempo maledetto. Perché, su quel carboncino 80×105 cm, avevi intessuto il vessillo del refúgium nostrum et virtus – nostro rifugio e fortezza. Colei che era stata invocata come Panàghia nel 680 a Costantinopoli, e Vergine delle Milizie nel 1091 a Scicli, e Auxilium christianorum nel 1571 a Lepanto, e Virgo Lauretana nel 1683 a Vienna, e Beata Virgo Maria Immacolata Concepta nel 1920 a Varsavia. E Dio solo sa quanto strida il moto del cuore con cui, quel Natale, ti lasciavi dietro la paternità luterana abbracciando di fatto l’identità cattolica. Quella stessa identità che, adesso, per mefistofelica gioco delle parti, si ostina, dal suo vertice, a respingere la Vergine quale Corredentrice nell’opera salvifica di Dio, relegandola a un glaciale “soltanto discepola e Madre”.

Nella notte del 24 dicembre, la temperatura scende a meno trentacinque gradi. Trincerati come topi sotto una terra che trema, pali e travi di sostegno incisi coi motivi di ghirlande e alberelli natalizi, alcuni si regalano sigarette, alcuni tozzi di pane risparmiati ai morsi della fame, altri si scambiano oggetti costruiti con le proprie mani. “Ognuno cercava di procurare un po’ di felicità agli altri”, racconta un ufficiale. È allora che il dottor Reuber deve comprendere il valore di quanto ha realizzato, ben più d’un ritratto compassionevole su di un pezzo di carta. Un miracolo è avvenuto, un sortilegio s’è infranto. Negli anfratti dei loro sudici rifugi, infatti, quella notte i topi hanno riacquisito la loro anima di uomini. “Restavano in piedi come in trance, devoti e troppo commossi per dire una parola di fronte al disegno appeso alla parete di fango”, porta il diario del dottore. “Per me non ho niente – gli fa eco un tenente che scrive a casa – eppure è stato uno dei Natali più belli e non lo dimenticherò mai”.

La promessa di truppe in soccorso non verrà mantenuta e in 95 mila cadranno prigionieri dall’Armata Rossa. L’ultima lettera di Reuber a sua moglie parrebbe vergata nell’ottimismo di chi si interroga sulla possibilità di una vita dopo la guerra. Ma, in realtà, essa cela la più intima meditazione di quanti, avendo perso tutto, attendono la sola promessa che sanno non verrà delusa, una Vita dopo la morte. Allora l’ottimismo si sublima in certezza, memori di quanto “Dio non è un uomo da potersi smentire, non è un figlio dell’uomo da potersi pentire. Forse Egli dice e poi non fa? Promette una cosa che poi non adempie?” (Numeri 23:19). San Paolo scriveva ai Corinzi: “In possesso dunque di queste promesse, carissimi, purifichiamoci da ogni macchia della carne e dello spirito, portando a compimento la nostra santificazione, nel timore di Dio”. Altrettanto fa Reuber, giungendo a identiche conclusioni, ormai portavoce di una generazione debole, che si era venduta ai miraggi di questa terra. “La concatenazione fra colpa e speranza ci ha aperto gli occhi sulla colpa. Così, alla fine, guardando in faccia la disgrazia, presi nella stretta della morte, quale ribaltamento dei valori è avvenuto in noi!”.

Il dottore e pastore Kurt Reuber non uscì mai dal campo di prigionia in cui venne confinato. Lì si conclusero i suoi giorni. Prima della cattura, però, seppe mettere in salvo su un aereo l’opera della sua vita, quella Madonna infreddolita e sofferente tutt’oggi esposta alla Gedächtniskirche di Berlino. Dono che ci consegna un Natale di guerra nemmeno troppo lontano.

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