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Il Codice Ratzinger. Una replica

Cari amici di Duc in altum, non sembri indelicato tornare sulla questione del “Codice Ratzinger” mentre dal Vaticano arrivano notizie sulle condizioni critiche di Benedetto XVI. Don Silvio Barbaglia ha preparato questo suo nuovo contributo nei giorni scorsi e ritengo opportuno pubblicarlo, a beneficio dei tanti che si interrogano con passione su una questione delicata. Naturalmente per Benedetto XVI sono le nostre preghiere.

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di don Silvio Barbaglia

In data 22 dicembre 2022 sul sito di liberoquotidiano.it (QUI) il giornalista Andrea Cionci, autore di Codice Ratzinger, ha voluto replicare alla recensione dello stesso suo libro da me pubblicata nel blog di Aldo Maria Valli (QUI), attraverso una preoccupata “reprimenda”, visti i contenuti della recensione tesi ad invalidare dalle fondamenta l’ipotesi di lavoro di Cionci. A lui va riconosciuto il merito di avere preso seriamente in considerazione quanto scritto.

Corre il dovere da parte mia spiegare in termini più eloquenti perché ciò che era sostenuto in quella recensione ha senso di essere e pone la posizione di Cionci – suffragata anche dalla consulente esperta, l’avv. Estefanía Acosta – tra le «ipotesi di lavoro» altamente improbabili nel dibattito attuale, in luogo di «tesi inequivocabile», come invece vorrebbe l’autore di Codice Ratzinger. Anzi, ciò che continuamente è detto «FALSO/ ERRORE» da Cionci e da Acosta nella mia precedente esposizione, verrà rispedito al mittente rispetto all’oggetto del contendere. Personalmente preferisco, di solito, esprimermi in altri termini come «infondato», «ingiustificato», «improbabile», «dubbio», ecc. Questo perché tutta la materia, necessariamente, è frutto di interpretazione e anche di fronte ai dati apparentemente più oggettivi e condivisibili c’è sempre chi vede l’ignoto e fa apparire cose insospettate; a volte anche con ragione ma spesso a torto e quindi si tratta di posizioni «infondate», «ingiustificate», ecc… Ma siccome il linguaggio di Cionci e dell’avv. Acosta è sempre e solo «bianco o nero», «giusto o sbagliato», «vero o falso» per farmi ben intendere da loro utilizzerò lo stesso linguaggio, ben conoscendo la vacuità di tale tipo di «dialettica oppositiva» in materia di giurisprudenza anche ecclesiastica (oltre che in tutti i campi del sapere), salvo pensare di essere i «depositari assoluti della verità».

Primo postulato: il «Codice Ratzinger esiste»! FALSO E VERO INSIEME

Il titolo del giornalista Aldo Maria Valli, nel suo blog alla recensione del libro Codice Ratzinger da me curata, diceva: «Il “Codice Ratzinger”? Non esiste» (QUI). Se per «Codice Ratzinger» s’intende quel che Cionci vuole provare nel suo libro – ovvero l’attestazione di una volontà chiara da parte di Ratzinger di parlare solo per chi «ha orecchie per intendere» con una «lettura “B”» delle sue parole, contro la «lettura “A”» comprensibile solo ai fans dell’antipapa Bergoglio – si può tranquillamente affermare che è FALSO, cioè non esiste alcun «Codice Ratzinger», ma, ahimè, solo e unicamente un «Codice Cionci», condiviso da una comunità di supporters ma niente più, come succede in ogni «ipotesi di lavoro», anche la più stramba che possa esistere… Quindi, ha ragione Aldo Maria Valli e ha torto Andrea Cionci!

Se invece per «Codice Ratzinger» s’intende la pubblicazione del libro di Andrea Cionci allora l’affermazione è VERA. Cioè, esiste un libro che vorrebbe far esistere nella mente di Ratzinger ciò che di fatto è solo nella mente di Cionci (e, in seguito, di altri con lui).

Per suffragare, però, tali affermazioni occorre mostrare quanto i dati raccolti e le relative interpretazioni di Cionci a sostegno del suo «Codice Ratzinger» possano essere sottoposti non solo a due letture, «A» (= bergogliana) o B (= benedettina), ma anche ad ulteriori interpretazioni, come accade normalmente per ogni affermazione o contesto semantico di natura non precisamente univoci in qualsiasi campo del sapere e dell’esistenza. Essendo biblista di professione so bene quanto il testo biblico, in molti suoi passaggi, abbia prodotto innumerevoli interpretazioni nella storia degli effetti… È chiaro, che nel conflitto delle interpretazioni, bilanciando le argomentazioni, si hanno ermeneutiche più probabili e altre meno. Ma queste sfumature tipiche di ogni dibattito sereno e insieme accalorato, penso, non interessino ad Andrea Cionci: a lui interessa solo il «bianco» o il «nero», la «verità» o la «falsità», Ratzinger o Bergoglio… tertium non datur! Sembra che i partiti siano solo due: o con Ratzinger o con Bergoglio! Anche gli anti-Bergoglio “una cum” sono definiti “masochisti” da Cionci perché invece di schierarsi con l’unico vero Papa, Benedetto XVI, terrebbero il piede in due staffe, riconoscendo il Papa in Bergoglio, ma contestandolo come fosse un «antipapa»… Ora, la precomprensione che guida Cionci – FALSA – è che ci sia in atto una lotta silenziosa da parte di Ratzinger per salvare la vera Chiesa cattolica dalla sua dissoluzione, architettata diabolicamente dalla «massoneria ecclesiastica» (la famigerata “Mafia di San Gallo”) e da altri poteri forti internazionali di cui Bergoglio sarebbe l’artefice in atto, come «antipapa». È una tesi doppiamente complottista: al complotto della «Mafia massonica di San Gallo» si oppone il complotto di Ratzinger attraverso un raffinato uso linguistico (un «Codice» speciale, suo proprio) al fine di garantire un istituto che salvi l’intera Chiesa di Cristo (il Papato in «sede impedita»); una sorta di lotta tra i «figli delle tenebre» e i «figli della luce»!!!

P.S.: Cionci & C. si collocano, chiaramente, tra i «figli della luce»! (chi scrive teme di finire rubricato tra i «figli delle tenebre»…).

Provo, da parte mia, ad ipotizzare una «lettura “C”» che vada oltre l’alternativa secca: «con Bergoglio contro Ratzinger» («lettura “A”») o «con Ratzinger contro Bergoglio» («lettura “B”») ed ipotizzo di leggere le fonti e i dati offerti entro una nuova relazione sistemica, così espressa: «Ratzinger, unito spiritualmente a Bergoglio e Bergoglio, unito spiritualmente a Ratzinger» («lettura “C”»).

Cerco anzitutto di dettagliare tale lettura e poi mi avventuro a rileggere i testi e i dati del dibattito.

a) Le caratteristiche della «lettura “C”»

Occorre comprendere anzitutto la «dimensione umana e personale» del munus/ officium/ ministerium petrinum: i dibattiti canonistici, fini a sé stessi, rischiano di ingripparsi perché incapaci di prevedere la variante umana (psicologica, sociale e culturale dell’eletto Papa) e personale (spirituale, di esperienza ecclesiale e pastorale pregressa dell’eletto Papa) nell’interpretazione del munus/ officium/ ministerium petrinum. Infatti, normalmente l’elezione di un nuovo Papa avviene quando il precedente è defunto e ciò impedisce una sorta di “convivenza” tra importanti esperienze sullo stesso campo, una conclusa e l’altra incipiente. Tale fenomeno si presenta regolarmente nella successione episcopale rispetto ad una Diocesi, oppure nella successione tra Parroci rispetto ad una Parrocchia o in genere nel passaggio di munera o officia nella Chiesa. Chi lascia l’ufficio rinuncia alla potestas con il suo esercizio per quell’ufficio ma non per questo non resta unito spiritualmente alla vita e all’attività di quell’ufficio. E questo appare assolutamente normale nel migliore dei casi, quando non accade invece che ci siano ingerenze rispetto alla potestas iurisditionis: allora il problema lì si pone seriamente. Il fenomeno della compresenza di due Pastori – uno che ha esercitato e l’altro che sta esercitando l’ufficio di Romano Pontefice – si presenta solo come eccezione nella storia della Chiesa e il tutto sembra più sofisticato e complicato. L’intrigo della questione si sviluppa nei dibattiti canonici su ciò che, invece, può essere interpretato sul fronte della fede e della spiritualità, da parte di colui che rinuncia al munus/ officium/ ministerium petrinum. In altre parole: è lecito o non è lecito ad un Papa che ha rinunciato al munus/ officium/ ministerium petrinum continuare a pregare per il Papa regnante, per tutta la Chiesa, per l’intero corpo dei Vescovi stando entro le Mura Vaticane, vestendo in modo simile al Papa, facendo parte del collegio episcopale romano? Pur prestandosi alcune di queste scelte (esteriori) ad equivoci – e vedi la battaglia che ne è scaturita – credo proprio che sia assolutamente lecito e comprensivo dal punto di vista umano e spirituale. Dopo quasi otto anni di esperienza in quell’ufficio ecclesiale è difficile disfarsene radicalmente e forse non è neppure giusto. Ciò che conta è rinunciare liberamente e pienamente alla potestas e al suo relativo uso, che proviene ecclesialmente dal munus/ officium/ ministerium ma, in ultima istanza, da Cristo stesso. Per questo, sebbene discussa in quanto situazione eccezionale, la scelta del titolo di «Papa emerito» e del relativo indirizzo di referenza come «Sua Santità» è ciò che permette di stabilire una sorta di partecipazione spirituale al munus/ officium/ ministerium del Papa regnante, sostenendolo nella preghiera come fu per il monaco Benedetto.

In sintesi, Papa Benedetto XVI con la sua rinuncia non avrebbe voluto cancellare lo stile orante del «ministero petrino», vissuto per circa otto anni della sua vita; ha fatto la scelta di restare sempre e per sempre unito spiritualmente nella preghiera al Papa regnante, alla Chiesa nella sua totalità e al Collegio dei Vescovi, rinunciando alla potestas iurisditionis del primato petrino e trattenendo solo quella parte che segna l’esperienza ministeriale di ogni Pastore, cioè la vita nello Spirito, guadagnata dall’esercizio del ministero. Pensare che la spiritualità di un Papa muti perché ha rinunciato al ministero petrino è come chiedere ad un Vescovo che ha amato e pregato per il popolo di Dio della Diocesi in cui era titolare di dimenticarsi del Presbiterio, del popolo di Dio e di quell’esperienza vissuta lungo anni preziosi della propria esistenza.

Di risposta, Papa Francesco più volte ha manifestato privatamente e pubblicamente la sua grandissima stima per il Papa emerito Benedetto XVI, superando anche certe formalità da protocollo. Credo non ci sia nulla di pubblico e conosciuto che possa documentare astio, contrapposizione e discredito tra le due personalità, sia in una direzione come in un’altra. Nessuna forma di ingerenza nell’esercizio della potestas di Papa Francesco da parte del Papa emerito Benedetto XVI, ma solo rispetto delle reciproche missioni tra loro complementari. L’immaginario apocalittico dello scontro titanico tra Papa e antipapa è un prodotto extra moenia rispetto alla vita dei due protagonisti dell’intrigo intra moenia.

A suggello di questa sintetica esposizione della «lettura “C”» porrei due passaggi di un noto intervento del 21 maggio 2016 (QUI) di S.Ecc. mons. Georg Gänswein relativo alla vita e al ruolo del Papa emerito Benedetto XVI e un passaggio dello stesso Benedetto XVI intervistato da Peter Seewald.

S.E. mons. Georg Gänswein:

Come ai tempi di Pietro, anche oggi la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica continua ad avere un unico Papa legittimo. E tuttavia, da tre anni a questa parte, viviamo con due successori di Pietro viventi tra noi – che non sono in rapporto concorrenziale fra loro, e tuttavia entrambi con una presenza straordinaria!

Come può Benedetto XVI cancellare dalla propria vita e dalla propria spiritualità l’avere ricoperto per circa otto anni della sua esistenza terrena la successione di Pietro? Così da condividere entro le stesse mura vaticane quest’esperienza vissuta con il suo successore legittimo, papa Francesco.

Sull’interpretazione di un «ministerium allargato» (per nulla riferita all’aspetto pratico) più avanti mons. Gänswein afferma:

Dall’elezione del suo successore Francesco il 13 marzo 2013 non vi sono dunque due papi, ma de facto un ministero allargato – con un membro attivo e un membro contemplativo. Per questo Benedetto XVI non ha rinunciato né al suo nome, né alla talare bianca. Per questo l’appellativo corretto con il quale rivolgerglisi ancora oggi è “Santità”; e per questo, inoltre, egli non si è ritirato in un monastero isolato, ma all’interno del Vaticano – come se avesse fatto solo un passo di lato per fare spazio al suo successore e a una nuova tappa nella storia del papato che egli, con quel passo, ha arricchito con la “centrale” della sua preghiera e della sua compassione posta nei Giardini vaticani.

L’avere vissuto pienamente per quasi otto anni il «ministero petrino» permette al Papa emerito di continuare ad essere unito in questo ministero al suo successore Francesco, attraverso un «ministero orante e contemplativo» in continuità con il precedente «ministero attivo», ora vissuto ed esercitato da Papa Francesco. Ben si comprende quanto una lettura meramente canonicistica di queste parole di mons. Gänswein sia incapace di restituire senso alla scelta operata dal Papa emerito il cui fondamento non è canonico entro una prospettiva oggettiva dell’Ufficio ecclesiastico bensì personale, spirituale e contemplativo. Certo questo fa di Benedetto XVI un innovatore circa tale prassi legata alla categoria di un «ministero contemplativo», finora non ancora attuata ma probabile nel futuro della storia della Chiesa.

Inoltre, di fronte all’obiezione di avere secolarizzato il ministero petrino, non più un ministero senza eguali ma un incarico come un altro, Benedetto XVI risponde al giornalista Peter Seewald:

[…] Prima nemmeno il vescovo poteva lasciare il posto e molti di loro dicevano: io sono «padre» e tale rimango per sempre. Non si può semplicemente smettere di esserlo: significherebbe conferire un profilo funzionale e secolare al ministero, e trasformare il vescovo in un funzionario come un altro. Io qui devo però replicare che anche un padre smette di fare il padre. Non cessa di esserlo, ma lascia le responsabilità concrete. Continua ad essere padre in un senso più profondo, più intimo, con rapporto e una responsabilità particolari ma senza i compiti del padre. E questo è successo anche con i vescovi.

In ogni caso, nel frattempo si è capito che da un lato il vescovo è portatore di una missione sacramentale, la quale lo vincola nel suo intimo, ma dall’altro non deve restare in eterno nella sua funzione. E così penso sia chiaro che anche il papa non è un superuomo e non è sufficiente che sia al suo posto: deve appunto espletare delle funzioni. Se si dimette, mantiene la responsabilità che ha assunto in un senso interiore, ma non nella funzione. Per questo a poco a poco si capirà che il ministero papale non viene sminuito, anche se forse risalta più chiaramente la sua umanità[1].

Questo passaggio aiuta a capire meglio il senso di un «ministero attivo» e un «ministero contemplativo», dove la potestas iurisdictionis è tutta afferente al «ministero attivo» che ha nulla a che fare con i termini canonici di certa esegesi che vuole contrapporre munus a ministerium, intendendo il primo come titolo di Papa con tutta la sua potestas iurisdictionis e il secondo come l’esercizio pratico del fare il Papa. Piuttosto questo modo d’intendere cerca di preparare casi in cui anche un altro Papa regnante decida di rinunciare al munus/ officium/ ministerium petrinum e continuare interiormente, come dimensione spirituale, a sostenere il «ministero petrino» esercitato dal Papa regnante. Altri aspetti saranno ripresi verso la fine dell’esposizione.

Questa, in sintesi, la «lettura “C”» che vogliamo utilizzare quale filtro interpretativo dei dati.

Cionci afferma nella sua risposta alla mia recensione:

Ovviamente, se su 100 dichiarazioni di papa Ratzinger, tutte e 100 sono costruite per consentire un’interpretazione logico-linguistica “B” opposta alla narrativa ufficiale “A”, questo deposita una certezza inequivocabile: il fatto che egli stia comunicando in un modo sottile, schermandosi sempre dietro una lettura “A” che funge da indispensabile “foglia di fico” bergogliana, in quanto è impedito nell’esprimersi liberamente. Insomma, Benedetto agli occhi del suo impeditore Bergoglio deve figurare sempre a posto. Ma intanto dice la verità ai veri fedeli.

Perché la «lettura “B”» si declini è necessario, come scaturisce dall’immagine complottistica ideata, che Ratzinger sia un po’ come un «attore», che sappia fingere bene… eppure, come ricorda chi lo conosce da vicino, mons. Gänswein non fu e non è tutto questo:

Benedetto non è stato un “papa attore”, e ancor meno un insensibile “papa automa”; anche sul trono di Pietro è stato ed è rimasto un uomo; ovvero, come direbbe Conrad Ferdinand Meyer, non fu un “libro ingegnoso”, fu “un uomo con le sue contraddizioni”. È così che io stesso l’ho potuto conoscere e apprezzare quotidianamente. E così è rimasto sino a oggi (QUI)

Al seguito cerco di mostrare che su ogni punto qui preso in considerazione (poiché ci vorrebbe un libro altrettanto ampio per operare su tutti gli aspetti della questione) la «lettura “C”» da me proposta appare assolutamente logica, coerente e soprattutto verosimile alla luce di un sensus fidelium et ecclesiae in una logica comunionale. Il metro di valutazione per la «lettura “C”» non è solo l’aspetto «logico-linguistico» dei testi, bensì la persona e la spiritualità, come variabili non indifferenti per la valutazione del caso, elementi esclusi dall’analisi di Cionci che lo portano a costruire una teoria unicamente testuale, logico-linguistica ma deconstestualizzata per farla funzionare secondo un proprio codice mentale per nulla inerente al mistero delle relazioni tra le persone ancora viventi (il Papa emerito e il Papa regnante), in qualità di ministri sacri.

b) «Lettura “B”»: se Ratzinger e Gänswein non reagiscono al flusso di articoli e informazioni provenienti da liberoquotidiano.it e dal bestseller Codice Ratzinger significa che sono d’accordo con la tesi del libro e del suo autore. FALSO

Suggerirei a Cionci, per la prova del nove di tale deduzione, di spedire a don Minutella un’altra lettera falsa (QUI) con carta intestata e firma copiata di mons. Gänswein in cui si attesta che Ratzinger sostiene l’opera di don Minutella, non celebra in unione con Bergoglio e gli impartisce la sua Benedizione apostolica… Temo che anche in questo caso mons. Gänswein intervenga prontamente a smentire la notizia con l’accusa di falso; anzi per lui sarebbe finalmente l’occasione per chiedere di porre fine a questa storia del doppio complotto che fa crescere l’opera del divisore nella Chiesa oggi! Provare per credere…

Ipotesi d’interpretazione della «lettura “C”»: il Papa emerito Benedetto XVI e il suo segretario avendo compreso l’andazzo giornalistico di stampo complottista di Cionci si guardano bene dall’intervenire anche solo per una risposta nel merito del Codice Ratzinger, ben conoscendo lo stile dell’autore di rivoltare tutto a proprio vantaggio, facendo vedere «lucciole per lanterne» ma, soprattutto, per cercare di tutelare fino in fondo quel ritiro in preghiera, scaturente dalla rinuncia al Pontificato[2]. Infatti, il segretario mons. Gänswein aveva già precedentemente inviato una lettera a Cionci il 27 ottobre 2021[3] nella quale comunicava l’impossibilità di dar seguito alla richiesta per un’udienza privata. E il segretario conclude con queste parole: «Al riguardo, mi corre l’obbligo di informaLa a nome del Santo Padre emerito che, pur con ogni buon intento, non è proprio possibile venire favorevolmente incontro al Suo desiderio». Va anzitutto apprezzata la costanza della segreteria vaticana sempre capace di rispondere a tutti, dalle persone importanti fino alle più semplici e ignote, e questo è bello; ma da lì a pensare che quella lettera con una forma di cortesia standard sia stata scritta per comprendere che alle parole «non è proprio possibile venire incontro al suo desiderio» corrisponda nella «lettura “B”» di Cionci: «Sì, sono l’unico papa regnante, vorrei darle udienza, ma proprio non posso, perché sono in sede impedita» ci vuole tutta!!! La «lettura “C”» ritiene che, conosciuto lo stile complottista praticato dal giornalista richiedente, fosse più prudente dare un “menavia” gentile e inattaccabile per evitare un montare ulteriore della questione. Ed ecco spiegato perché sia Ratzinger come Gänswein si guardano bene dal reagire a tali teorie inconsistenti appartenenti alla «lettura “B”».

c) «Lettura “B”»: Papa Benedetto, nella sua mitezza e correttezza, se non fosse lui il vero papa in «sede impedita» mai si sarebbe vestito di bianco, con un nome pontificale, con il titolo Pater Patrum; se così ha deciso di fare è perché è lui l’unico vero Papa. FALSO

Ipotesi di interpretazione della «lettura “C”»: è proprio per quella stessa mitezza e correttezza che nasce da una profonda spiritualità del Papa emerito che nell’ultima udienza in Piazza San Pietro il mercoledì 27 febbraio del 2013 ha espresso il desiderio di non ritornare alla «vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera» ma di continuare a stare presso il Signore Crocifisso: quell’esperienza spirituale, intima e insieme comunitaria del portare le sofferenze dell’intera Chiesa poteva continuare ad essere spiritualmente vissuta, nonostante Papa Benedetto XVI avesse deciso di rinunciare alla potestà dell’ufficio per il governo della Chiesa. La scelta di rinunciare alla propria privacy, tipica di chi assume il ministero petrino, per Papa Ratzinger avrebbe potuto avere seguito nella sua vita spirituale, con un ministero della preghiera, restando nel recinto di Pietro. La persona di Benedetto XVI sia da Papa regnante come da Papa emerito ha continuato a declinare uno stile orante presso il Signore Crocifisso, rinunciando a quella privacy «per sempre»; in questo senso anche alcuni segni esteriori, secondo la sua scelta personale, hanno voluto documentare questa sua volontà interiore: una continuità con il colore bianco del vestito, solo veste talare, senza la mozzetta, la fascia e le scarpe rosse per marcare la differenza con il prima; assunzione del titolo di «Papa emerito» in analogia al vescovo non più titolare di una Diocesi, continuando ad amare e a pregare per la Sede Pontificia ricoperta da Papa Francesco… Insomma, una continuità in alcune formalità esterne per rappresentare la scelta interiore di carattere non giuridico ma spirituale, rinunciando completamente all’ufficio del governo della Chiesa universale. Si tratta di comprendere la dimensione spirituale di Papa Benedetto, secondo il sensus fidelium e il sensus ecclesiae, e non certo del «fantoccio giurista Ratzinger» che alla scuola dell’azzecca-garbugli di manzoniana memoria avrebbe illuso il popolo di Dio in Piazza San Pietro e in mondovisione, giocando con il latinorum munus e ministerium per occultare il piano segreto, svelato solo nove anni dopo dal genio della «lettura “B”».

A conclusione di questi primi due punti Cionci afferma:

Basterebbero solo questi due dati di fatto per liquidare la contestazione in oggetto, ma andiamo fino in fondo anche per dare una risposta definitiva ad altri avversari, italiani e stranieri.

Lascerei al lettore esprimere un giudizio di verosimiglianza rispetto alla realtà tra le due letture “B” e “C”, quale è VERA e quale è FALSA.

d) «Lettura “B”»: Papa Benedetto si è attribuito il titolo di «Papa Emerito», dal latino emereo in quanto è l’unico degno, l’unico che merita, che ha diritto al titolo di papa, anche se ha dovuto di fatto rinunciare all’esercizio del potere pratico. FALSO [4]

Sebbene non esista alcuna normativa sul titolo da acquisire da parte di un Papa rinunciatario, alcuni esperti di Diritto Canonico si sono espressi anche in senso critico sulla scelta operata, sostenendo che si tratti di una titolazione non conforme. La valutazione chiaramente è stata di tipo canonistico. Ma nella mente di Cionci questo è solo il primo passaggio, il secondo invece è che l’espressione scelta da Papa Benedetto XVI è corretta in quanto egli stesso avrebbe coscienza di essere l’unico Papa che «merita essere Papa», quindi per questo chiamato “emerito”!

Ipotesi di interpretazione della «lettura “C”»: va sottolineato, anzitutto, che il titolo di «Papa» non compare mai in tutto il CDC: quindi è una titolazione da collocarsi al di fuori dello stesso; anche nei documenti ufficiali il titolo è «Sommo Pontefice», «Romano Pontefice», «Santo Padre» e solo eccezionalmente «Papa». Invece a livello popolare e nella comunicazione informale prevale il titolo di «Papa» sugli altri quando ci si riferisce al «Romano Pontefice». Il fatto che poi sia un titolo antico (dal III sec.) ed ancora oggi estendibile oltre il Romano Pontefice (ad es.: al Patriarca di Alessandria dei Copti o al Patriarca greco-ortodosso di Alessandria) permette un uso non tecnico in senso stretto, in quanto non appartenente unicamente al Romano Pontefice regnante legittimo, nello specifico Francesco. Così la scelta di «Papa emerito» non andrebbe primariamente interpretata in senso canonistico bensì «spirituale» e «personale» al fine di stabilire una linea di vicinanza e di congiunzione con l’unico Papa, cioè Francesco, il Collegio dei Vescovi e la Chiesa tutta. Credo che dobbiamo essere grati al Papa emerito per tutto questo!

Va detto, inoltre, che il significato nella lingua italiana dell’aggettivo «emerito» dipende molto dalla posizione ricoperta rispetto al sostantivo che accompagna. Se l’aggettivo è in posizione attributiva (ad es.: un emerito studioso) il significato è in effetti «insigne, degno», se invece si trova in posizione predicativa (ad es.: Papa emerito) è normalmente utilizzato rispetto a cariche non più rette ma che conservano l’onore e il grado. Pertanto, perché possa avere un qualche senso la «lettura “B”» l’espressione avrebbe dovuto essere «Emerito Papa». Anche solo per la semantica dell’espressione in oggetto la «lettura “B”» risulta FALSA. Ma c’è di più. Per suffragare tale ipotesi di lettura, ovvero che il titolo sia corretto e vada inteso come indicatore dell’unico Papa autentico in Benedetto XVI, il Cionci trascrive e fotografa la lettera (QUI) di risposta del Papa emerito Benedetto XVI inviata il 13 novembre 2021 da mons. Roberto Cona, già Assessore per gli Affari generali della Segreteria di Stato, ad una signora il cui nome non è riportato neppure nel corpo della lettera, nella quale ritroviamo l’utilizzo di tre titoli: «Papa emerito», «Sommo Pontefice» e «Papa Benedetto». Cionci si premura di affermare con certezza che non può essere un errore o una svista, argomentando come segue:

Che l’utilizzo del titolo “Sommo Pontefice” sia stato un errore del funzionario latore della risposta? Impossibile: si tratta di mons. Roberto Cona, un fior di diplomatico con lunga esperienza, nominato da Bergoglio nel 2019 assessore per gli Affari generali alla Segreteria di Stato. Egli non può avere commesso uno sbaglio su un titolo così importante, tantomeno il 13 novembre 2021, nel pieno di questa inchiesta-querelle notissima. Mons. Cona non ha responsabilità: avrà dovuto certamente trasferire alla signora Loretta le parole esatte che gli ha passato Benedetto XVI, papa emerito e Sommo Pontefice[5].

Spiace contraddire tanto entusiasmo nell’avere intercettato una siffatta testimonianza autentica uscita dalla Segreteria di Stato vaticana (che è anzitutto al servizio del papa regnante Bergoglio), la stessa che invia regolarmente migliaia di lettere private da parte di Papa Bergoglio, chiamando anch’egli Sommo Pontefice e Papa, ma non certo “Papa emerito”. Da fonti sicure e interne ho potuto apprendere che invece si trattò di una svista – di fatto di un erorre – causata dalla volontà di non ripetere per tre volte la stessa titolazione «Papa emerito», una sorta di scelta stilistica ma poi sfuggita alla lettura ultima per un controllo d’idoneità testuale. Lanciata la notizia da Cionci il 2 gennaio 2022 su liberoquotidiano.it (QUI) si ritenne di non fare comunicati o rilasciare dichiarazioni sia a motivo del fatto che si trattava di una lettera privata e non di un documento ufficiale (di fatto una delle centinaia e centinaia di lettere che vengono inviate ogni mese in risposta dalla Segreteria di Stato) sia per lo stesso motivo sopra esposto: ovvero per non permettete che lo scoop montasse ulteriormente, cioè per non dare importanza alla cosa, come spesso si fa negli ambienti diplomatici (vedi sopra anche il probabile atteggiamento tenuto dal segretario mons. Gänswein). D’altra parte, se ciò che asserisce il Cionci avesse anche un appiglio di verità dovremmo ritrovare tra le centinaia e centinaia di missive tale fenomenologia, invece, per fortuna fu una svista isolata, come succede anche nelle migliori cancellerie. Temo, però, che anche qualora la Segreteria di Stato vaticana avesse dato spiegazioni sarebbe stata subito pronta la replica di Cionci motivando la cosa come un ordine di scuderia uscito dalle fila bergogliane per evitare di far conoscere la verità su Benedetto! Infine, la Signora Loretta P. stessa, invece di rivelare la sua corrispondenza privata al mondo intero, se avesse scritto gentilmente a mons. Cona per chiedere ragione di tutto ciò, probabilmente avrebbe ricevuto indicazioni dirette e contestuali per spiegare le sviste della lettera, ma ha preferito seguire anche lei la logica del complotto, pazienza…

e) «Lettura “B”»: poiché Papa Benedetto ha affermato che nessun Papa si è dimesso per mille anni e anche nel primo millennio fu un’eccezione, o si ammette di dover dargli 2 in Storia della Chiesa oppure, non c’è altra possibilità: non sta parlando di abdicazione bensì di dimissioni unicamente dal ministerium ma non dal titolo di Papa (munus). FALSO

Diamo la parola a Cionci per questo punto:

In Ultime conversazioni, il giornalista Seewald chiede a Benedetto XVI: «Con lei, per la prima volta nella storia della Chiesa, un pontefice nel pieno ed effettivo esercizio delle sue funzioni si è dimesso dal suo “ufficio”. C’è stato un conflitto interiore per la decisione?

Risposta di papa Ratzinger: «Non è così semplice, naturalmente. Nessun papa si è dimesso per mille anni e anche nel primo millennio ciò ha costituito un’eccezione: perciò una decisione simile la si deve ponderare a lungo. Per me, tuttavia, è apparsa talmente evidente che non c’è stato un doloroso conflitto interiore».

Ora questa è un’affermazione antistorica, dato che negli “ultimi mille anni” (1016-2016) ci sono stati ben quattro papi che hanno rinunciato al trono, (tra cui il famoso Celestino V, nel 1294) e, nel primo millennio del papato (33-1033), ce ne sono stati altri sei. Forse papa Ratzinger non conosce bene la storia della Chiesa? [6]

È chiaro per Cionci e per la gran parte dei suoi lettori che Benedetto stia dividendo tutta la storia della Chiesa in duemila anni, i primi a cui fa riferimento apparterrebbero al secondo millennio, mentre i secondi al primo millennio; e da qui il problema come possa Benedetto non conoscere la storia della Chiesa del secondo millennio! Pertanto, la «lettura “B”» cerca di risolvere affermando che la sua non fu un’abdicazione al Soglio pontificio ma semplicemente una dimissione dall’esercizio del fare il Papa; quindi nessuno nel secondo millennio può essere paragonato al suo caso. Mentre nel primo millennio afferma che «ha costituito un’eccezione» cosa che vede rintracciabile nella vicenda di Papa Benedetto VIII cacciato dall’esercizio del suo ministero dall’antipapa Gregorio VI trattenendo il munus e poi ritornato sul Soglio di Pietro. La «lettura “B”» appare così strana che ci obbliga ad andare a verificare nel testo originale in tedesco il dettato ufficialmente approvato dell’intervista di Seewald a Ratzinger.

E così passiamo alla «lettura “C”» con il confronto delle versioni originale e in traduzione italiana, ricordando la domanda dell’intervistatore che gravita attorno alla sua «decisione» e non ad un bilancio preciso di queste nella storia dei Papi: «C’è stato un aspro conflitto interiore per giungere a questa decisione?»:

Das ist natürlich nicht ganz leicht. Nachdem[7] tausend Jahre kein Papst zurückgetreten ist und es auch im ersten Jahrtausend eine Ausnahme war, ist es eine Entscheidung, die man nicht leicht fällt und die man immer wieder herumwälzen muss. (Edizione tedesca, testo di Peter Seewald, p. 38) [8].

Non è così semplice, naturalmente. Nessun papa si è dimesso per mille anni e anche nel primo millennio ciò ha costituito un’eccezione: perciò una decisione simile non risulta facile e la si deve ponderare a lungo. (Edizione italiana, traduzione di Chicca Galli, p. 31)

Naturalmente non è affatto facile. Poiché per un migliaio di anni nessun papa si è dimesso e nel primo millennio era addirittura un’eccezione, questa è una decisione che non si assume facilmente e sulla quale si deve continuamente ritornare (Versione italiana di Silvio Barbaglia) [9].

Come si può osservare, è vero che nel modo di tradurre di Chicca Galli resta l’incomprensione di come il Papa emerito possa avere affermato l’inesistenza di casi di dimissioni papali nello scorso millennio unitamente ad eccezioni per il primo millennio con una struttura del periodo che pone le due espressioni come proposizione principale. Se si ritorna all’originale tedesco – passato al vaglio del Papa emerito prima della pubblicazione – occorre osservare che i due membri dell’espressione hanno in oggetto la stessa dimensione temporale e cioè il primo millennio e sono entrambi frasi dipendenti della principale al seguito di questi. Anche la virgola del testo originale tedesco rispetto ai due punti della versione italiana della Galli fa la differenza: l’espressione punta l’attenzione sulla qualità della «Entscheidung/ decisione» contenuta nella proposizione principale. Che non si tratti poi di un’affermazione valida per il secondo millennio abbiamo la riprova che Benedetto conosca almeno il caso di Celestino V (1294); infatti, nel testo Benedetto XVI. Una vita sempre di Peter Seewald è lo stesso Ratzinger a distinguere quelle dimissioni dalle sue. Osserviamo i due sintagmi in oggetto di discussione.

+ «Poiché per un migliaio di anni nessun papa si è dimesso…»

Cionci basandosi sulla traduzione italiana di Chicca Galli adatta il testo della traduzione al senso apparente riportando il virgolettato: «nessun papa si è dimesso negli ultimi mille anni». Il problema è che il testo anche nella versione italiana non riporta «negli ultimi…» bensì solo «per mille anni…» che nell’arco di duemila anni circa di storia della Chiesa possono riferirsi anche ai penultimi, cioè al primo millennio come pare più logico dalla traduzione sopra offerta.

+ «e nel primo millennio era addirittura un’eccezione»

Il secondo sintagma precisa l’affermazione generica del primo e vi aggiunge una valutazione storica. In effetti, se si osservano i casi catalogati del primo millennio (QUI) oltre che essere pochi sono tutti sotto costrizione, con dimissioni per nulla libere ma forzate e quindi non equiparabili alla rinuncia pronuncia da Benedetto XVI; per quelle scarsamente documentate, di Papa Clemente I (anno 97) e di Papa Marcellino (25 ottobre 304), sono dubbi i motivi. E quindi tutto torna senza invocare strane alchimie praticate dalla «lettura “B”».

f) Ripresa dei due esempi di Codice Ratzinger contestati da Cionci

Così si esprime Cionci:

Don Barbaglia poi affronta l’analisi di appena DUE SOLI codici Ratzinger, scelti oculatamente – su un centinaio – proprio tra quelli più sottili e anfibologici ignorando quelli più clamorosi, diretti e plateali ai quali abbiamo già accennato. La scelta di don Barbaglia è caduta su quelli che, per stessa ammissione dello scrivente, sono tra i più geniali e complessi messaggi per far passare l’autore, agli occhi dei lettori, per un matto cervellotico.

Ma su entrambi i codici analizzati, don Barbaglia sbaglia il metodo critico (QUI).

E il metodo critico da me sbagliato sta nel fatto che non ho capito che esiste la «lettura “B”» rispetto alla «lettura “A”», quella bergogliana del mainstream che avrei utilizzato nel primo scritto, una lettura che Papa Benedetto utilizzerebbe per i non iniziati, i quali invece possono accedere alla «lettura “B”». Riconosco di non essere iniziato alla «lettura “B”» e aggiungo: per fortuna! Ma come ho presentato le cose finora e lo ribadisco subito al seguito, riprendendo gli esempi già commentati, il mio modo di procedere non appartiene né al codice denominato da Cionci «lettura “A”» (filo bergogliana) e neppure «lettura “B”» (filo benedettina) in quanto la distinzione sta solo nel tabulario del «Codice Cionci» e non nella realtà. Secondo i criteri sopra esposti, continuando sulla stessa linea che ho denominato «lettura “C”», si possono fare le seguenti affermazioni.

+ La questione dell’inversione dell’espressione da «Sommo Pontefice» a «Pontefice Sommo»

Cionci fa finta di non vedere il fuoco della mia contestazione e la gira a suo vantaggio dicendo che se l’utilizzo di «Pontefice Sommo» è attestato da usi storici va solo a vantaggio del genio di Benedetto, nonostante che nel suo libro abbia affermato: «Egli dice che non sarà più “pontefice sommo”, ma il titolo papale è “Sommo Pontefice” (Summus Pontifex): non ci sono discussioni. “Pontefice sommo” non esiste»! Invece esiste e non con il significato che Cionci vorrebbe, ma con l’identico significato di «Sommo Pontefice» che è il titolo ufficiale dei documenti ecclesiali e del Diritto Canonico. Basta sentire il parlato di quella sera a Castel Gandolfo (QUI) per rendersi conto che giunto alla pronuncia dell’espressione si è fermato quasi incerto e ha pronunciato «Pontefice Sommo» come succede a chiunque quando pronunci una titolazione ma inverte i termini, può accadere a chiunque, anche al Papa; e poi definisce se stesso, in modo evocativo, come «pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio su questa terra»! Ribadisco dunque il giudizio espresso nel primo testo:

Basta riguardarsi il video per comprendere quanto occorra essere in avanzata cattiva fede per immaginare l’inganno sortito secondo l’ipotesi di lavoro di Cionci!

+ La questione della mozzetta rossa

Lasciamo la parola ancora a Cionci:

Questa infatti è la lettura più “economica” e facilona: la lettura “A” ad usum dei bergogliani, ma è incoerente e disfatta. Infatti suona decisamente stonato dire “anche noi eravamo in bianco” se Benedetto e i papi precedenti, all’elezione, invece indossavano la mozzetta rossa. La frase è costruita sapientemente in modo da significare anche, letteralmente che la “scelta” di Bergoglio, quella di vestirsi di bianco, non poteva essere una scelta se fosse stato regolarmente eletto papa: sarebbe stata un obbligo. Poteva essere una scelta solo in caso di colpo di stato, perché Bergoglio non voleva accontentarsi della mozzetta rossa – da cardinale – che gli spettava, ma ha scelto di indossare abusivamente la veste bianca da papa. Non è immediato, ma logicamente fila, c’è poco da fare (QUI)

Logicamente non fila per niente! Mi domando che razza di indicazioni e fonti abbia Cionci per decretare che Bergoglio eletto Papa sarebbe stato obbligato ad indossare la mozzetta rossa da cardinale (quando non è da cardinale, si tratta di una mozzetta specifica per il Papa!!!) e siccome ha indossato la veste pontificia in bianco avrebbe commesso un abuso opponendosi all’obbligo e quindi questo diventa elemento certo per affermare che lui non poteva essere Papa validamente eletto? Ci vuole davvero una disponibilità oltre il limite della ragione per accogliere queste riflessioni che l’autore continua a chiamare “logiche”; non so a quale scuola di logica si riferisca ma non certo a quella della tradizione greca occidentale.

g) Conclusione sul Codice Ratzinger

Al termine della contestazione richiamo questa richiesta di Cionci:

La contestazione deve, invece, dimostrare che non sia logicamente e linguisticamente possibile anche la lettura “B” benedettina.

Infatti! Spero che queste pagine risultino almeno sufficienti con gli esempi a mostrare l’incoerenza logica e la debolezza dell’analisi linguistica della «lettura “B”», ovvero FALSA, facendo emergere, di contro, la coerenza piena della «lettura “C”». Oppure, in altri termini: spero di avere mostrato quanto l’interpretazione che ho cercato di esporre possa presentare un dato di coerenza e di verosimiglianza alla realtà oggetto del contendere rispetto all’incoerenza e all’inverosimiglianza dell’«ipotesi di lavoro» di Cionci.

Secondo postulato: «munus» e «officium» possono essere sinonimi di «ministerium» ma «ministerium» non può mai essere sinonimo di «munus» e «officium». FALSO

La tanto conclamata divisione netta nei due enti del «munus» e del «ministerium» architettata dal card. Ratzinger e da Papa Giovanni Paolo II, rifacendosi al mitico Fürstenrecht germanico per mettere in atto un piano antiusurpazione, si riduce miseramente nelle sue fonti ad un confronto terminologico nell’elenco dei canoni del CDC per dire che «munus» e «officium» possono essere sinonimi di «ministerium» mentre laddove ricorre il lemma «ministerium» non si dà sinonimia con «munus» e «officium»! Un po’ poco per reggere l’intero castello probatorio costruito dal Codice Ratzinger ma soprattutto non si trova traccia di tale volontà di separazione netta tra «munus» e «ministerium» per contrastare un golpe in Vaticano!!! Ma tutto questo appartiene alla cornice complottista…

1) L’inconsistenza della distinzione tra ESSERE e FARE

Veniamo invece alle cose serie. È davvero fondato affermare che «munus» e «officium» sono utilizzati nel CDC anche come sinonimi di «ministerium» mentre «ministerium» non è mai usato come sinonimo di «munus» e «officium»? Ecco in sintesi la posizione dell’avv. Estefanía Acosta a fondamento dell’ipotesi diffusa da Cionci:

“officium” e “munus” hanno due significati: “ESSERE” (ufficio, carica, posizione) e “FARE” (funzione, compito, servizio ecc.); “ministerium” ha un solo significato: “FARE” (funzione, compito, servizio ecc.). Cioè, “officium” e “munus” hanno un significato che “ministerium” non ha. [Per questo la rinuncia al “ministerium” non è valida, perché la parola “ministerium” non si riferisce MAI a “ufficio” o “carica”] (QUI)

Il teorema è chiaro ma occorre verificare se corrisponde a realtà. Poiché si richiama l’opposizione tra ESSERE e FARE occorre domandarsi, anzitutto, se sia fondata teologicamente e quindi anche canonicamente in una teoria ecclesiale del Vaticano II da cui dipende la riforma dello stesso CDC del 1983. Tale distinzione è solo formale secondo l’adagio della metafisica classica «operari sequitus esse» ma non interpreta la natura canonica del «munus» e dell’«officium». Infatti, come giustamente ricorda anche la Acosta occorre leggere con attenzione il can. 145 § 1 del CDC che definisce la natura dell’«officium»:

L’ufficio ecclesiastico (Officium ecclesiasticum) è qualunque incarico (munus), costituito stabilmente per disposizione sia divina sia ecclesiastica, da esercitarsi (exercendum) per un fine spirituale (CDC 145 § 1).

Da tale definizione si apprende che l’«officium ecclesiasticus» corrisponde a qualunque «munus», che va inteso come «incarico», ricevuto per disposizione divina (per i Ministri sacri o per il Vescovo della Chiesa di Roma) o ecclesiastica (tutti gli incarichi disposti dalla giurisdizione ecclesiale) avente finalità pratiche (exercendum), il cui fine ultimo però non è materiale bensì spirituale. L’identità dell’«officium» e quindi del proprio «munus» (incarico) include sempre l’aspetto pratico per la sua esecuzione (exercendum). Separare questi aspetti, l’«officium» e il «munus» dalla propria esecuzione significa invalidare la definizione di «officium ecclesiasticum». Pertanto, non si dà la possibilità formale di separare l’ESSERE dal FARE pena invalidare la definizione canonica di «officium ecclesiasticum». Infatti, tutte le citazioni riportate dalla Acosta sia nel CDC sia nella UDG (253 § 1 CDC, 333 § 1 CDC, 377 § 2 CDC, 425 § 1 CDC , 430 § 1 CDC , 478 § 2 CDC, 481 § 2 CDC, 494 § 2 CDC, 622 CDC, 623 CDC, 749 § 1 CDC, 810 § 1 CDC , 833 6° e 7° CDC, 1381 § 2 CDC, 1420 § 5 CDC, 14 UDG, 15 UDG, 21 UDG) a difesa dell’idea di ESSERE (ufficio, carica, posizione) sono sempre riportate nella traduzione italiana come «incarico» oppure «ufficio», termini che includono nella propria semantica una destinazione fattuale (FARE), non come orpello aggiuntivo ma costitutivo del senso. Quindi non esiste una semantica di «officium» o «munus» bifronte, tra l’ESSERE e il FARE, bensì un’unica semantica che include sempre la dimensione «esecutiva» (exercedum esse). Tutto ciò a prescindere dal termine «ministerium», il quale ricopre un significato molto più ampio nel CDC rispetto a quella di «officium» e «munus» per il fatto stesso che il campo semantico di «ministero» si avvale della figura che incarna l’esercizio del «ministerium», cioè il «ministro» e nel definire i Clerici (Vescovi, Presbiteri e Diaconi) il CDC al Titulus III, can. 232ss li chiama appunto «ministri sacri», deputati ai «ministeri sacri». Qui sì che si ravvisa una dimensione decisamente ontologica e pratica insieme nella natura dei «ministri sacri» a cui competono i «ministeri sacri». Tale esercizio dei ministeri raggiunge anche il laicato, come è noto. Quindi la dimensione semantica di «ministerium», con i propri ministri, è decisamente più complessa e più ampia di quella relativa all’«officium» e al «munus». Già solo questo lascia intendere quanto l’espressione «ministerium petrinum» potenzialmente si presti ad un’apertura maggiore di senso ecclesiale e teologico rispetto al «munus petrinum» e non viceversa come sostengono Acosta e Cionci. A questo proposito un grande esperto di queste problematiche, il card. P. Erdö, così si esprime:

Le azioni svolte nel nome della Chiesa, cioè le attività pubbliche della medesima possono chiamarsi ministeri. Tra questi ministeri alcuni appartengono alla missione speciale dei ministri sacri e si chiamano opportunamente sacri ministeri. Altri sono i ministeri semplici. Qualora l’esercizio di qualche ministero si effettui nel quadro di un istituto giuridico che comporta l’affidamento di un complesso di diritti e doveri riguardanti tale attività pubblica a una persona, si può parlare di una carica, ossia di un “munus” pubblico in senso speciale. Sia i sacri ministeri che quelli semplici possono essere esercitati occasionalmente o nel quadro di una carica. Quelle cariche pubbliche stabilmente costituite che rispondono ai criteri elencati nel canone 145, si chiamano uffici ecclesiastici. Tra questi alcuni si qualificano “uffici sacri”, altri invece uffici semplici che non comportano l’esercizio del sacro ministero[10]

Da queste note dovrebbe essere chiaro che la distinzione cavalcata dalla scuola dell’Acosta tra «munus» e «ministerium» appare debole e infeconda non solo nei canoni dedicati al Sommo Pontefice dove non c’è neppure l’accostamento dei termini ma in tutto il CDC e nella UDG. Ma soprattutto quella distinzione non riesce ancora a spiegare quale possa essere stato il motivo della compresenza terminologica nella stessa Declaratio di Papa Benedetto XVI vista la vacuità e l’infondatezza della tesi sulla loro netta differenza semantica.

2) Il contributo di Giovanni Paolo II al tema della definizione del «ministerium Petrinum»

Fu soprattutto Giovanni Paolo II a chiarire, alla luce dell’ecclesiologia del Vaticano II, le dimensioni rinnovate del primato petrino. Su questo argomento abbiamo una serie di interventi e in particolare due: l’Udienza generale del mercoledì 24 febbraio 1993 (QUI) in continuità con la precedente del 27 gennaio 1993 (QUI) e il Discorso ai Cardinali per gli auguri natalizi del 21 dicembre 1999 (QUI).

L’importanza delle parole dell’Udienza generale del 24 febbraio 1993 risiede nell’avere connotato con chiarezza la natura della potestas ordinaria, suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, sempre liberamente esercitata del Vescovo di Roma in forza del suo incarico (munus) che ha ricevuto nella successione dell’apostolo Pietro. Ebbene la natura di tale potestas iurisdictionis di diritto divino – nel testo dell’Udienza generale del 24 febbraio 1993 – è definita «servizio» e in latino «ministerium»:

In questo spirito di comunione ecclesiale, continuiamo ora a riflettere insieme sul ministero petrino, fondamento dell’unità della Chiesa.

Nella catechesi precedente abbiamo parlato del vescovo di Roma come successore di Pietro. Questa successione è di fondamentale importanza per l’adempimento della missione che Gesù Cristo ha trasmesso agli Apostoli e alla Chiesa. Il Concilio Vaticano II insegna che il vescovo di Roma, come “Vicario di Cristo”, ha potestà “suprema e universale” su tutta la Chiesa (LG 22). Questa potestà, così come quella di tutti i vescovi, ha carattere ministeriale (ministerium = servizio), come già notavano i Padri della Chiesa. È alla luce di questa tradizione cristiana che devono essere lette e spiegate le definizioni conciliari sulla missione del vescovo di Roma, tenendo presente che il linguaggio tradizionale usato dai Concili, e specialmente dal Concilio Vaticano I, circa i poteri sia del Papa sia dei vescovi impiega, per farsi capire, i termini propri del mondo giuridico civile, ai quali occorre, in questo caso, dare il giusto senso ecclesiale. Anche nella Chiesa, in quanto aggregazione di esseri umani chiamati a realizzare nella storia il disegno che Dio ha predisposto per la salvezza del mondo, il potere si presenta come una esigenza imprescindibile della missione. Tuttavia il valore analogico del linguaggio usato permette di concettualizzare il potere nel senso offerto dalla massima di Gesù sul “potere per servire” e dalla concezione evangelica della guida pastorale. Il potere richiesto dalla missione di Pietro e dei suoi successori si identifica con questa guida autorevole e garantita dalla divina assistenza, che Gesù stesso ha enunciato come ministero (servizio) di pastore.

Occorre passare da una terminologia giuridica, utilizzata dalla tradizione civilista per esprimere i poteri dei Vescovi e del Papa, ad una terminologia ecclesiale, quindi più propria della natura della Chiesa. E tale passaggio è svolto esattamente entro la categoria di «ministerium» che assume un valore inglobante la natura e l’esercizio della potestas ordinis e iurisdictionis. È evidente che la categoria di «ministerium» non rappresenta unicamente la caratteristica pratica ma dice la stessa declinazione ecclesiale della potestas universale, ovvero del «ministero universale» della Chiesa nel «ministero del primato petrino». L’origine di tale potestas sta in Cristo stesso che la trasmette in forma «vicariale» a Pietro e al successore di Pietro, il papa di Roma perché sull’esempio di Cristo possa essere, secondo uno dei suoi titoli, «Servus servorum Dei». In forza dell’incarico («munus») viene trasmessa la potestas di Cristo che ha il suo carattere ministeriale e vicariale. La potestas iurisdictionis del primato petrino è condizionata dalla potestas ordinis in quanto il «munus» del Romano Pontefice è trasmesso da Cristo solo unitamente alla Consacrazione episcopale. È sulla potestas ordinis, dunque, che si fonda la relazione del primato e della comunionalità con il Collegio Apostolico. Anche il corpo episcopale collegialmente possiede la pienezza della potestas unitamente al Papa che la possiede a titolo personale. Pertanto, perché si realizzi la relazione tra queste due potestates, quella personale del primato petrino e quella collegiale dei Vescovi è necessario che la potestas ordinis e la potestas iurisdictionis siano compresenti collegialmente per i Vescovi e personalmente per il Papa ed entrambe le potestates abbiano il carattere unico di «servizio/ ministerium». La rinuncia al «ministerium petrinum» inibisce tale sistema di relazione stretta tra la pienezza della potestas personale del Papa e la pienezza della potestas universale collegiale di tutti i Vescovi. Pertanto, non solo la potestas iurisdictionis del Pontefice ha origine divina ma anche quella dei Vescovi in quanto successori degli Apostoli:

Occorre anzi ricordare una dichiarazione dell’Episcopato tedesco (1875), approvata da Pio IX, che suona: “In forza della stessa istituzione divina, su cui si fonda l’ufficio del Sommo Pontefice, si ha anche l’Episcopato: ad esso competono diritti e doveri in forza di una disposizione che proviene da Dio stesso, e il Sommo Pontefice non ha né il diritto né la potestà di mutarli”.

Ben si comprende che una riduzione della categoria di «ministerium» al FARE è lontana mille miglia dai valori ecclesiali qui espressi e fondati sui documenti conciliari e sul CDC. Con queste parole, infatti, Giovanni Paolo II precisa tali aspetti:

A questo proposito, è bene precisare subito che questa “pienezza” di potestà attribuita al Papa non toglie nulla alla “pienezza” che appartiene anche al corpo episcopale. Si deve anzi affermare che entrambi, il Papa e il corpo episcopale, hanno “tutta la pienezza” della potestà. Il Papa possiede questa pienezza a titolo personale, mentre il corpo episcopale la possiede collegialmente, essendo unito sotto l’autorità del Papa. Il potere del Papa non è il risultato di una semplice addizione numerica, ma il principio di unità e di organicità del corpo episcopale. Proprio per questo il Concilio sottolinea che la potestà del Papa “è ordinaria e immediata sia su tutte le Chiese, sia su tutti e singoli i fedeli” (Denz. 3064). È ordinaria, nel senso che è propria del Romano Pontefice in virtù del compito a lui spettante, e non per delegazione dei vescovi; è immediata, perché egli può esercitarla direttamente, senza il permesso o la mediazione dei vescovi.

Al termine di questa chiarificazione credo che l’articolazione dei termini del problema in «munus» (= ESSERE) e «ministerium» (= FARE) appaia assolutamente impraticabile perché ciò che ontologicamente rappresenta il passaggio da Cristo alla Chiesa è esattamente la realtà ministeriale, nella «potestas/ ministerium» di Cristo stesso. E il sintagma che raccoglie tutti questi aspetti regolarmente utilizzato da Giovanni Paolo II è esattamente «ministerium petrinum» in luogo di «munus petrinum», carente delle relazioni personali e comunitarie visibilizzate attraverso i «ministri sacri»: il Papa e i Vescovi rispetto a tutta la Chiesa universale.

3) La comprensione della Constitutio Apostolica “Universi Dominici Gregis” (UDG) (1996) alla luce dell’identità ecclesiale della «potestas» come «ministerium»

A seguito del contributo di Giovanni Paolo II del 1993 meglio si comprende anche l’utilizzo, in chiusura della UDG, dell’espressione «initio ministerii novi Pontificis» nell’ampiezza teologica del termine «ministerium». Se l’espressione fosse stata: «initio muneris novi Pontificis» l’accezione si sarebbe presentata in senso giuridico, formale e meramente funzionale; cosa che è superata dalla categoria apostolica «personale e collegiale» di «ministerium petrinum». Il 24 aprile dell’anno 2005 il Sommo Pontefice Benedetto XVI presiedeva la celebrazione eucaristica indicata nel testo dalle seguenti parole: «Santa Messa. Imposizione del Pallio e consegna dell’Anello del pescatore per l’inizio del ministero petrino del Vescovo di Roma» (QUI). Circa otto anni dopo, l’11 febbraio 2013 di fronte al concistoro dei cardinali Papa Benedetto XVI annunciò il termine di tale «ministero petrino» con la famosa Declaratio.

4) «munus» e «ministerium» quali termini acutamente scelti da Benedetto XVI nella Declaratio: un tentativo di risposta alla luce della comprensione del significato di «ministerium»

La distinzione dei termini «munus» e «ministerium» utilizzati nella Declaratio è nota ai canonisti, ignota resta l’interpretazione autentica del suo autore, il Papa Benedetto XVI. Gli estremi vanno da un’interpretazione sinonimica dei termini in gioco (la stragrande maggioranza dei canonisti), sostenendo l’intercambiabilità degli stessi e riportati in traduzione con il lemma «ministero» ad un’interpretazione come quella di Cionci e di Acosta che vi colgono un’apposita strategia per trattenere l’essenza del primato petrino rinunciando all’esercizio, spaccando in due la questione dell’incarico petrino, invalidando in questo modo la stessa Declaratio, come è stata accolta ufficialmente, e il successivo Conclave, con tutto ciò che ne consegue…

La posizione qui sostenuta che rientra in quella che abbiamo chiamato la «lettura “C”» riconosce la non sinonimia e intercambiabilità dei due termini istruendo il secondo – «ministerium petrinum» – alla luce delle riflessioni sopra riportate, e alieno da ogni forma di riduzione all’esercizio funzionale di un ufficio. Nel testo della Declaratio l’allora Papa Benedetto in forza del suo potere pontificio convalidando la semantica di «ministerium petrinum» come è stata stabilita da Giovanni Paolo II, ha espresso una rinuncia che include tutti gli aspetti cristologici, ecclesiali e canonici richiesti dal CDC che illustrano il «munus» del Romano Pontefice; pertanto, canonicamente parlando, la rinuncia è assolutamente valida, come ritiene la stragrande maggioranza degli studiosi oltre  il sensus fidelium ed ecclesiae della Chiesa cattolica nel mondo intero. Quindi si tratta di una valida rinuncia al Sommo Pontificato! E il differimento alle ore 20,00 del 28 febbraio del 2013 non costituisce affatto un problema, poiché la Declaratio aveva la forma della dichiarazione di un intento la cui validità fu cronologizzata entro il testo stesso.

Invece, il vero problema è decriptare il probabile ampliamento di significato apportato dal testo della Declaratio alla categoria di «munus petrinum» che pare esplicitare un non detto nel CDC e debordare da una prospettiva meramente giuridica della questione. Occorre, per questo, analizzare con attenzione i due passi in cui ricorre il termine «munus» per cercare di comprendere come Papa Ratzinger volesse intendere quella realtà lì indicata, di fronte alla quale si trovava a rinunciare.

+ «ad munus Petrinum aeque administrandum»

Anzitutto la dizione «munus Petrinum» della Declaratio non esiste nel CDC e neppure esiste l’aggettivo «petrinum» mentre invece si presenta nella formula di giuramento contenuta nella UDG 53 (QUI), pronunciata dal cardinale decano o dal cardinale più anziano a nome di tutti i  cardinali con le seguenti parole:

Parimenti, promettiamo, ci obblighiamo e giuriamo che chiunque di noi, per divina disposizione, sia eletto Romano Pontefice, si impegnerà a svolgere (exsecuturum esse) fedelmente il munus Petrinum di Pastore della Chiesa universale e non mancherà di affermare e difendere strenuamente i diritti spirituali e temporali, nonché la libertà della Santa Sede.

L’utilizzo della lettera maiuscola per «Petrinum» depone ulteriormente a stabilire la relazione tra testo della Declaratio e UDG. Di conseguenza, anche l’altro termine «ministerium» nella Declaratio dipende direttamente dalla UDG, come ho già mostrato.

Che cosa precisamente afferma Papa Benedetto XVI in questo primo passaggio della Declaratio?

Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare (administrandum esse) in modo adeguato il ministero petrino (testo scritto e letto in latino: munus Petrinum).

Si coglie la presenza del valore semantico di «ministerium» nell’espressione perifrastica «ad-ministrandum esse»: forze venute meno ed età avanzata pongono Papa Benedetto XVI nella condizione di non potere più «amministrare» in modo adeguato il «munus Petrinum». E fin qui non si riscontra nulla di anomalo; la ripresa del tema subito al seguito invece può divenire fonte di innovazione semantica del «munus Petrinum» stesso.

+ «secundum suam essentiam spiritualem»

È in questo secondo passaggio che Papa Benedetto XVI fa un’affermazione non ben comprensibile alla luce dei canoni del CDC dedicati al Romano Pontefice, tutti tesi a definire l’articolazione del suo «munus» con la relativa potestas iurisditionis, laddove non si fa alcun cenno a dimensioni spirituale, sebbene siano presupposte. Ora così si esprime Papa Benedetto XVI in questo passaggio:

Sono ben consapevole che questo ministero (hoc munus), per la sua essenza spirituale (secundum suam essentiam spiritualem), deve essere compiuto (exsequi debere) non solo con le opere e con le parole (non solum agendo et loquendo), ma non meno soffrendo e pregando (sed non minus patiendo et orando).

Il punto di svolta sta nel comprendere dove risieda canonicamente parlando l’«essenza spirituale» del «munus Petrinum». Stefano Violi ritiene che derivi direttamente dall’esperienza maturata da Joseph Ratzinger a contatto diretto con la malattia sempre più incipiente e la sofferenza prolungata di Papa Giovanni Paolo II negli ultimi anni della sua vita terrena [11]. Al di là di questo interessante spunto esistenziale offerto da Stefano Violi, tale essenza spirituale del «munus» non pare ritrovi riscontro diretto in documenti inerenti all’esercizio del Papato. Si tratterebbe, allora, di una valutazione personale e afferente all’esperienza spirituale stessa vissuta da Papa Ratzinger lungo i suoi otto anni di Pontificato. Stefano Violi però, nella sua ipotesi, interpreta l’essenza spirituale del Papato sostanzialmente relativa solo al secondo binomio del «patiendo et orando», ma Papa Benedetto XVI nell’essenza spirituale del «munus Petrinum» v’include anche l’«agendo et loquendo» e quindi non è possibile sostenere che Benedetto XVI non abbia rinunciato al «munus Petrinum» essendosi trattenuto la «potestas officii» e parte della sua «executio», cioè quella spirituale del «patiendo et orando»; a livello testuale non è possibile approdare a questa conclusione.

E dunque, ripongo la questione: dove fonda Papa Ratzinger l’affermazione che il «munus Petrinum» ha un’essenza propria di tipo spirituale? La risposta credo di trovarla nel già citato can. 145 § 1 del CDC in cui si evidenzia che l’«Officium ecclesiasticum» è un «munus» costituito stabilmente per disposizione divina, come il «munus Petrinum», e va esercitato (exercendum) con un fine spirituale (in finem spiritualem). È entro tale fine spirituale di ogni «officium/ munus» che Papa Ratzinger fonda la possibilità di continuare a partecipare al «munus» dal punto di vista spirituale, pur non esercitandolo più come incarico ricevuto da Cristo o dalla Chiesa. Poiché la dimensione spirituale appartiene al soggetto-persona e non all’ufficio come ente oggettivo si comprende quanto il ministro sacro (un Vescovo divenuto Papa) possa continuare a vivere una spiritualità personale, acquisita dall’esercizio del «munus Petrinum» che è chiamata a declinarsi nella persona di un Vescovo di Roma che ha lasciato il suo ministero per quella Chiesa. Non si tratta di violare la natura dell’«officium ecclesiasticum» con il suo «munus», bensì di partecipare spiritualmente con la collegialità episcopale di chi ha amministrato il primato petrino. Rinunciando al «ministerium petrinum» che include l’«officium» e il «munus» con la relativa potestas iurisdictionis colui che è stato Vescovo di Roma continua ad essere legato alla finalità spirituale del «munus Petrinum», come ogni Vescovo emerito di una Diocesi può continuare a vivere interiormente e spiritualmente la comunione con la finalità spirituale dell’Officium a cui ha rinunciato. E questo, analogamente alla natura episcopale del Vescovo emerito di una Diocesi anche la titolazione di «Papa emerito» acquisisce il suo significato, chiarendo che il Papa titolare della Cattedra di Pietro è Francesco, mentre Benedetto è il Papa emerito che spiritualmente vive in unità profonda con il «ministero petrino» di Francesco. Tale prospettiva non scombina l’assetto canonistico, semplicemente scorporando l’Ufficio ecclesiastico rispetto alla persona che lo ricopre permette una continuità con la dimensione che precede, attraversa e va oltre l’Ufficio stesso e il «munus», quella «spirituale», appunto.

Conclusione chiusa

Nel primo scritto, la recensione al libro di Cionci, terminavo con una «Conclusione aperta», qui invece la connoto come «chiusa» nel senso che non ho intenzione di replicare ulteriormente ad un’eventuale controreplica di Cionci e Acosta. Vi sarebbero molti punti ancora sui quali obiettare e scrivere ma c’è un limite a tutto, anche alla discussione infinita; c’è un tempo per meditare, riflettere, pensare e pregare. In questo, credo, possiamo ispirarci al silenzio del Papa emerito Benedetto XVI, pregare per lui e per il suo successore Francesco.

Credo che ora il lettore possa con abbondanza di dati valutare le argomentazioni offerte in entrambi i campi (quello della «lettura “B”» di Cionci e Acosta e quello della «lettura “C”» del sottoscritto) e misurare la verosimiglianza con il dato di realtà nella sua interpretazione.

silvio.barbaglia@gmail.com

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[1] P. Seewald (a cura di), Benedetto XVI. Ultime conversazioni, Garzanti, Milano 2016, pp. 38-39.

[2] «Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro», Udienza generale, mercoledì 27 febbraio 2013.

[3] Cfr. A. Cionci, Codice Ratzinger, Byoblu Edizioni, Milano 2022, pp. 155-160.

[4] A. Cionci, Codice Ratzinger, pp. 175-178.

[5] A. Cionci, Codice Ratzinger, pp. 177-178.

[6] A. Cionci, Codice Ratzinger, 94ss e P. Seewald (a cura di), Benedetto XVI. Ultime conversazioni…, 31.

[7] «Nachdem» nel linguaggio colloquiale del sud della Germania e in Austria assume anche un valore causale.

[8] P. Seewald, Letzte Gespräche, Droemer Verlag, Munich 2016, p. 38.

[9] Ringrazio la professoressa Alessandra Pedrazzini per la consulenza nella traduzione dal tedesco.

[10] P. Erdö, «Sacra ministeria» e uffici ecclesiastici per eccellenza, in Ius in vita et in missione Ecclesiae, a cura del Pontificium Consilium de Legum Textibus Interpretandis, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1994, pp. 862-863 citato in: G. Boni, Due papi in Roma?, in: «Stato, Chiese e pluralismo confessionale» 33 (2015) 65.

[11] La tesi di Stefano Violi (cfr. S. Violi, La rinuncia di Benedetto XVI. Tra storia, diritto e coscienza, in: «Rivista di Teologia di Lugano» 18 [2/2013] 155-166) è nota agli addetti ai lavori nel distinguere il «munus» in «munus» ed «executio muneris» e, a sua volta, quest’ultima distinta in due attività: «executio» amministrativo-ministeriale che corrisponde al binomio «agendo et loquendo» e una più spirituale che corrisponde al binomio della Declaratio «orando et patiendo». Si veda la critica severa di: G. Boni, Due papi in Roma?, in: «Stato, Chiese e pluralismo confessionale» 33 (2015) 60ss.

Aldo Maria Valli:
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